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Rapkoka
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E-book406 pagine5 ore

Rapkoka

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Info su questo ebook

Il commissario Lucien Bertot ha un nuovo collega: suo figlio. Antoine non è più un bambino: ha compiuto diciassette anni. Abbastanza per Lucien. E anche per Antoine. E comunque non è tempo di indecisioni. C’è un altro caso, e va risolto in fretta: trovare Mr Bye-Bye, il killer dei rapper. Prima che uccida ancora.
I Bertot: li chiamano così al Quai des Orfèvres, i colleghi amici e anche gli altri, quelli che dell’amicizia non sanno che farsene. I Bertot: il nome è piaciuto anche ai giornali francesi, perché le indagini condotte a due, da un commissario e da suo figlio ancora ragazzino, fanno notizia. L’idea funziona. Il commissario non rinuncia al suo stile di vita antiquato e ribelle: sinfonie di Tchaikovsky sul giradischi, metodi sbrigativi che le scuole di polizia non insegnano, qualche amico delinquente e amori impossibili. Antoine è lo sguardo sul mondo moderno che suo padre si rifiuta d’avere, tra locator, app, database e altri strumenti insospettabili per Lucien Bertot. A parte questo, Antoine ha una dote ereditaria: un infallibile istinto investigativo. Tutto suo padre. Quanto alla musica, niente classica per Antoine. Lui fa il rapper.
Forse non è un caso che i Bertot si siano ritrovati lungo la loro strada proprio Mr Bye-Bye. E in ogni modo sarà una lunga strada: una caccia all’uomo da Parigi a Londra a Oslo. E oltre. In nome di una parola misteriosa: Rapkoka.

Dalle banlienue di Parigi ai sobborghi eleganti di Londra fino ai fiordi della Norvegia. Un viaggio sentimentale attraverso cinque delitti.
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2019
ISBN9788861558090
Rapkoka

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    Anteprima del libro

    Rapkoka - Gianluigi Schiavon

    Gianluigi Schiavon

    RAPKOKA

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    info@giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-809-0

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2019

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    A mio figlio Gianlorenzo

    PERSONAGGI PRINCIPALI

    (in ordine di apparizione)

    Lucien Bertot, commissario del Quai des Orfèvres

    Antoine Bertot, figlio del commissario, investigatore e rapper chiamato Gunnar

    Angel, appassionato di freestyle

    Claudette, prostituta, amica e collega di Valentine

    Philippe Lagarde, in arte Wing, rapper, il miglior amico di Antoine

    Daniel Petit, in arte Petit, rapper

    Amélie, in arte Joy, rapper

    Alain Tournier, detto La Roche, poliziotto

    Louis Chevalier, ispettore di Calais

    Snoozer Aka Snap Snoozer, rapper

    Luc-Choc-Deville aka Jack-Big-Car, rapper

    Yassine Ben Jelloun, informatore del commissario Bertot, detenuto a Marsiglia

    Eirik Johansen, scultore cieco, e testimone

    Father Bro, frate rapper

    Swarovski, pugile

    Kasper Hagen, il Collezionista di romanzi noir, ex giudice

    Dag Olsen, ispettore norvegese

    ...E naturalmente: Pyotr Ilyich Tchaikovsky

    1 Nostalgie sulla Manica

    Le imperturbabili scogliere di Dover danzavano incuranti della propria maestosità. Il mare smanioso ne confondeva la vista ai passeggeri, sul traghetto scrollato dalle onde. Eppure conduceva quel gran ballo attraverso il Canale della Manica come un provetto cavaliere, risoluto nell’accompagnare il volteggio delle sue colossali e pallide damigelle sulle note della Quinta di Tchaikovsky.

    Il commissario Lucien Bertot con una mano alzò un poco il volume del vecchio walkman, mentre con l’altra teneva stretta la balaustra del ponte, lo sguardo fisso sulle rocce lattiginose che gli si agitavano davanti agli occhi. L’Andante cantabile del secondo movimento stava entrando sommessamente in scena per esagerare il romanticismo del paesaggio: l’assolo struggente del corno consegnò senza fretta la melodia all’oboe che la innalzò a triste speranza. E Bertot, il poliziotto più irriverente di Francia, si commosse. Ma per sua fortuna nessuno se ne accorse. D’altra parte, su quel ponte in mezzo alla tempesta, erano solo in due. E suo figlio Antoine non avrebbe mai parlato.

