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Da una parte il miele dall'altra la cera
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E-book526 pagine6 ore

Da una parte il miele dall'altra la cera

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Info su questo ebook

Come diceva Pasolini, “La più grande attrazione di ognuno di noi / è verso il Passato, perché è l’unica cosa / che noi conosciamo ed amiamo veramente.” C’è tanto passato in questo diario, passato che si coagula attorno a due figure, le figure centrali della vita di Sandro Buoro, prima e dopo:
“PADRE MIO, MADRE MIA
irrimediabilmente perduti
cerco le impronte della vita
tra i rovi che ricoprono l'orto che fu nostro
e chiedo ai mattoni della cascina che non è più
se ricordano la piccola cucina che riuniva di sera
prima che notte separasse ognuno
con fatiche e speranze proprie
ma i cuori battevano all'unisono
al canto dei riscatti sperati e dell'usignolo
sulla gaggia in fiore.”
(7 agosto 2021)
Nostalgia del passato (dolore del ritorno del passato) che altrove s’allarga ai toni dell’epica contadina:
“DOVE SONO FINITI QUEGLI UOMINI coi vestiti stracciati e le mani ridotte ad attrezzi da lavoro, QUELLE DONNE COL GREMBIULE LEGATO IN VITA che cucinavano per la famiglia, preparavano conserve e marmellate, chiamavano col verso a sera le galline...”.
Ma c’è anche, a fianco, il presente, vissuto con carattere costantemente polemico/ironico, perché “fuori infuria la storia e i venti sono contrari”.
Perché con questo presente, per citare ancora Pasolini, come si può non essere polemici? È quello stesso passato che di per sé è critica nei confronti del presente.
Ne risultano, qui dentro, due musiche diverse. Il “largo” della contemplazione e del ricordo e il “mosso agitato” della polemica e della critica si alternano per formare l’ossatura tonale della raccolta. Ecco un esempio di come l’andamento lento dell’anapesto può guidare lo sguardo: “La stagione che il mondo foglia e fiora, la vertù che 'ntorno i fiori apre et rinove non è semplicemente croco che spinge la polvere, bocciolo carnoso di narciso che gonfia dal suo tubero ricco, tulipano che chiude la corolla a sera dopo averla impregnata di sole e aria oppure giacinto che spunta lento e mostra il fiore a grappolo un po' alla volta fino a ubriacare del suo odore...”. Altrove la lingua corre: “di questa città in mano a cinesi, neri, magrebini, rumeni, slavi, centri commerciali e supermercati... e il peggio non sono loro in questo luogo ‘fortunato’ posto al centro del triangolo industriale d'Italia, l'ombelico della ‘settima potenza industriale’ del mondo... balle balle balle e parole parole parole berciate da cattivi amministratori, da imbonitori di popolo bue, da novelli Nerone con la cetra in mano a cantare la rovina della città e la scomparsa della Provincia da qualunque classifica civile.” E così, rapportandosi una all’altra e scontrandosi anche e amoreggiando, le due essenze verbali alla fine si fondono in una voce originale, toccando la vetta:
“Bastava un fruscio di canne per sognare
alzando lo sguardo sulle scure macchie
dove cinghiali e forse draghi di notte
ritornavano nei campi, ai botri d'acque
rifugi perduti che la famiglia aveva bruciato
e reso terra buona per vivere.
In qualche luogo del nostro passato
c'era una grande famiglia da dove tutti siamo partiti
per solcare mari e terre del mondo
e là ritornare un giorno col sogno
a cerchio seduti canteremo di strade, paesi
uniti, felici del viaggio che mette pace in cuore.”
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2023
ISBN9791222048833
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    Anteprima del libro

    Da una parte il miele dall'altra la cera - Sandro Buoro

    A mia figlia Marta perché ricordi il padre.

    A tutti quelli che mi hanno reso meno agra la vita.

    10 gennaio 2009

    Una lama sottile.

    Il villaggio si raggiungeva dalla strada in terra battuta attraverso un gran bosco di betulle e querce e aceri in splendore d'autunno, le foglie coprivano il fondo dello stradone rendendolo scivoloso ma attutivano il rumore dei pneumatici sicché veleggiavo come in mare danzante di forme e colori vegetali affiancato da tronchi segnati dal tempo.

