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Racconti per piccole iene
Racconti per piccole iene
Racconti per piccole iene
E-book173 pagine2 ore

Racconti per piccole iene

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Info su questo ebook

Le masse conoscono Manuel Agnelli da poco tempo, grazie a un noto programma televisivo. Per migliaia di amanti della musica, però, Manuel Agnelli è il leader degli Afterhours, un gruppo che ha segnato la storia del rock italiano. C’è chi li ha conosciuti nel ’97 con il capolavoro Hai paura del buio?, chi più tardi con Quello che non c’è o Ballate per piccole iene, e c’è chi li seguiva addirittura dai primi album in inglese.
Questa è un’antologia di scrittori che attingono alla loro passione e ne traggono racconti ironici, dove la musica degli Afterhours fa da sottofondo discreto, o racconti intensi, in cui gli After sono un riferimento costante, compagni di strada e di percorsi.
Racconti di vita, di morte, di passaggi, di dolori, di concerti. Racconti in cui il linguaggio si fonde con quello dei brani più belli per diventare sperimentazione e parola nuova.
Manuel e la sua presenza, Manuel e le sue parole, Manuel che incarna l’ideale di un uomo sfuggente eppure sempre presente. Manuel nel passato, Manuel nel cuore e negli occhi di tutti.
Quattordici dichiarazioni d’amore all’universo Afterhours, curate da due fan storici come Gianluca Morozzi e Fiammetta Scharf.

Gianluca Morozzi, scrittore e musicista, è nato a Bologna nel 1971. Ha esordito con il romanzo Despero (Fernandel, 2001) e ha pubblicato numerosi romanzi, racconti, testi teatrali, tra cui il thriller di successo Blackout (Guanda, 2004) e Lo specchio nero (Guanda, 2015), e altri romanzi e saggi incentrati sulle sue due grandi passioni, la musica e il calcio: Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen (Castelvecchi, 2011) e Forza Bologna! Una vita in rossoblu (Perrone, 2012). Dal 2010 è insegnante di scrittura creativa. Ha tenuto laboratori e workshop e ha curato diverse antologie, tra cui Bologna in giallo (Felici), Serial Kitchen (Cicogna), Weekend con il mostro (Fernandel), Fucsia (Clown bianco).
Con Alessandro Berselli dirige la collana Pendragon gLam per Pendragon.
Conduce il programma radio L’era del Moroz su Radiocittà Fujiko.
Come musicista ha partecipato al disco-tributo a Vasco Rossi “Deviazioni” (uscito in allegato al Mucchio Extra), all’album degli Avvoltoi “L’altro dio”, all’album di Enrico Brizzi & Yu Guerra “La vita quotidiana ai tempi di Silvio” e alla compilation “Il natale non è reale”. Ha suonato nei Mesmero, nei Lookout Mama e negli Street Legal.
Fiammetta Scharf è autrice, regista, scrittrice, attrice, si diploma in regia e recitazione al teatro Libero di Milano. Ha scritto e diretto drammaturgie per il teatro (Museum, C’erano le ciliegie Matture, Malleus Maleficarum, A.L.I.C.E.), cortometraggi, videoclip musicali, racconti (Dylan Revisited, Manni editore).
Si è diplomata come sceneggiatrice presso la Civica Scuola del Cinema di Milano. Ha pubblicato un romanzo, Il teorema di Cirano (ed. Eumeswil).
Per due anni ha tenuto, per il portale online Wellme.it, un’apprezzatissima rubrica dal titolo “L’insostenibile ironia del Sesso”. Ha scritto e messo in scena un suo monologo, “Venere in scorpione”, sull’alienazione quotidiana.
Insegna recitazione da circa vent’anni anni.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2017
ISBN9788861556874
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    Racconti per piccole iene - Gianluca Morozzi

    Gianluca Morozzi

    e Fiammetta Scharf

    Racconti per

    piccole iene

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    ISBN 978-88-6155-687-4

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2017

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    CI SONO MOLTI MODI DI MORIRE A METÀ

    Gianluca Morozzi

    Sono nervoso. Ci crederesti? Alla mia età. Nervoso come un ragazzino.