    Ora viene il moderato con anima, anticipò a bassa voce il commissario. E non si riferiva a se stesso, poiché né a lui né a nessun altro al mondo sarebbe mai venuto in mente di considerare moderata quella vita di eccessi. E quanto all’anima, tutti pensavano che nemmeno il diavolo l’avrebbe mai accettata in pegno da uno come Bertot. Per un attimo, ricordando un direttore d’orchestra testardo, il commissario staccò le mani dalla balaustra per accompagnare il finale del secondo movimento, e forse anche del Gran Ballo di Dover. Rischiò di cadere in avanti poiché il mare non aveva ancora concluso le sue piroette. Riagguantò subito l’equilibrio e si voltò verso suo figlio, che fece finta di non aver visto nulla.

    Cosa ascolti?, chiese Antoine.

    "Quinta sinfonia in Mi minore, opera 64, di Pyotr Ilyich Tchaikovsky".

    Ah.

    E tu?, chiese Bertot, spegnendo il walkman e indicando le cuffie giganti da rapper del figlio.

    Una roba mia. L’ho registrata prima di partire. Ma non riesco a trovare il titolo giusto.

    Potresti chiamarlo Quinto pezzo in sol minore, opera 204, andante con brio, anche un po’ incazzato, pensò Bertot riflettendo sulla recente produzione musicale del ragazzo. Ma non gli disse niente: non voleva che si sentisse preso in giro, non l’avrebbe voluto per nulla al mondo, e poi quella roba, come diceva Antoine, in fondo non era male, aveva un’anima.

    Tornò con la mente a Tchaikovsky, elegante colonna sonora per un’arruffata esistenza. L’accostamento di contrasti era, in fondo, la nota dominante della propria vita. E non pensava solo a sparatorie e scazzottate in strada o a ribellioni e diverbi ai piani alti del 36 del Quai des Orfèvres, prima che lo cacciassero e anche dopo, quando se lo ripresero, con tante scuse.

    Vivere di contrasti è un’arte, se ti ci trovi bene, ripeteva spesso a se stesso e soltanto a se stesso Bertot: riordinare e avvicinare ciò che è impossibile perfino immaginare affine, il criminale e l’amico, l’amore e la prostituzione, la legge e la giustizia vera, non quella di avvocati, giudici e superiori, l’eccesso e il rigore, tutto questo racchiudeva e spiegava l’ambizione di un poliziotto di nome Lucien Bertot.

    E si trattava, a ben vedere, della sostanza pura di un bravo investigatore: saper combinare un indizio giusto con uno sbagliato e dall’unione dei due elementi ricavare una conclusione che potresti anche chiamare verità.

    Perfino il vecchio Pyotr Ilyich – aveva sempre pensato Bertot – tutto sommato non se la cavava male con i contrasti, come quando passava con la sicurezza e l’audacia del maestro da un allegro vivace a un adagio lamentoso, da un lento lugubre a un vivace con spirito. E il risultato era un’altra meravigliosa sinfonia, specchio degli stati d’animo, diversi ma assimilabili, dell’esistere.

    Se non ricordo male – rifletteva ora il commissario – Tchaikovsky scrisse la Quinta dopo un tour che toccò prima Parigi e poi Londra. Lo stesso mio viaggio, in effetti. Anche se lui cercava solo ispirazione. Non un assassino.

    Bertot fissò la muraglia bianca della costa inglese. Ora molto vicina e finalmente immobile: il mare aveva concluso le danze. Poi improvvisamente si girò di scatto verso sud, cercando la Francia. E provò la vertigine profonda di un nostalgico déjà-vu.

    2 A Parigi, dove tutto ricominciò

    La porta dell’ufficio si spalancò di schianto, rimbalzò sul muro, tornò indietro più veloce che all’andata, ma prima di uscire dai cardini terminò la corsa contro il palmo di una giovane mano che la bloccò con gesto sicuro.

    Bella Bè! Abbiamo una nuova indagine.

    L’urlo invase la stanza precedendo il suo autore.

    La mano di prima richiuse quindi medio e anulare, lasciando in tensione pollice, indice e mignolo e così si fermò a mezz’aria: era un saluto.