    Dove le foglie più leggere di acacia si sollevavano dietro la scia dell'auto vedevo nel retrovisore il fondo rossastro del sentiero: secoli di stagioni l'avevano concimato con fiori, galle, acheni e il tannino della quercia l'aveva impregnato così.

    Lo slargo tra poche case s'apriva all'improvviso dopo una curva gentile, fermai la vecchia cabrio nella svolta sùbita, mi dava fastidio il blu della carrozzeria che stonava col giallo, l'ocra, il marrone di tante sfumature nelle foglie ballerine portate dal vento del pomeriggio solarino.

    Strano posto: una piazza a cerchio selciata con larghi lastroni accostati a secco di basalto annerito, liscio, lucido, perfettamente pulito dalle foglie:

    Lavoro di ramazza di qualche abitante volenteroso, non credo esista un servizio di nettezza per una comunità di otto dieci case, pensavo.

    E le case non erano meno ammirevoli, tutte in pietra spaccata di fiume: Pietra bagèra, porta umidità ai muri ma è materiale ecologicamente compatibile, nel medioevo si costruiva in questo modo, sfruttando i materiali del posto.

    Mi piaceva l'idea di un'abitazione qui, non sarebbe costata molto, il luogo era lontano dai servizi di una vita comoda, giusto ci si capitava come me che cercavo lei qui, imboscata nella sua natura contadina alla ricerca di funghi, cammini della fede e radici razziali... avevo seguito le sue indicazioni al telefono per l'appuntamento delle 17; c'era possibilità di trovar pace di anima e di sensi ripensando alle parole dell' invito dopo un periodo lungo di silenzi tenaci e sguardi trasparenti all'infinito. L'amavo ancora. Secondo le stagioni degli alberi, il sentimento fogliava teneri germogli arrivando a frutti rari ma succosi di umori e l'autunno portava regolarmente cadute di illusioni come foglie ingiallite seguendo l'inverno dei comportamenti grigi nebbiosi freddi.

    Per anni, ed era l'ennesimo. Ma la stagione oggi era tra quelle case severe grigio cenere intonata a una prolungata estate di attesa disponibile, il sole intiepidiva obliquo le fronde a ovest, mandava barbagli viola sul lastrico lavico.

    Il cartello VENDESI si muoveva lieve verso la ripa alta sul fiume nascondendo la scritta dietro il cartoncino paglierino sbandierato dal vento, quasi a vergogna della proposta di cessione tra le dimore tramandate in eredità da contadini di lungo corso. Mi avvicinai, ero interessato per la possibile convenienza di acquisto date le condizioni dell'opera muraria, solo il tetto pareva a posto, il resto lasciato incompiuto come una fuga dall'intenzione di abitare là; quattro pilastri armati reggevano le due falde del tetto, la casa era aperta senza mura ai venti ma il pavimento di roccia effusiva, quasi a integrarlo col selciato esterno, continuava il motivo e la materia della piazza che entrava così pietra dopo pietra dentro quella dimora mai finita, al riparo solo dalla pioggia se cadesse verticale, senza abbrivio di vento.

    Entrai in quello spazio senza confini precisi calpestando la superficie non limitata, non c'era lastra che sporgesse al piede attento, lavoro di fino incastro. La casa confinava alla riva del fiume più in basso di alcuni metri, lasciando al riparo dalle alluvioni quel rifugio incompiuto... buttai lo sguardo in giù, i massi che dividevano in rivi il filo della corrente erano della stessa augite che tagliata a strati formava pavimenti e impiantiti del villaggio. L'acqua schiumava di cristallo saltando tra rive e sassi, un sentiero di sabbia e pietre scendeva rapido al fiume, perimetri di vecchie abitazioni distrutte sporgevano ai lati del viottolo affiorando di pochi centimetri dai detriti di vita dimenticata.

    Cos'è quel riflesso... mi chiesi scendendo verso il fiume, a qualche metro dalla riva dentro i limiti di quello che era stato il riparo per chi viveva sulle sponde, quando il contado si nutriva anche di pesca e non solo di turisti amanti del silenzio.

