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Sopravvivere ai 30 Anni
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Sopravvivere ai 30 Anni
E-book228 pagine3 ore

Sopravvivere ai 30 Anni

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Info su questo ebook

Avere 30 anni significa affrontare una lunga serie di sliding doors che possono cambiare rapidamente e drasticamente la vita. Alessio, Silvia, Alberto, Margherita e Alice sono cinque trentenni che si districano tra speranze, paure, fallimenti, successi e scommesse. Ognuno di loro combatte la propria guerra fatta di un lavoro precario, una vita sentimentale deludente, sogni che sembrano irrealizzabili, matrimoni degli amici ed un futuro pieno di punti interrogativi. Forse bisogna solo lasciarsi andare. In fondo, cosa abbiamo da perdere?
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2022
ISBN9791221450781
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    Anteprima del libro

    Sopravvivere ai 30 Anni - La Guerra dei 30 Anni

    01. GENERAZIONE GAMBERO

    «Allora Alessio, in linea di massima va bene, ti chiedo solo di fare qualche piccola modifica. Ad esempio, la forma non mi convince pienamente. La vorrei, diciamo, un po’ più allungata, con meno striature, un po’ più bassa, ma rialzata al centro.»

    «Signor Caputo, la sua richiesta era quella di un logo con una rosetta ed ho cercato di riprodurla al meglio. Se le cambio la forma come dice lei…» provo a replicare ma vengo ignorato.

    «Si ma tu le hai mai mangiate le nostre rosette? Dove lo compri il pane? Vieni, te ne do due in omaggio e vedrai che la forma è quella che ti sto dicendo!» apostrofa il signor Caputo.

    Christian, il collega con cui condivido l’ufficio, è piegato in due dalle risate e si accascia sulla scrivania battendo il pugno su di essa. Dopo i primi colloqui surrealisti con il signor Caputo, uno dei nostri ultimi clienti, ho iniziato a mettere in vivavoce le telefonate perché volevo che tutti sapessero il livello di disagio che ero costretto a vivere.

    Alla fine, per sfinimento, chiudo la conversazione dicendo che realizzerò il logo del suo panificio disegnando la super-rosetta-speciale così come mi è stata appena descritta. Aggiungo però che avrò bisogno di tre giorni di tempo in più perché ci stiamo trasferendo nel nuovo ufficio e non avrò la strumentazione per lavorarci. Cazzata. Ci trasferiremo sul serio, ma solo tra qualche mese. Per giunta a lavoro porto il mio Mac e i progetti li realizzo con quello, ma tralascerò questo dettaglio con il cliente. Vorrei dire al signor Caputo che ho problemi più grossi a cui pensare e che la super-rosetta-speciale non può assorbire le mie energie vitali più di quanto non abbia già fatto nelle ultime due settimane.

    Sono quasi le 17, tra poco stacco e devo fare tre miliardi di cose. In ordine sparso e non di importanza: andare a riprendere l’auto dal meccanico, prelevare in banca, fare una doccia, dire a Rossella che non potremo essere i futuri Totti &Ilary, comprare un paio di bottiglie di vino e precipitarmi a casa del mio migliore amico.

    Alberto è il mio braccio destro e la cosa è reciproca. E come se non bastassero quindici anni di amicizia, tra due mesi saremo ulteriormente legati in modo indissolubile perché sono stato scelto come testimone di nozze per il suo matrimonio con Alice. Ovviamente stasera ci sarà anche lei a casa di Silvia, la nostra migliore amica, che da qualche anno sfrutta la casa al mare dei suoi per dare queste cene in stile Il Grande Gatsby in cui finiamo puntualmente ubriachi, ma felici. L’accesso è riservato agli amici più stretti ma con licenza di portare con sé altre amiche, amici, fidanzati, mogli, mariti, figli, cani, scopamici. Io, come al solito, sarò solo e senza nessun +1.

    La mia vita è un gran casino e io finisco col fare le cose all’ultimo minuto come mio solito perciò ho un pomeriggio ingolfato di impegni ed una pagnotta da portare a casa, nel vero senso della parola. Il logo per il panificio del signor Caputo è l’ultimo incarico che ho ricevuto dal mio capo Attilio, il boss dell’agenzia di comunicazione per la quale lavoro. In verità potrei ambire a progetti più ambiziosi e scavalcare le gerarchie dei graphic designer, ma la mia scarsa propensione alla socializzazione fa sì che mi becchi i rimasugli e le incombenze peggiori. A volte penso che mi vada bene così perché la paga è la stessa, a volte invece penso che sto sprecando i miei 32 anni dietro ad una sfilza di signor Caputo che non mi porterà da nessuna parte. Però queste seghe mentali me le farò un altro giorno.