    Il commissario Bertot, seduto alla sua scrivania al secondo piano del 36 del Quai des Orfèvres, nemmeno alzò la testa. Non occorrevano ulteriori indizi per scoprire chi fosse l’ospite. Bella stava più o meno per Buongiorno. per Bertot. Come lo chiamava suo figlio, il rapper.

    Accomodati, disse continuando a scorrere il fascicolo sulla scrivania.

    Antoine spiccò il volo e atterrò sulla vecchia poltrona in pelle marrone che resse anche a questa prova nella sua dura e lunga esistenza di poltrona.

    Ok.

    Poi il ragazzo sbirciò l’intestazione del fascicolo: ‘Ultime segnalazioni di reato’. Si sporse un altro po’ e sillabò: Rissa a Aubervilliers.

    Esatto, commentò dopo una piccola pausa.

    Esatto cosa?, chiese Bertot, già immaginando il suo oroscopo a breve: incazzatura entro 10, 9, 8, 7 ...1 secondo.

    Esatto il posto. C’è scritto anche che ci sono stati due feriti da accoltellamento, diciamo subito dopo mezzanotte?.

    E tu cosa ne sai?.

    Beh, io c’ero.

    Ma porca puttana Antoine!, fu l’urlo di Bertot e sarebbe stato difficile stabilire se fosse partito prima o dopo la violenta manata inflitta alla scrivania, stessa epoca della poltrona in pelle e altrettanto resistente.

    Quando la finirai di frequentare i posti più di merda di Parigi e dintorni?, completò il suo ragionamento il commissario.

    A parte che Aubervilliers non è neanche il peggiore dei posti di merda eccetera come dici tu. E poi lì, ogni tanto, suonano il miglior rap di Parigi. E dintorni. E poi, dico io, come farei ad aiutarti nelle indagini se non frequentassi, ma solo ogni tanto, i posti più di merda di Parigi dove certe volte se sei fortunato ascolti anche il miglior rap sempre della città di merda che è Parigi? Eh, mi dici come farei, Bè?.

    Certe volte quel suo nome compresso in una sillaba, prigioniero di un paio di lettere, gli faceva venire i nervi. Ma subito dopo pensava che era un’invenzione di Antoine e tanto bastava per farselo piacere. Anche se non l’avrebbe mai ammesso neppure nei più duri degli interrogatori che, ogni tanto, capitava di allestire giù negli scantinati del 36 del Quai des Orfèvres. Comunque, ne era passato del tempo da quando dalla bocca di suo figlio bambino non poteva ascoltare neanche mezza sillaba perché gli impedivano di vederlo o addirittura solo di telefonargli. Già, quanto tempo era passato, Bertot? Sei anni per l’esattezza, da quando la vita con Antoine era ricominciata a Parigi. E quindi, nulla da recriminare: era comunque un bel progresso. E poi Antoine aveva ragione, dopotutto. Per indagare nella sporcizia bisogna sporcarsi. Bertot, anche se ora non l’ammetteva, lo aveva sempre teorizzato. E naturalmente praticato.

    Sì, erano decisamente una strana coppia di investigatori quei due, padre e figlio. Ma il bello era che assieme funzionavano a meraviglia. Tutto era iniziato per gioco, o quasi: in principio Antoine prese ad assistere il padre soprattutto sul piano tecnologico, visto che il commissario Bertot era ostinatamente fermo all’era del walkman, del giradischi, del telefono fisso meglio se con rotella, del bloc-notes al posto del computer, del fascicolo di carta piuttosto della consultazione online e considerato anche il fatto che la parola social gli faceva venire in mente solo i centri che ogni tanto gli toccava sgomberare, con tutta la riprovazione di suo figlio che quei centri, ogni tanto, frequentava. A diciassette anni Antoine aveva già le idee chiare: voleva fare il rapper, ma un futuro da poliziotto non gli appariva impossibile, magari in parallelo con la prima attività (Bella idea, no, Bè?). Superati i sessanta, invece, Bertot, che non si sbilanciava sulle aspirazioni del figlio, aveva chiara solo un’idea: Non voglio avere le idee chiare e tu, Antoine, per favore non suggerire. Da tempo Bertot aveva capito che la vita è tua solo se te la tieni stretta e sopravvivere è essenzialmente una questione d’istinto.