    Aspetta, è presto, bevi qualcosa con me, prima di andare a vedere i nostri rispettivi concerti. Tanto lo so che Valentina è già arrivata all’Estragon, lo so che si è messa in fila con le porte ancora chiuse, perché lei vuole andare proprio al centro, sotto il palco, di fronte al microfono di Manuel.

    Lo sai, a pensarci è incredibile. Che siano passati vent’anni, prima di tutto. Ma soprattutto lo sviluppo, il percorso che si è srotolato da quei due cruciali giorni del ’97…

    …cioè, per un quarto di secolo tutto si muove lentamente, c’è un evento, poi secoli di nulla, poi un altro evento, e così via. E tutto d’un tratto, di colpo, in due giorni vai a convivere con Greta. Scopri gli Afterhours. E conosci Valentina.

    In quest’ordine preciso.

    Allora, era il 1997, come ti dicevo. Vent’anni fa esatti.

    Io scrivevo orribili racconti plagiando Stephen King. Mandavo i racconti ai concorsi e alle riviste letterarie, perdevo i concorsi, le riviste mi cestinavano.

    Tutto normale, mi dicevo, è gavetta, il duro percorso che precede l’esordio, che ti tempra e ti fortifica.

    Io e Greta stavamo insieme da una mezza vita, dall’esordio dei Guns’n’Roses. Io avevo vinto il concorso da bibliotecario, e per la prima volta avevo uno stipendio. Lei si era messa a lavorare fin dopo il diploma, e il suo conto in banca era piuttosto decoroso. Non sembrava troppo assurda l’idea di andare ad abitare insieme. In affitto, all’inizio. In attesa di poterci comprare casa, e sposarci, magari, a un certo punto. Fare un bambino o due, magari, a un certo punto. Io, in quel mondo gretacentrico, in cui metà dei pensieri che abitavano la mia testa erano figli diretti della mentalità di Greta, accettavo questi passaggi come logici, sensati e naturali.

    Quel mattino il trasloco era pressoché finito. Dovevo solo aspettare il padre di Greta con gli ultimi scatoloni, e poi ci saremmo trasferiti in via definitiva nel nostro bilocale a San Donato. Nell’attesa ero passato dall’edicola. Avevo comprato «Il Mucchio Selvaggio». Ero andato a cercare le recensioni dei dischi nuovi.

    C’era una recensione, tra le tante, che sembrava brillare come una piccola stella. Pareva stampata in caratteri tridimensionali, tanto era luminosa. Federico Guglielmi recensiva Hai paura del buio? degli Afterhours.

    Ecco, non so se conosci la sensazione. Due minuti prima neppure sapevo che esistesse una band chiamata Afterhours, due minuti dopo scoprivo che erano in giro da dieci anni e che, soprattutto, quel disco intitolato Hai paura del buio? lo volevo assolutamente ascoltare. Forse anche comprare, ma quello lo avrei deciso poi: mi ero appena accollato un affitto, e prima di tirar fuori delle banconote da diecimila lire dal portafogli ci dovevo un attimo pensare.

    Quel pomeriggio, dopo aver sistemato gli ultimi scatoloni, ero andato alla Virgin di via Farini. Te la ricordi? Quel negozio di dischi nello spazio della vecchia chiesa, dove c’erano gli angoli di ascolto per sentire i cd con le cuffie. Avevo trovato gli Afterhours. E avevo valutato se acquistarlo o meno, quel disco dalla bizzarra copertina.

    Mi erano bastati dieci minuti. Tre pezzi, o poco più. Già a Rapace ero convinto e straconvinto. Ma mica per la bestemmia iniziale di 1.9.9.6., per il violino malato, per i chitarroni. Per tutto.

    Il genio non è quello che dà alla gente ciò che vuole, il genio è quello che dà alla gente ciò che la gente vuole ma non sa di volere.

    Per esempio: secondo me, nel ’76, tanti avevano un desiderio sepolto e inespresso, un desiderio che suonava come Ehi, spero proprio che venga fuori una band con i componenti vestiti tutti uguali, con lo stesso falso cognome, che suoni canzoni brevissime da tre accordi, con pennate tutte in basso velocissime. Non sapevano di volere i Ramones fino a quando non sono comparsi i Ramones.