    Raccolgo i miei oggetti personali dalla scrivania, infilo il Mac nello zaino, lo metto in spalla e faccio un rapido check visivo per evitare di dimenticare qualcosa di importante. Prendo lo smartphone, segna le 16.59 e quindi aspetto in piedi fissandolo. Dai, su. Diamoci una mossa.

    Diciassette, posso andare. Saluto Christian, che mi augura una buona serata, e mi fiondo giù per le scale. All’uscita del portone c’è Maria, la moglie del capo, che mi saluta con un caloroso sorriso che sa di biscotti caldi appena sfornati. Non la disturbo perché è nel bel mezzo di una conversazione con una donna che continua a chiamarla Mary. Cosa ci fai col tempo che risparmi non pronunciando una misera lettera? Io le persone non le capisco. Maria con me è sempre molto cordiale. Ho l’impressione di ricordarle il figlio che vive a Milano, forse è per questo che è così affettuosa con me.

    Devo assicurarmi di non commettere un grave errore perciò scrivo a Silvia chiedendole se la camicia per stasera è indispensabile. Credo che quella delle grandi occasioni sia ancora da lavare e doverne scegliere un’altra mi farebbe cadere nel panico. La sua è una tipica risposta alla Silvia: È solo una cena, non il ballo delle debuttanti, cretino.

    Mi sento amato. Queste dimostrazioni d’affetto sono baci sulla fronte della mia autostima. Cammino per due isolati fumando velocemente una Chesterfield rossa, giusto in tempo per arrivare da Massimo, un vecchio amico che ogni tanto sistema la mia scassata Ypsilon. Gli faccio un cenno con la mano per fargli presente che sono arrivato e lui mi viene incontro sorridendo. Con un panno prova a togliersi il grasso dei motori dalle dita.

    «Ciao bello. Per stavolta tutto a posto, ti ho invertito le ruote ed un altro po’, potrai tirare avanti così. Ma la prossima volta dovrai cambiarle, inizia a mettere i soldi da parte.»

    Grazie Signore e grazie Massimo, duecento euro per le gomme, in questo periodo, mi manderebbero in profondo rosso. Mentre portano fuori dall’officina la mia macchina scrivo a Rossella. 17.30 al Caffè Italiano, ok?

    Punto al record mondiale di velocità con cui dire alla ragazza con cui ti vedi che non potete più vedervi. Rossella è una brava ragazza, molto carina e in queste due settimane siamo stati bene insieme. Ma non fa per me. Madre Natura le ha donato un culo che parla ma purtroppo quando lo fa, vengono fuori opinioni sui reality show più beceri che Mediaset abbia mai prodotto, manicure fatte dall’amica Sally e citazioni dei testi di Tiziano Ferro.

    Lo sapevo in partenza e mi assumo le mie responsabilità ma dopo un po’ non riesci più a reggere questo gioco. Il cervello va in panne, la tua mano destra ti ricorda di aver giurato alta fedeltà a 12 anni e la voglia di una relazione finisce in soffitta. Ancora una volta.

    Mi metto al volante, collego il cavo aux al mio smartphone e parto alla ricerca di un parcheggio, possibilmente strisce bianche perché c’è crisi. Alla fine opto per fomentare il mercato illegale dei parcheggiatori abusivi e dono cinquanta centesimi ad un tossico che mi chiama Dottore. Time Check: 17.35 e sono già in ritardo.

    Con Rossella sono stato estremamente sincero come è giusto che sia in queste circostanze. Le ho detto che non sentivo il trasporto necessario per continuare a frequentarla.

    «Che significa? Non ti piaccio abbastanza?»

    La sua domanda era la perfetta sintesi.

    «Credo di no», è stata la mia risposta, a cui lei ha replicato urlandomi che sono uno stronzo e se n’è andata via. Se ci fosse un’app chiamata SexAdvisor per recensire le persone con cui usciamo, stavolta mi sarei beccato il voto più basso. La cosa peggiore o migliore, ancora devo capirlo, è che non mi importa. Il giudizio di persone come Rossella non mi interessa neanche un po’ perché è andata come doveva andare e sarebbe stato inutile dire qualcosa di diverso.

    Finisco il mio caffè e vado a recuperare la macchina. Quando mi immetto nel traffico mi assale una sensazione di insoddisfazione generale che non riesco a decifrare. Sono convinto che questo episodio con Rossella abbia influito perché ho inanellato l’ennesimo fallimento della mia vita. Mi sento impantanato in una palude e non capisco come fare ad uscirne. Tutto scorre accanto a me ed io resto fermo con la sensazione di andare ancora più giù. Alcool. Ho bisogno di alcool.

    Dopo una rapida doccia a casa prendo nuovamente l’auto e vado da Alberto. Vicino casa sua c’è un’enoteca in cui acquisto sempre qualche bottiglia quando devo fare le cose di corsa all’ultimo minuto. Praticamente sempre. Parcheggio e corro nel negozio.