    Comunque, Parigi non era tutta una città di merda, come sostenevano sia lui che suo figlio, lo era solo in parte. Il commissario Bertot era riuscito a tornarci rifacendo la strada a ritroso aggrappato con le unghie e coi denti alla propria volontà (e all’istinto), dopo che l’avevano cacciato per insubordinazione dal Quai e spedito in punizione a Strasburgo. E da lì era partita la missione in Bretagna, finita dove non poteva che finire: in mezzo al Canale della Manica, su un traghetto. E fu lì che finalmente, al termine dell’Era del Gran Silenzio, il cellulare che Bertot non usava mai, ma portava sempre con sé, squillò e una voce amata e troppo a lungo cercata disse:

    Pronto babbo, sono io: Antoine!.

    , allora, non era ancora stato inventato. Così come la nuova vita a Parigi. E il ritrovato ufficio al 36 del Quai des Orfèvres. Per non parlare della seconda traversata della Manica, di Dover e di tutto il resto che doveva ancora avvenire. E che nemmeno il lungimirante commissario Lucien Bertot sarebbe riuscito a prevedere, con o senza oroscopo.

    Cosa cazzo ci facevi, ad Aubervilliers?, chiese Bertot, uscendo di corsa dai ricordi nel tentativo di scrollarsi di dosso il senso della nostalgia, l’unico avversario che veramente temeva.

    Una battaglia di freestyle, rispose Antoine stravaccato in poltrona.

    Di cosa?.

    La battaglia di Aubervilliers era cominciata alle due di notte ed era terminata dopo un’ora di botte, bottigliate, coltellate e calci negli stinchi prima fra giovani del posto e poi fra giovani del posto e altri venuti da fuori, poi fra tutti loro e i poliziotti che erano già lì e quelli arrivati di rinforzo. Così diceva il rapporto sulla scrivania di Bertot.

    Due di notte non è diciamo subito dopo mezzanotte, come aveva vagamente indicato Antoine. Il commissario stava già per reclamare da suo figlio una verità quantomeno cronologica dei fatti di Aubervilliers quando alzando gli occhi si rese conto che il ragazzo era crollato in un sonno abissale sprofondato nella poltrona in pelle. Dev’essere stata una nottata lunga, aggiunse Bertot ai propri ragionamenti. E ricominciò a leggere:

    La presente pattuglia allertata alle ore 2.35 accorreva in Square de la Maladrerie dove erano in corso violenti tafferugli ingenerati per futili motivi al seguito di una competizione musicale. Giunti sul posto si rendevano necessarie ripetute cariche nel tentativo di riportare l’ordine. Gli agenti della locale stazione e i colleghi chiamati per l’emergenza venivano attaccati e coinvolti negli scontri, che in alcune circostanze sono diventati veri e propri corpo a corpo con i facinorosi. Un centinaio i giovani coinvolti, divisibili sommariamente in due ipotetici fronti contrapposti. Impossibile ulteriore specificazione: si ignorano al momento le appartenenze politiche o etniche dei due citati fronti. Dieci i fermati sul posto, per controlli: già rilasciati. Due i giovani feriti con arma da taglio, pare per opera della stessa persona. Non sono stati identificati poiché fuggiti o, meglio, portati via a braccia da presumibili amici. Le loro condizioni sono apparse relativamente gravi secondo le sommarie testimonianze raccolte in loco.

    Impossibile altresì identificare l’aggressore, che si è dileguato tra la folla. Secondo primi riscontri era mascherato o comunque con il volto nascosto da un pesante cappuccio nero. Si segnala anche la presenza di un uomo, statura sopra la media, capigliatura bionda e fluente. Si ipotizza possa essere uno dei caporioni, comunque una persona cui viene in loco riconosciuta una certa autorità: è stato il suddetto a porre fine alla maxi-rissa, quasi impartendo un ordine a entrambe le parti in lizza. Anche lui si è poi allontanato, senza che lo si potesse identificare. Conosciamo solo il soprannome con il quale viene da molti chiamato: Angel.

    Bertot richiuse il fascicolo. Chissà perché, di tutto il rapporto gli erano rimaste impigliate nel cervello due sole parole: presumibili amici. Era evidentemente un dettaglio, una dissonanza semantica, meglio, un accostamento del cazzo fra aggettivo e sostantivo, rifletté Bertot. Non aveva nessuna importanza, certo. Ma il commissario l’interpretò come un cattivo presagio. Quasi l’annuncio nascosto e casuale di un tradimento.