    Scostai col piede la rena, l'abbaglio era una lama di spada giocattolo a foggia di katana, sottile sfoglia battuta in acciaio lucido tenuto polito dallo sfregolio dei granelli mulinati da acque e refoli: magnifica l'elsa, bachelite imitante nelle venature e nel colore l'osso o l'avorio o l'ambra, impugnatura anatomica perché la mano brandisse salda.

    Incredibile spada per il teatro in costume o per passatempi di bimbo raffinato nato tra merletti e sete, non certo arma da gioco per figli di pescatori contadini: Come sarà finita qui, mi domandavo rigirandola in mano e soppesando la calibratura equilibrata; mi sovvenne l'importanza rituale, alchemica, sacrale, iniziatica, della cultura della spada katana: ancora oggi in Giappone i fabbri legati allo shintoismo forgiano vestiti di bianco solo dopo aver pregato ed essersi purificati con l'acqua. indossano paramenti sacerdotali e operano osservando un assoluto silenzio, nessuno ha accesso alla fucina e il fabbro sceglie il giorno propizio per dar inizio alla grande opera; per lunghi giorni lotterà con gli elementi - fuoco aria acqua - per trasmutare la materia secondo tecniche segrete. Perché compariva quella spada sulla mia strada? La tradizione giapponese narra che il dio Susa-no-wo, disceso in terra per liberare due vecchi da un serpente a otto teste che divorava le loro figlie, trovò nella coda del mostro una sciabola; avrei dunque dovuto pur io affrontare qualcosa di mostruoso?

    I giapponesi conquistarono l' arcipelago sul filo della spada e la loro storia è scritta sulla lama delle katane, quale destino avrei dovuto leggere su quel giocattolo?

    Non c'era tempo per scavare ancora su quella sponda sorprendente e dentro me, erano quasi le 17, dovevo risalire il sentiero verso la piazza dove una casa, la sua, mostrava aperta come bocca la porta e ne usciva musica, promessa di festa in preparazione poiché non vedevo auto o gente parcheggiate. Ci sarebbe stata una fetta di torta e di allegria anche per me in cambio della spada giocattolo conservata perfetta dagli anni della scoperta dei primi polimeri plastici; sì, l'avrei data a lei che mi ospitava.

    Attraversai la piazza palcoscenico per entrare; all'ingresso (la cornice della porta era di ciottoli di fiume assemblati uno sull'altro e trovai discutibile il motivo ornamentale in serie pietrose) una bella donna sui trenta mi ferma, chiede se sono invitato e chi sono mentre osserva incuriosita l'impugnatura sagomata della spada e la lama sottile splendida splendente, elastica di arma finta.

    lo sono lui di lei e puntuale alle 17, la spada che vedi non è quella della roccia ma l'ho trovata proprio qui nella sabbia del fiume, tra le vecchie case diroccate e indico la riva laggiù.

    Secondo tradizione, il samurai durante le visite deponeva la spada nel vestibolo perché se fosse entrato armato avrebbe insultato a morte l'ospite. Ma insulto non meno grave verso il samurai sarebbe stato se un servitore della casa che egli visitava non l'avesse immediatamente raccolta con uno speciale rettangolo di seta e rispettosamente deposta su un porta-spada, a fianco dell'invitato. Avrei dovuto abbandonare la katana nelle mani di una sconosciuta, curiosa, insinuante estranea? Non era forse meglio donare la spada ritrovata a lei, che m'attendeva, ispirandomi all'etica samurai che con quel gesto metteva il suo destino nelle volontà del beneficiario?

    La bella dice: So chi sei ma la tua lei ha cambiato idea, ha detto a me di riferire e si scosta di lato per farmi dare un'occhiata dentro: seduta mollemente, ha tre maschi attorno, in piedi, e ridono abbozzando un passo al ritmo della fisarmonica nascosta; ha cambiato pettinatura, ora è un caschetto moro tagliato di fresco, alla Valentina del fumetto di Crepax. Un tocco di gioventù e di disponibilità dichiarata.