    Una volta recuperato il vino, salgo in macchina del mio amico che intanto mi ha raggiunto e ha messo in moto. Parliamo del più e del meno, mi aggiorna sui preparativi del matrimonio ed io sono più taciturno del solito. Alberto non mi fa domande, mi conosce e sa che se avessi qualcosa da dirgli, lo farei.

    Mi piacciono le serate con i miei amici eppure negli ultimi tempi anche questo ha preso una piega diversa. Trascorro la serata ad osservare, ad ascoltare, a studiare. Ci sono tante persone che non conosco, tante storie che si incrociano e spesso lo fanno in un punto: Abbiamo trent’anni ormai…

    Su questo sembrano essere tutti d’accordo, è un calderone in cui si getta di tutto e sembriamo tutti accomunati da un unico destino. Li guardo mentre bevo l’ennesimo bicchiere di sangria ed ognuno ha qualcosa da recriminare, un ritardo da giustificare ed un obiettivo ancora troppo lontano. Corri, corri, corri!

    Ma per andare dove? Siamo la generazione del tutto e subito, cresciuta con l’imperativo di correre e arrivare prima degli altri; siamo la generazione fast-food, nata di pari passo con il consumismo, fratello della globalizzazione che ha sempre creato zone d’ombra nella nostra vita. Ma se non fossimo fatti per la corsa e per arrivare primi? Anche perchè è successo raramente di vincere gare, forse proprio perchè non siamo nati per riuscirci. Fin da bambini ci hanno detto di correre per avere un posto di lavoro migliore, per finire gli studi in tempo, per sposarci e fare figli, fine ultimo della nostra esistenza. E più sentivamo le voci che dicevano di correre, più ci sentivamo intrappolati in una palude che ci teneva bloccati perchè in fondo neanche questo mondo è fatto per gente abituata a correre.

    È tutto così lento, stagnante e putrido che le poche volte in cui abbiamo alzato il passo abbiamo ricevuto porte in faccia. Un passo avanti, due indietro: siamo la generazione gambero. Io non ho mai voluto correre, non c’ho il fisico né la volontà; al contrario, mi piace osservare, anche quando vedo il panorama che gira tutto intorno. È un po’ come quando sei steso a terra ubriaco, sembra che tutto stia girando intorno a te come la Vodafone ma in realtà è solo la vodka che scuote i tuoi pensieri e le tue percezioni.

    A pensarci bene la mia vita è sempre stata così: quando ho avuto voglia di correre, mi son trovato davanti ostacoli o situazioni insormontabili. Quando volevo stare fermo a riflettere, tutti mi dicevano di non perdere tempo e darmi da fare perchè il cronometro stava correndo più di me.

    E allora vaffanculo, voglio correre quando lo dico io, nelle piste che dico io, per i traguardi che dico io. Non voglio correre per far contenti i miei che vogliono un nipote a tutti i costi e che me lo ripetono ogni volta che pranzo da loro con la mia ragazza di turno. Non voglio essere guardato dai miei amici con sguardi colmi di pena soltanto perchè non ho acceso un mutuo come hanno fatto loro. E non voglio neanche pensare all’orologio biologico della mia donna vogliosa di pubblicare foto su Facebook del piccolo me che cresce nel giro di nove mesi. E in quel caso, spero vivamente che somigli alla madre, in tutto e per tutto. Chiunque essa sia.

    Voglio correre quando ne ho voglia e starmene sdraiato al suolo pieno di vodka quando ne ho voglia. Mi costringete a fare il gambero? E allora voglio farlo a modo mio, retrocedendo quando lo ritengo opportuno e andando avanti quando credo che sia il caso di farlo. Sono stanco di scegliere per accontentare gli altri, per non deludere altre persone che si fingono interessate alla mia vita. Perchè io servo a voi più di quanto voi non serviate a me; vedere i miei fallimenti, i miei ritardi e i miei passi indietro, vi serve come giustifica per i vostri percorsi. Voi, anche se maledite ogni giorno il vostro matrimonio a trent’anni e la vostra casa da pagare per i prossimi venticinque, guardate quelli come me e vi autoconvincete di aver fatto la scelta giusta solo perchè vi sentite di avere in mano qualcosa di più concreto. Di più concreto avete solo un’infelicità diversa dalla mia, ma sono entrambe corrosive.

    Non ho mai consigliato a nessuno di fare un passo perché queste cose sono strettamente personali ed ognuno di noi dovrebbe farle quando lo ritiene opportuno. Io adesso voglio farmi quattro shot di vodka e stare in hangover la domenica senza avere le paranoie delle rate di muri che stringono e costringono la mia vita come una gabbia. Voglio mettere al mondo un figlio quando avrò trovato la persona giusta con cui farlo, non per paura che i problemi alla prostata vengano a bussare alla mia porta. Voglio correre, ma voglio farlo verso la mia libertà, almeno provvisoria e parziale. Trascorro la serata così, a rimbalzare da un gruppo di persone ad un altro, ascoltando le loro storie e soprattutto le lamentele. Siamo una generazione di insoddisfatti che giocano a dare l’impressione di essere felici e arrivati.