    Ma non era più il tempo di concedersi meditazioni. Quel fascicolo era atterrato sul suo tavolo perché Aubervilliers stava diventando una pericolosa polveriera sociale, come dicevano i giornali a corto di metafore. Bertot era esperto di polveriere sociali? No. Solo di pericoli. Ed era abbastanza. In quel grosso comune a nord della città che non era più Parigi ma restava Parigi, perché sotto la maschera riconoscevi connotati sfigurati, l’immigrazione disperata aveva preso casa. E qualcuno se ne stava approfittando. Il fanatismo pilotato da pochi e la paura di molti di vedersi costretti a tornare indietro, a sud o a est del mondo, insomma ricacciati nel mare aperto del niente in tempesta, stavano creando un mix esplosivo, a proposito di polveriere. E dentro la miscela c’era di tutto: droga, prostituzione, immigrazione. Tutta roba (come avrebbe detto suo figlio) che Bertot conosceva bene. E non solo perché in passato aveva avuto per amico uno spacciatore algerino e per amante una prostituta romena. Ma quella era un’altra storia.

    Adesso invece aveva un sacco di interrogativi irrisolti in testa. Decise che era ora di avere delle risposte e che suo figlio ormai doveva aver smaltito le fatiche della nottata. Lo scosse con delicatezza.

    Antoine?.

    Lui aprì un occhio, lasciò un po’ di tempo all’altro per fare lo stesso, alzò entrambe le braccia, si stirò, si passò una mano fra i capelli neri e dritti come canne di bambù e disse, ma stavolta piano e strascicando le parole:

    Bella Bè, come ti va?.

    In forma: stanotte ho fatto tutto un sonno, io. Mi dovevi una risposta, ricordi?.

    Mmh?.

    Una battaglia di freestyle è fatta di cazzotti liberi in faccia e calci negli stinchi preferibilmente se le facce e gli stinchi sono di poliziotti?.

    Antoine cambiò subito espressione. Era una sua prerogativa: passare dallo stadio Rem alla veglia in un millesimo di secondo. Si fece serio e spiegò, anche un po’ risentito:

    Ma no, la battaglia di freestyle è venuta prima di quell’altra. È tutta un’altra roba. Cioè, sì, è una sfida anche quella, ma si fa con le parole. Due rapper si mettono uno di fronte all’altro e inventano rime attaccandosi. Magari si offendono anche, ma mica si menano.

    Beh, mi pare che a un certo punto qualcuno abbia fatto parlare le mani.

    È stato perché sono arrivati quelli, gli Auber-bons.

    Chi?, chiese piano Bertot mettendo la sicura alla possibilità che gli saltassero i nervi.

    "Gli Auber-bons, i cosiddetti buoni, i ragazzi-bene, quelli che però a Aubervilliers stanno dalla parte sbagliata. Almeno per me e i miei amici che stiamo con gli Auber-méchants, i cattivi, ma che poi cattivi non sono".

    Buoni-cattivi e cattivi-buoni: a Bertot il ribaltamento di significato piacque. In fondo corrispondeva alla sua visione del mondo. Si sentiva spesso méchant.

    E quindi si sono tutti menati fra di loro, prima di farlo tutti assieme contro la polizia. Ma c’era anche un tizio che poi è riuscito a riportare la calma. Un certo Angel, lo conosci?. Antoine esitò, non voleva mentire a suo padre:

    "No, cioè sì, insomma ni, a metà".

    Ti piacerebbe spiegarti meglio?, chiese un Bertot armato del miglior istinto paterno.

    È un tizio che dà una mano in giro. Davvero Bè, lo conosco ma non so come si chiami veramente. Per tutti è Angel: come un supereroe dei fumetti interviene prima che succeda il peggio.

    Ci riesce sempre?, chiese il commissario Lucien Bertot, cui l’istinto paterno stava temporaneamente lasciando il posto a sedere alla gelosia, venuta per restare e sistemarsi comoda.

    Boh... fu la realistica risposta. Con me ci è riuscito.