    Anch’io nel ’97 nella testa avevo un suono e un’estetica dei testi. Solo, non sapevo quali. Non era il rock internazionale a darmi dei problemi. In quel settore, la scelta non mancava. Quel che volevo io era una band italiana, che facesse qualcosa di... qualcosa tipo... qualcosa come...

    Volevo Hai paura del buio? Ma non sapevo di volerlo.

    Lo avevo ascoltato tutto il pomeriggio. E poi, dopo aver passato la prima notte da convivente nel bilocale, la mattina dopo avevo salutato Greta, avevo infilato Hai paura del buio? nel lettore cd portatile, regalo di compleanno dei miei, ed ero salito su un treno diretto in Toscana.

    Andavo a un concorso letterario a Grosseto. Si chiamava Vite Agre. Era dedicato, naturalmente, a Luciano Bianciardi. E l’album degli Afterhours, sui treni economici che mi avevano portato a Grosseto, avevo fatto in tempo ad ascoltarlo tutto almeno quattro volte.

    Io, fin lì, avevo partecipato a sessantasette concorsi letterari. Non ne avevo vinto neanche uno. Quando dico non ne avevo vinto neanche uno, però, non rendo abbastanza la vastità del mio fallimento. In otto anni di partecipazioni non ero mai arrivato neppure secondo, o terzo, o quarto. Non avevo ricevuto neppure una misera segnalazione dalla giuria. Per dirla in poche parole: non ero mai stato nominato né chiamato sul palco. Eppure, per qualche motivo, non ero ancora impazzito.

    Sono giovane, mi ripetevo, non ho ancora trent’anni, va bene, non sarò il bambino prodigio della letteratura, ma questa è la parte che un giorno, nella mia autobiografia, ricorderò come la sofferta ma divertente gavetta, come le band che ricordano i primi concerti per cinque spettatori alla Sagra dell’Asparago di Funo di Argelato. E col pensiero della Sagra dell’Asparago di Funo di Argelato, continuavo a mandare i miei racconti ai concorsi, a prendere trenini western, o spingere la mia cigolante Panda sulle autostrade per andare alle serate di premiazione, speranzoso.

    Quando fai il tifo per una squadra che perde sempre, a un certo punto, per sopravvivenza psichica, trovi cose positive anche nell’ennesima sconfitta. Una partita giocata meno peggio delle altre, un bel gol segnato dopo averne presi cinque. E così facevo io: a un certo punto, per come me l’ero aggiustata mentalmente, l’unica cosa importante di quelle umilianti giornate era il sacro Momento del Bar. Ovvero, quella fase che seguiva la premiazione, quando gli sconfitti si radunavano in un bar vicino, ordinavano qualcosa di selvaggio e alcolico, e vomitavano fiele e disincanto sulle giurie e su quei cazzo di concorsi per esordienti. Al Momento del Bar, ovviamente, non potevano partecipare i vincitori, i secondi classificati, i terzi classificati, i menzionati, chiunque fosse stato nominato dai giurati. Che se ne tornassero a casa, a lucidare la targa del premio Lorenteggio Noir o Catanzaro Fantasy, anziché disturbare noialtri scrittori ancora puri.

    Però, per la ragazza dagli occhi scintillanti avevo fatto un’eccezione.

    Lei non aveva vinto, non era arrivata seconda, non era arrivata terza, ma aveva ricevuto una menzione. Quindi era salita sul palco del premio Vite Agre, e due cose mi avevano colpito di lei.

    Intanto il titolo del suo racconto: La sostanza si vendica sulla poesia.

    Poi, i già nominati occhi. Degli occhi così esplosivi, come il sole dell’Artico che si riflette su un iceberg. Tanto vistosi che il resto del corpo sembrava quasi un supporto per quei due incredibili fari, come una band che sale sul palco con un cantante così carismatico e virtuoso che neppure ti accorgi se la sezione ritmica è valida o se il chitarrista è scarso: rimani lì, abbacinato dalla sua voce lacerante.

    In più, il supporto ai suoi occhi era più che ragguardevole: bel sorriso, bel fisico, seno piccolo ma grazioso. Insomma, un’ottima band con un cantante strepitoso.