    L’unico posto in cui arrivo io invece è il letto di casa. Sono le 4.37, mi chiamo Alessio, ho trentadue anni e domattina non ricorderò più nulla perché sono completamente ubriaco.

    2. LO ZIO UBRIACO

    Quando apro gli occhi la mattina seguente ho come la sensazione che un tir mi abbia investito e poi abbia fatto retromarcia per accertarsi di avermi steso. I raggi di luce che penetrano dalla tapparella mi suggeriscono che sia già mattino da un bel pezzo. Il comodino vibra e quel rumore mi da l’impressione di essere nell’epicentro di un terremoto che sta facendo crollare la mia vita. Con uno sforzo immane allungo il braccio e prendo il telefono che continua a vibrare e nonostante abbia un occhio ancora chiuso, leggo Lulù sul display, che avvicino all’orecchio.

    «Lulù? Che succede?»

    «Perché mi rispondi dall’oltretomba? Dove sei?»

    «A casa…credo.» Sono incerto per davvero.

    La mia amabile sorellona tira un lungo sospiro e in quell’attimo di pace riassaporo il tepore del sonno.

    «Ti ricordi che oggi è il compleanno di Sofia o sei uno zio deplorevole?»

    Sgrano gli occhi e penso a quanto faccia schifo anche come zio. «Ma scherzi? Certo che me lo ricordo. Ho solo fatto un po’ tardi ieri sera. Mi faccio una doccia al volo e vengo da mamma e papà.»

    «Ale… Siamo alla Baia del Pescatore, te lo avevo scritto ieri sera. Siamo già tutti qui, ti stiamo aspettando da venti minuti.»

    Sono nella merda. Ma troppo in hangover per accorgermi di ripetere comunque la stessa risposta.

    «Certo che me lo ricordo. Mi faccio una doccia al volo e vengo… vengo lì.»

    Luana accenna una risata e mi liquida con un perentorio «Dai, sbrigati.»

    Amo alla follia mia sorella e forse i miei nipoti anche di più. Da quando sono nati Riccardo e Sofia la mia vita ha cominciato a brillare di una nuova luce, qualcosa che non pensavo di essere capace di provare. Riccardo ha sette anni e diventare zio per la prima volta mi fece scoppiare in un pianto senza precedenti. Non sono un tipo che piange con facilità, anzi, mi sarà successo soltanto tre volte in tutta la mia vita.

    Da bambino, quando mi lasciò Teresa, la fidanzatina che avevo in quarta elementare. Anni dopo, quando morì mio nonno. Sette anni fa quando presi in braccio per la prima volta il piccolo Riccardo. Diversi amici mi avevano annunciato l’evento come qualcosa di unico ed emozionante ma mai avrei immaginato una gioia così grande prima di stringere tra le braccia quel piccolo batuffolo urlante. Con Sofia, due anni più tardi, è stato anche peggio. Pensavo di essermi abituato ma invece no, giù di lacrimoni e ci è mancato poco che le infermiere dell’ospedale non mettessero anche me su una barella.

    I miei due nipotini sono l’espressione dell’amore viscerale che lega me e Luana, elevato all’ennesima potenza. Chi non conosce entrambi non si sognerebbe mai di pensare che abbiamo un legame di sangue. Lulù è tutto quello che io non sono e che non sono mai stato. Eccellente studentessa, laureata a pieni voti presso l’Università di Siena e poi tornata a casa grazie ad un trasferimento chiesto nella banca in cui lavorava prima ancora di laurearsi. Tra i banchi dell’università aveva conosciuto Claudio e, dopo alcuni anni di fidanzamento, avevano deciso di sposarsi. Rimandarono le nozze soltanto perché aspettavano di avere entrambi il trasferimento e dato che Claudio è di Bari e lavorava in una banca differente, ci volle un po’ più di tempo. Da dieci anni sono nuovamente in Puglia, vivono nella casa che finiranno di pagare tra quindici anni ed hanno messo al mondo due splendide creature.

    Lulù, il sole. Io, la sua antitesi perfetta. La chiamo Lulù sin da quando portavo ancora il pannolino e per tutta la famiglia è sempre rimasto quello il suo nome. Inizialmente non le andava molto a genio ma poi, conoscendo le teste dure che siamo, ha smesso di lamentarsi.

    Stravedo per i miei nipoti. Ogni volta che loro vengono a trovare noi o viceversa, compro ad ognuno dei due un giocattolo o qualcosa

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