    Qua-n-do?, fu la nuova domanda pronunciata da un tizio di nome Bertot che maledisse l’imprevista balbuzie.

    "Una volta che me la sono vista brutta dopo un freestyle. Stavo vincendo, le rime mi venivano da Dio, veloci, metrica perfetta, poi quell’altro partì con il dissing...".

    Sarebbe?.

    "Slang afroamericano che viene da disrespecting, non rispettare. Insomma, partì con le offese...".

    E che ti disse?.

    Non erano dirette a me.

    E a chi allora?, chiese il commissario che aveva fatto dell’intuizione il principale strumento del mestiere e che già intravedeva la risposta.

    A una persona cui tengo.

    Bertot capì due cose. La prima: padre e figlio geneticamente condividevano lo stesso impaccio nel manifestare reciproci sentimenti. La seconda: i sentimenti se ne sbattevano e se ne uscivano fuori da soli. Afferrato tutto questo, non lo lasciò continuare. Disse solo: Ok, ho afferrato.

    Grato, Antoine proseguì oltre: Ho detto a quel tizio di andare a farsi fottere, non esattamente in rima stavolta, mi sono ritrovato sotto il naso un coltello, io ero a mani nude, ma stavo per mettergliele addosso. Probabilmente quello mi avrebbe tagliato i polsi con un solo giro di lama senza bisogno di ritorno. Ma arrivò Angel: grande e grosso, lo prese alle spalle e lo buttò giù dal palco. Quella volta mi salvò la pelle, Angel. È uno di cui ti puoi fidare.

    La gelosia di Bertot si alzò, lasciando libero il posto alla gratitudine e scese dall’autobus della vita.

    Ok stava per concludere il commissario Bertot. Meglio così. Ma le nostre indagini sulla battaglia di Aubervilliers, la seconda battaglia, sono comunque a zero. Non scopriremo mai chi ha accoltellato ieri sera quei due poveretti. Non abbiamo testimoni, dichiarazioni, indizi, niente di niente.

    Beh, Bè, c’è questa, disse Antoine e sorrise nel modo che Bertot amava. Forse perché lo metteva in difficoltà.

    Antoine tirò fuori di tasca un microscopico cubo nero, su una delle sei facce un cerchio e una lente, invisibili e scuri quanto il resto.

    Cos’è?.

    Una microcamera. Si chiama Cam-Fast.

    Vuoi dire che...?.

    Esatto, Bè.

    Antoine collegò il suo cubetto nero al cellulare senza neanche bisogno di un filo. Bertot provò a chiedersi silenziosamente se per caso ricordava il nome di quel sistema. Si chiama Bluetooth, rispose Antoine senza aspettare la domanda. E sul cellulare usato come mini-monitor comparve tutta la scena, più attuale di un terremoto in diretta: i due tizi in mezzo al caos di braccia-gambe-bottiglie-imprecazioni-manganellate che volano come gabbiani e poi quel tipo imbacuccato che arriva da un angolo buio, si vede poco di lui, nemmeno un ciuffo, si capisce che è alto e deciso, si avvicina ai due ragazzi, ha in mano qualcosa che luccica, anche al primo anno di scuola di polizia capiresti che è un coltello, fa un gesto ampio, rotatorio, prima colpisce il viso di uno, poi attraversa quello del compagno, entrambi si accasciano, le mani in faccia rosse di sangue.

    Grande! Questo lo prendo io: magari lo confronterò con le foto segnaletiche nei fascicoli di carta, giù a piano terra quasi urlò un entusiasta Bertot. La tecnologia al servizio dei vecchi sistemi!.

    Antoine non raccolse l’involontaria necessità di suo padre d’affermare se stesso e i propri metodi, ma parve restare in attesa. Il commissario se ne accorse.

    Grazie Antoine, ottimo lavoro!.

    Il ragazzo sorrise.

    Pausa, poi suo padre chiese anche:

    Come è andata poi, ieri sera, la tua battaglia di freestyle?.

    Antoine fu contento di rispondere: Bene: ho vinto.

    3 Le amiche del Boulevard de Bonne-Nouvelle

    Valentine e Claudette erano amiche. Le potevi vedere spesso chiacchierare lungo il Boulevard de Bonne-Nouvelle, nel secondo Arrondissement. Era più facile trovarle assieme se passavi verso le due di notte. A meno che una delle due non stesse lavorando. Valentine e Claudette erano prostitute.