    Si deve capire la rabbia che monta il mio occhio (quello di lei è invece tutto per gli ammiratori nel tempio) perché l'amica mi fa: Che t'importa, io per la spada che hai, questo ti offro e mi gira le spalle, s' alza la gonna e mostra un culo senza mutanda, tondo liscio perfetto, poi si copre rapida, civetta, si volta e sorride con occhi verdi impastati di ironia e voglia abituale.

    La vampa di caldo sale in viso e il desiderio pulsa forte ma io sono venuto per lei, oggi Valentina, a riprendermi nell'autunno che avanza, sul teatro dai fondali di pietra di lava fredda, il dono del ritorno di fiamma fuori stagione.

    Il pugno stringe l'elsa di liscia bachelite anni '40, dimenticando che giocattolo per non ferire è la lama sottile, scosto di forza col braccio la trentenne all'ingresso, attraverso la stanza musicale in un baleno e meno fendenti nel mucchio, saltano mani, escono budella, guance si dividono dal naso, si aprono bocche rosse senza denti.

    Ora siedo sul letto, piegato in due sento il cuore battere violento sulla pancia e la voce lamenta roca, a stento ritrovo l'interruttore dell'abatjour; l'orrore, I'orrore del sangue schizzato sulla tappezzeria della mia stanza, a rivoli a gocce scende lento verso il pavimento di marmo nella luce debole della notte rotta.

    20 febbraio 2009

    Pescicani e pescispada.

    Nella pienezza della maturità di trentasettenne e nel mezzo del cammin di nostra vita, José (nipote e figlio di emigranti piemontesi che traversarono l'Atlantico verso l'Argentina negli anni Trenta, rientrato in Italia, dopo la sconfitta di quella nazione nella guerra con la Gran Bretagna per il possesso delle isole Falkland Malvine, perché la miseria ha lo stesso sapore ovunque, tanto vale patirla nella terra dei padri) scrisse un libretto di poesie che trasudava malinconia tipica degli apolidi, di quelli che non hanno patria o ne hanno troppe o non ne sentono nessuna come propria.

    Aveva nostalgia per la pampa e i tramonti di fuoco seguiti da incredibili cieli stellati, per il bandoneon, il tango e l'asado preparato all'aperto in gruppo di amici, per il grande Oceano che divideva ma anche univa, per il paese mitico d'origine degli avi e la sua buona gente; in Italia non ritrovò il mito né riconobbe l'umana gente di cui favoleggiavano il padre e il nonno: erano morti tutti, caso mai fossero stati davvero come nel ricordo, e la gente nova pensava a far soldi, a buttar giù vecchie cascine inglobate nel concentrico del paese e a costruire insulsi, redditizi alveari informi. Dei viali che aveva osservato su vecchie foto d'epoca fascista erano rimasti i fori di dimora delle piante sull'asfalto dei marciapiedi.

    Perciò si era sentito in vena di scrivere un volumetto di memorie (sue e degli antenati), una specie di Spoon River padano: bello ma antipatico per i potenziali lettori perché smuoveva il fondo della coscienza, quasi sempre fangoso nell'uomo ignorante. Dunque cercò l'appoggio critico e pubblicitario del quotidiano locale, sul quale ogni tanto, tra furti, incidenti d'auto e sul lavoro, suicidi, omicidi, fallimenti economici, si pubblicavano scarne recensioni di tipo neutro perché il giornale non poteva inimicarsi e perdere con giudizi severi e netti neppure un lettore-compratore di copia. In Italia si legge poco e sempre meno, è risaputo.

    Lei, la redattrice responsabile della pagina culturale, guardò incuriosita (José pensò interessata) quel pezzo d'uomo quand'egli si presentò con sincerità, senza infingimenti e raccomandazioni, a perorare la validità del proprio lavoro letterario; se ne fece dare copia, si interessò ai fatti salienti della vita dell'autore (sarebbero serviti per la presentazione in un eventuale pezzo) promettendo lettura e impegno a capire. José parlava umilmente in piedi, lei era seduta dietro la scrivania ricoperta di pagine di quotidiani e fogli di appunti. Aveva seni pieni che schizzavano fuori dalla camicetta di seta ben aperta sul davanti, l'argentino (uno e ottantacinque di muscoli esercitati al rugby) mostrava sotto i jeans il pacco indurito dalla vista e dal profumo, proprio all'altezza del piano della scrivania e degli occhi equivoci della femmina mollemente inclinata sullo schienale della poltrona basculante.