    Allora, quando la premiazione era finita, mi ero avvicinato a lei dicendo in fretta: «Noi andiamo a bere qualcosa qui vicino, vieni anche tu?»

    Gli altri scrittori sconfitti mi avevano guardato come se fossi salito sul palco e avessi afferrato il microfono per strillare l’inizio di 1.9.9.6. Poi avevano guardato bene miss Menzione Vite Agre 1997, e avevano accettato l’eccezione.

    Si chiamava Valentina Marzo, e con quel nome e cognome non avrebbe mai dovuto cercarsi uno pseudonimo, come le avevo detto cercando di fare lo spiritoso. Veniva da quello che aveva definito un agghiacciante paesello vicino Cremona, il che voleva dire che si era fatta un bel viaggio, per arrivare a Grosseto.

    Nel bar in cui ci eravamo radunati, eravamo in due a marcare Valentina Marzo. Mentre gli altri borbottavano e si lamentavano della composizione della giuria, del basso livello dei testi vincitori, dell’inutilità di quei concorsi per esordienti, un certo Emilio Bombardini, barbutissimo, capellutissimo, tentava di circuire Miss Menzione snocciolando pagine e pagine di Céline – che chiamava il caro Louis-Ferdinand, come fosse stato un suo compagno di scuola –, di Bukowski – il vecchio Buk –, di qualche centroamericano della scuola del realismo magico e di un De Carlo prima maniera, periodo Treno di panna, periodo Uccelli da gabbia e da voliera. Il tutto scolandosi amari su amari, mentre alla spicciolata, senza che quasi noi tre ce ne accorgessimo, gli sconfitti poco alla volta se ne andavano per tornare alle loro città.

    Quando il dannato barbone era riuscito a farla ridere citando David Lodge, in fretta avevo sfoderato la mia arma segreta. Le avevo detto: «Bello il titolo del tuo racconto», e avevo aperto lo sportello superiore del lettore cd. In modo da farle vedere che stavo ascoltando l’album che conteneva il verso La sostanza si vendica sulla poesia, nella canzone Questo pazzo pazzo mondo di tasse, sedicesima traccia su diciannove.

    Lei aveva sorriso. «Ero indecisa tra questo titolo e Il naturale processo di eliminazione», aveva detto, e dalla mia espressione stolida aveva capito tutto. Il suo sorriso aveva cambiato piega leggermente, era diventato: sei buffo a voler far colpo su di me usando una band che conosci da due giorni, forse, mentre io gli Afterhours li ascoltavo già da prima di Germi, che tra parentesi è il disco che contiene Dentro Marilyn, che tra parentesi è la canzone che contiene il verso che ho appena citato, io li ascoltavo non dico proprio dall’87, ma da Pop Kills your Soul, perché tu verrai pure da Bologna e io da un agghiacciante paesello vicino Cremona, ma la musica bella me la andavo a cercare già nel ’93, caro mio.

    Quando il bar aveva chiuso le serrande, avevamo girato un altro po’ in formazione Jules & Jim, quella formazione che ci portava alla fine dell’album, a C’è un gioco che si gioca in tre. Fino a che Bombardini, in un attimo di lucidità, aveva realizzato un dettaglio fondamentale. Cioè, che tutti e tre avevamo perso il treno per il ritorno alle nostre rispettive case. Che fino all’alba non c’era modo di lasciare Grosseto. Che la sera di ottobre era mite, ma la temperatura stava calando in modo inesorabile.

    «Io non ho soldi per un albergo» avevo confessato, steso dalle due mensilità richieste dal padrone di casa, dal biglietto andata e ritorno, dall’acquisto di Hai paura del buio?

    «Io nemmeno» aveva fatto eco Bombardini, steso, forse, dai sette amari che aveva ordinato in stecca al bar.

    Valentina non aveva detto niente. Aveva sorriso, come a dire: io ce li avrei i soldi per un letto, ma ho pena di voi due disgraziati.

    «Venite con me», aveva ordinato.

    Valentina aveva partecipato a Vite Agre anche l’anno precedente, e conosceva quindi una vineria terrificante, dove l’aria sapeva di polvere e di aceto, con un oste sgradevole e incapace di articolare quattro sillabe

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