    Valentine e Claudette avevano un amico: il commissario Lucien Bertot, uno di cui ci si poteva fidare. Bertot passava spesso a trovarle. Di solito verso le due di notte, quando usciva dal 36 del Quai des Orfèvres, primo Arrondissement: saliva sulla scalcagnata Peugeot 504, imboccava Pont Neuf, risaliva il Boulevard de Sébastopol, costeggiava il Sainte-Avoye e alla fine voltava a sinistra. Valentine e Claudette si accorgevano del suo arrivo a un centinaio di metri di distanza, impossibile non riconoscere quell’auto nera, senza dubbio un ultimo modello, ma del 1983, anno in cui in Europa smisero di farne. E d’altra parte, per una prostituta saper identificare un’auto anche in lontananza, e soprattutto memorizzarne la targa, più che un’abitudine era spesso un modo per salvare la pelle: di certi clienti non ti potevi fidare. Ma con Bertot era un’altra storia.

    Bonsoir, commissario, dicevano all’unisono Valentine e Claudette, quando la Peugeot nera accostava.

    Bonne nuit, ragazze, rispondeva Bertot e non intendeva l’augurio di sonni tranquilli, ma di una veglia serena per oltrepassare indenni i confini di un’altra notte e rimboccare i sogni all’alba, intatti e in un letto vuoto. Le due ragazze sapevano bene cosa intendeva Bertot, e di quell’augurio gli erano grate.

    Valentine e Claudette non si chiamavano Valentine e Claudette. Indossavano quei nomi francesi sopra i tacchi a spillo perché nella vita, per avere una seconda chance, devi sapertela guadagnare. Bertot conosceva le loro identità, le aveva lette sul fascicolo da tempo in evidenza sulla scrivania. Ma faceva finta di non sapere niente. Comunque, il fatto che fossero la prima romena, l’altra albanese per il momento non significava nulla.

    Valentine, o comunque si chiamasse, era alta, formosa e soprattutto bionda come la Bardot dei bei tempi. Il riferimento – ammetteva solo con se stesso il commissario – era senza dubbio antiquato. Ma Bertot era sempre stato così, affezionato ai propri modelli, soprattutto in fatto di donne. Dopotutto non era colpa sua se Valentine, della Bardot, condivideva anche le labbra, piene e sempre sorridenti.

    Non come quelle, belle ma malinconiche, di Claudette, che certe volte e senza preavviso sapevano farti inciampare e precipitare nella tristezza del suo sguardo per poi lasciarti libero di tentare la risalita da quell’abisso di sofferenza cercando di nuovo la sua bocca e una via di fuga. E d’altra parte, quella era la sostanza del suo fascino, che perfettamente si intonava alla cascata di riccioli neri come l’inferno e al corpo esile e bianco tanto perfetto da poter disseminare di sogni anche il paradiso.

    Valentine e Claudette erano l’una lo specchio dell’altra, uguali e diverse nell’offrire una bellezza che sarebbe stato un reato definire solo spirituale. Come ripeteva spesso a se stesso Bertot, che non rinunciava mai al linguaggio da poliziotto specie se usato di proposito a sproposito. Anche per questo, dalle ragazze passava volentieri, uscendo tardi, ma quasi mai oltre le due, dal suo ufficio sul Quai des Orfèvres.

    Bonsoir.

    Bonne nuit.

    Una sera, mentre accostava al marciapiede, vide nello specchietto retrovisore il lampeggio blu di una sirena. Scese un giovane agente, Bertot lo riconobbe subito: Robert Girard, presuntuoso e in carriera, pertanto fedele seguace del Grande Capo, quello abituato ad appendersi al petto gli arresti come medaglie, e più ne appendeva più si sentiva Grande Capo.

    Signore, cosa fa qui a quest’ora? Scenda dalla macchina. Immediatamente!, ordinò Girard facendo vedere che teneva la destra sulla Sig Sauer d’ordinanza alla cintura.

    Bertot scese e con uno scatto estrasse la sua di pistola e la puntò in avanti. Girard impallidì e passò un’eternità prima che il cervello inoltrasse l’informazione giusta al suo pensiero cosciente. Poi finalmente:

    Ma è lei, commissario!.