    La recensione uscì una settimana dopo l'incontro, una delle poche entusiaste e circostanziate della giornalista, contribuì sicuramente a suscitare curiosità intorno al poeta José; e successe di più: la periodista aveva bisogno di un uomo perché attraversava un periodo di deserto sentimentale, ci aveva sempre dato dentro ed era ancora nei fiore delle speranze (se non degli anni), valutò l'italo argentino uomo di spessore culturale e forza fisica (che non guasta all'occasione); lo presentò a politici, amministratori, industriali della zona i quali (come accatto di benevolenza della giornalista e riconoscenza per i suoi silenzi professionali calibrati su certi fattarelli di provincia) fecero comprare ad abundantiam il libro fino ad esaurirne le copie. Mai visto lettori di poesia restare a becco asciutto, eppure di esemplari nelle librerie non ce n'erano davvero più, settecento copie in tre settimane, un best seller sia pure in un'area geografica ristretta, una boccata d'ossigeno per l'esausto conto bancario dell'autore.

    Dopo averlo apprezzato e incoraggiato culturalmente, la marpiona lo gradì fisicamente: aveva capito il bisogno dello sradicato poeta, esser valorizzato per i meriti e le capacità, indubbie pure sul piano corporeo; lo riempì di regali titillandone l'io, dal blazer di fattura prestigiosa al cronografo da polso in oro, persino l'auto seminuova che lei cambiava ogni due anni finì nelle mani del neo scrittore appiedato, gratuitamente... o meglio, gli fu chiesto neppure velatamente di ricambiare con affetto e sesso.

    José era sostanzialmente libero perché nullatenente (le donne parlano spesso di amore e puntano alla coppia stabile per far figli e dar loro certezza economica che il nostro non poteva assicurare), cominciava a preoccuparsi di non trovare un'attività continuativa: una mano lava l'altra e tutte due lavano la faccia, capì che una botta di fortuna stava capitando a lui, per caso, in cambio di qualche botta di altra natura. Al posto suo avrebbe potuto esserci chiunque, il mondo era pieno di situazioni cosi anche se riconosceva a se stesso ottime e meritevoli qualità. Accettò il baratto, la cinica giornalista conosceva il mondo (il lato sfortunato che finisce sulle cronache) e non era ancora da buttare quanto piuttosto da sbattere; sul campo di battaglia, cioè il letto, l'argentino si guadagnò il posto di apprendista giornalista, discretamente pagato e potenzialmente ricco di sviluppi sociali ed economici.

    Rimorsi per quello scambio non ne ebbe perché in Argentina una tale sistemazione vale oro e nel mondo dello spettacolo (molta informazione cos'altro è se non una recita con tanto di copione e maschera?) assai si ottiene con prestazioni in natura; nel suo peregrinare in cerca di recensioni e presentazioni aveva conosciuto un paio di giornaliste che l'avevano data a tambur battente pur di apparire come mezzobusto in tv, esse stesse lo raccontavano in confidenza a dimostrazione della gavetta che avevano dovuto fare. Più erano belle e procaci più facevano carriera, merito della loro intelligenza, in fondo in fondo, considerava José.

    Tornando alla furbacchiona della carta stampata, sotto la sua guida esperta l'apprendista stregone fu ben presto in grado di battere (sulla macchina da scrivere) le strade della ricerca della notizia e della sua preparazione gradita al palato del lettore avvezzo alla cucina di stampa insipida e poco stimolante; ma José possedeva fiuto per cogliere al volo certe frasi sussurrate, taluni pettegolezzi, le lamentazioni della gente che va al bar di buon mattino per un caffè e passa di mano in mano la copia del quotidiano commentando fatti e misfatti, arricchendoli di particolari salaci che lui annotava, ci lavorava sopra e diventavano approfondimenti, figure tipiche, aspetti particolari, curiosità che piacevano e attiravano nuovi lettori.

    Se è vero infatti che sfaccendati, pensionati, casalinghe, mantenuti della pubblica assistenza, faccendieri, sono i consumatori più fedeli dell'informazione di massa, diventando così gregge per furbi politici ed estensori autorizzati di veline (giornalisti e classe politica lavorano spesso in concerto nell'interesse della verità parziale), è altrettanto vero che se ascoltano campane diverse, che suonano altra musica, il loro orecchio volubile esercitato alle correnti si fa attento e volge in altra direzione. E questo può esser pericoloso per l'establishment.

    José divenne pericolosamente bravo e sicuro di sé: le sue recensioni, per esempio, erano pepate, sincere, competenti perché leggeva davvero i libri che gli sottoponevano, non si limitava a riassumere il retrocopertina o la nota editoriale; uh, se sapeva scavare negli eventi e rivoltare la frittata, cominciarono a temerlo quelli che si nascondono dietro il luogo comune e le verità tranquillanti di comodo, a José piaceva dire e far esclamare Il re è nudo. Pur stimandolo (a voce bassa), i professionisti di redazione cominciarono a lamentarsi (a voce alta): le loro versioni o ricostruzioni di accadimenti non coincidevano quasi mai con gli approfondimenti-inchieste del neofita e quando le acque si calmavano (e i cadaveri salgono in superficie) le verità (se a questo mondo si può credere che galleggino) erano più vicine a ciò che José aveva suggerito, scavato, indagato. Si cominciò a temere non tanto l'oggettività della realtà (la verità non è pane per i denti di certi editorialisti e in vero neppure il compito per cui sono ben pagati) ma che l'emigrante (fuggito da una dittatura durissima e probabilmente contagiato, segnato dal sacro fuoco della ricerca dell'informazione corretta e completa) potesse scalzare a furor di critica e di popolo-lettore i vecchi scalda sedie ricchi di ciniche esperienze, di ben lubrificati, nascosti schedari su eclatanti fatti e notabili persone, e di livore per chi è, come dire, più capace, meno compromesso e attento agli equilibri di potere.

    Durante un furioso litigio in redazione tra il caporedattore e la sua vice (lei, protettrice di José) che difendeva taglio e sostanza di una notizia del neofita, scritta e pubblicata senza che passasse vaglio e potere di censura del capo, questi urlò ai quattro venti: Adesso che non ti scopo più alzi la cresta, gallina... quanto a lui, è bravo ma sono io il numero uno qui dentro, e anche se non mi risponde basta guardarlo negli occhi per capire cosa pensa di me, mi fanno paura i fulmini che manda.... Chissà come sarebbe andata a finire tra i due ex amanti, perché lei impugnò il tagliacarte alzandolo in aria (quale versione avrebbero dato il giornale e la controllata tv locale?), quando suonarono alla porta e il trillo fece zittire; l'inquilino del piano di sopra sbraitava sull'ingresso che il mentecatto di casa doveva smetterla di farsi sentire in tutto il palazzo, che bisognava ricoverarlo alla neuro e come mai non venivano pubblicate (ingenuo) le sue lettere dove sputtanava il caporedattore come pazzo furioso. La scena poteva anche far ridere un estraneo ma chi viveva periodicamente quelle crisi di gelosia, di scarsa professionalità, di esaurimento senile tagliava la corda all'istante sperando in cuor suo che la cosa degenerasse finalmente verso la soluzione finale; in quei giorni si poteva osservare la calata in massa di pallidi redattori, collaboratori e telescriventisti al bar sotto la redazione e la tazzina di espresso subiva un'impennata nelle vendite.

    Ce ne furono di crisi ma José resisteva in trincea, non c'era giusta causa per liquidarlo e poiché all'epoca l’Ordine dei Giornalisti non aveva validi strumenti giuridici per la difesa di un praticante (e se li avesse avuti, avrebbe dovuto comunque tirar fuori le palle contro una testata giornalistica per patrocinare uno sconosciuto... impresa degna di miglior causa dal punto di vista della real politik, dato che i principi deontologici son solo parole), il nostro eroe si cautelava non rispondendo alle provocazioni, preparando pezzi documentati che non offrivano fianco alle contestazioni, rintracciando storie originali nella terra di nessuno, cioè dove i colleghi non andavano a cercarle per pigrizia o prudenza. Intanto anche la mecenate protettrice di José si era defilata, nei due anni che erano passati nel frattempo, non per esaurimento passionale quanto perché attorno all'italo argentino si faceva terra bruciata a rendergli difficile la vita e lei non voleva riportare scottature, desiderava rimanere incollata a quella poltrona di potere: Un giornalista non va mai in pensione - sosteneva - perché è legato da un patto di fiducia col lettore, insisteva. Finché il lettore non muore, il giornalista vive.