    Bertot non aprì bocca, qualunque risposta sarebbe stata di troppo. Il giovane rampante rimontò in macchina il più in fretta possibile per sfuggire all’inseguimento della codardia, partì sgommando e spegnendo al volo il lampeggiante. Il giorno dopo, e anche gli altri a venire, avrebbero avuto di che chiacchierare in ufficio: Bertot e le puttane, apriamo un’inchiesta, ecco a voi il commissario della notte. Chissenefrega, pensò velocemente Bertot.

    Risalì sulla sua Peugeot.

    Bonsoir.

    Bonne nuit.

    Valentine e Claudette erano amiche. E Bertot era amico loro. Il commissario non lo nascondeva: non vedeva perché avrebbe dovuto. Anche Antoine non aveva nulla da ridire al riguardo. A parte il fatto che, quando lui non c’era, Claudette di tanto in tanto occupava il suo letto. E lo riempiva di lacrime.

    L’intitolazione di quel boulevard alla Bonne-Nouvelle assunse presto il senso di una beffa quando prese piede la faccenda del Cacciavite Giallo.

    Il primo della serie fu trovato poco lontano dal punto in cui lavoravano Valentine e Claudette: piantato a fondo nella corteccia di un platano, fino a metà dello stelo, ma lasciando in bella vista il grosso manico dalle profonde scanalature e dal colore evidentemente scelto perché l’attrezzo non passasse inosservato, perfino di notte. Due le considerazioni possibili, immediate e non evitabili, di chi avesse preso in esame il caso. La prima: occorreva una bella forza per infilzare in quel modo il tronco di un albero con un cacciavite con punta a taglio. La seconda: più del colore del manico stupiva l’ombra rossastra che avvolgeva la parte rimasta scoperta dello stelo di metallo e che, indubbiamente, anche l’investigatore meno esperto avrebbe potuto chiamare in un solo modo: sangue.

    Il rapporto sulla scrivania di Bertot garantiva, in base agli esami della Scientifica, che non si trattava di sangue umano, bensì animale. Ma agli occhi di Bertot questo elemento, di per sé, non poteva comunque considerarsi rassicurante. Anche perché a quel primo cacciavite molti altri seguirono, tutti piantati nella corteccia degli alberi del Boulevard de Bonne-Nouvelle, tutti conficcati fino a metà, tutti con un manico giallo e tutti insanguinati. E fu perciò necessario aprire al Quai des Orfèvres uno specifico fascicolo seppure a carico di ignoti.

    Che l’apparizione dei cacciaviti gialli non fosse da interpretare come l’annuncio di una buona notizia l’avrebbe capito anche un investigatore alle prime armi. Che la faccenda sarebbe durata a lungo e avrebbe avuto sviluppi pericolosi Bertot – a differenza di altri – lo intuì subito, soprattutto dopo aver visto lo sguardo terrorizzato della prima testimone, Claudette.

    Fu lei a trovare il primo cacciavite. Successe di notte, verso le due. Quando Bertot come al solito arrivò, Claudette era seduta sul bordo del marciapiede, le lunghe gambe scoperte e rannicchiate sotto la gonna corta tremavano, Valentine le avvolgeva le spalle da dietro, in un abbraccio che non poteva riuscire consolatorio: Claudette singhiozzava senza riuscire a fermarsi, perduta nel nulla della paura. Ed era come se il mondo non fosse pronto ad accogliere tutte le sue lacrime.

    Cosa è successo?, chiese Bertot, che quando vedeva una donna piangere si ritrovava come a un bivio senza sapere quale reazione scegliere, se abbandonarsi al bisogno rabbioso di trovare subito un colpevole o al contrario cedere all’istinto di mettere intanto a disposizione le proprie, di lacrime.

    La risposta di Claudette, mentre Bertot rifletteva, arrivò con un gesto: alzando un braccio pesante quanto il marmo la ragazza si immobilizzò come una statua indicando il platano alla sua destra. Sotto la metà dell’albero, infilzato nella corteccia, quello che nessuno avrebbe potuto chiamare altro che, semplicemente, un Cacciavite Giallo. Sangue a parte.

    Cosa sai di questa storia?, fu la seconda domanda di Bertot, che aveva scelto la reazione da adottare tra le due possibili e istintive. La prima: fare il commissario.

    Niente, fu

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