    Inutile far notare che di lettori ne muoiono tutti i giorni, molto più raro vedere invece un pubblicista che si ritira e fa silenzio dopo una vita d'inchiostro.

    L'episodio della fabbrica costruita su montagne di scorie radioattive preparò il terreno allo scontro finale; José era venuto in possesso di documenti (ben celati in certi uffici amministrativi ma fotocopiati da uno degli informatori che egli aveva saputo crearsi) dell'agenzia di controllo del territorio dai quali si evinceva che una intera comunità di operai e abitanti del vicino paese posavano ogni santo giorno i piedi su scarti di particolari saldature inquinanti ricoperti da marciapiedi, fondamenta, strade. In più le coperture in amianto di alcuni capannoni della fabbrica da tempo si stavano sfaldando e l'acqua piovana portava tutto nel fiume accanto, a poca distanza dai pozzi dell'acquedotto. Bel pezzo, con tanto di interviste di opposte fazioni, aperto ad ulteriori interventi, magari di risanamento, sperava il buon José. Così scomodo, inattaccabile, allarmante che il caporedattore (ormai non lasciava passare neppure una notiziola senza controllare) a dieci giorni dalla presentazione non ne accennava mai alla riunione decisionale pomeridiana per mandare in stampa le pagine. L'argentino giocò di forza questa volta, visto che il capo faceva lo gnorri, e mandò l'articolo a un giornale concorrente: risultato, pubblicazione immediata e prima pagina intera. Apriti cielo, Al tradimento!, Così si favorisce la concorrenza, Siamo noi che ti diamo il pane e via così, all'elenco mancava solo l'ingiuria Sporco emigrante, ma se ne sentiva l'eco nell'aria puzzolente, fumosa della redazione. José aveva formalmente e sostanzialmente ragione, esiste l'obbligo di pubblicare una volta che il pezzo è stato accettato, e quello sulle scorie non era stato rifiutato formalmente e sollecitamente; la concorrenza suggerì al nostro di mandare quelle inchieste che il caporedattore imboscava nei cassetti, le avrebbero senz'altro pubblicate.

    La colpa di José, cresciuto tra peronismo, golpe militare, incerta rinascita economica e democratica, consisteva nel credere che l'informazione sia inchiesta, intervento di stimolo, dibattito per favorire crescita culturale, sensibilità civile e sociale dei lettori, oggi (con le testate giornalistico televisive che non nascondono più gli interessi dì cui sono espressione evidente, spesso patinata e partigiana) possiamo tranquillamente definire José un utopista sovversivo per l'ordine costituito. Se si pensa che questa considerazione sia troppo drastica, consigliamo di rivedere, per esempio, il film Quinto potere di Sidney Lumet, girato profeticamente in quegli anni e visto più volte dall'argentino.

    Fu così che quando un tassista, estimatore del suo modo di trattare notizie, lo fermò sul piazzale per riferire l'incredibile, Josè cavalcò la tigre; si trattava di questo: due volte la settimana, al pomeriggio, l'autista portava al Casinò di una regione vicina alcuni incalliti giocatori di roulette, li aspettava e riportava a casa intorno alle tre di notte, quando avevano finito ì soldi nel tentativo di recuperarli. Fuori del casello autostradale in direzione della città, il tassista notava spesso cassette ben accatastate piene di sardine, cefali, trote, polpi, vongole veraci, cozze: che ci facevano lì? Chi lasciava pesci e molluschi incustoditi e per chi? Josè non credeva alle proprie orecchie, chiese più volte conferma al tassista, raccontò tutto al redattore capo incredulo, gli fu concesso persino di utilizzare il fotografo ufficiale del quotidiano per testimoniare quella che tutti credevano una bufala.

    I due reporter trascorsero inutilmente due notti in auto, fuori dal casello, tenendosi svegli con l'ausilio del caffè di un termos che si erano portati da casa, rientrando al mattino con le pive nel sacco per ascoltare le acide battute dei colleghi sul loro giornalismo verità; era questione di tenacia, fiducia nell'informatore e amor proprio. Al terzo appostamento la verità fu evidente anche ai san Tommaso.

    Verso le quattro di una notte autunnale nebbiosa e freddina, gli occhi dei due, attenti a ogni auto o furgoncino che si fermava al casello per uscire dall'autostrada, videro un grosso camion frigo superare le sbarre, invertire subito la direzione sullo slargo antistante, scendere due autisti, scaricare i frutti del mare (compreso un pescespada di due metri che fu poggiato sulle cassette di pioppo contenenti quel che si disse), rientrare in autostrada e puntare in direzione nord verso altre presumibili soste di scarico. Fotografo e giornalista sì guardarono negli occhi senza parlare, non si mossero immediatamente, divisero l'ultimo caffè del termos, poi Josè esclamò: Non posso crederci, non posso crederci. Le rare auto a quell'ora in entrata o in uscita dal casello scaricavano con la marmitta i gas venefici proprio all'altezza dei contenitori di pesce ma il colmo fu quando dai cortili delle case vicine e della chiesa confinanti col tracciato autostradale, uscirono come per appuntamento fisso, decine di gatti neri, bianchi, rossi, tigrati, chiazzati, tutti ben pasciuti: si avventarono sulle cassette per arpionare con le unghie e addentare in un concerto di miagolii soddisfatti. La peggio l'ebbe il pescespada che fu morsicato rabbiosamente perché più coriaceo di acciughe, boghe, tonnetti ecc. La sua robusta pelle scura e opaca fu riempita di rosei avvallamenti, i morsi dei felini. Il cane che proveniva da un viottolo campestre non si unì al banchetto, annusò schizzinoso, si limitò ad alzare la zampa posteriore e a pisciare sulle vongole della cassetta più in basso per lasciare il biglietto da visita.

    Tutto fu documentato, in silenzio stupito, con decine di flash; a Josè che bussò alla porta del casellante (allora si usavano ancora operatori in carne e ossa) per chiedere quante volte a settimana capitava lo scempio schifoso, fu risposto che l'ordine era di non parlare, che non sapeva niente perché succedeva fuori dall'autostrada ma tutti avevano occhi per vedere, non era luì che faceva il reporter, certo è che di pesce non ne mangiava.

    Il nostro non dormì quella notte, pensava a cosa scrivere e al mattino si recò al giornale di buonora per telefonare alle associazioni dei commercianti e registrare la loro versione dei fatti; dapprima finsero di non saperne nulla ma alla minaccia di render nota la loro pavida, colpevole ignoranza, si sbottonarono: la città non era dotata di cellule frigo per ospitare il pesce prima della commercializzazione mattutina nei negozi, comunque il camion non avrebbe potuto perdere tempo ad ogni sosta per scaricare dentro la città le ordinazioni dovendo percorrere lunghi tratti di autostrada per rifornire i pescivendoli dislocati tra qui e il mar Adriatico o Ligure.

    L'argentino informò poi i nuclei annonari, di igiene pubblica, antisofisticazione: anch'essi cadevano dalle nuvole, si sarebbero attivati per una verifica notturna del fattaccio pur documentato fotograficamente, ma dovevano esser loro in prima persona a condurre l'inchiesta... e ci voleva tempo per organizzare una squadra notturna... anzi, l'egregio giornalista poteva celare per il momento la notizia? Per non allarmare la popolazione, per non danneggiare i commercianti e l'immagine delle loro associazioni, per non far apparire lente e poco informate le varie corporazioni interessate alla sanità pubblica... Josè non era un estremista, aspettò quattro giorni prima di consegnare al capo l'articolo che arricchì pure delle risposte dategli quando chiese ragione al pescivendolo dei morsi sulla pelle del pescespada: Quali morsi? Si vede che lei non se ne intende di pesca, si tratta di inevitabili ferite da arpione nella lotta tra spadari e pesce, è freschissimo, ne vuole un trancio?. Fantascienza pura.

    Josè si aspettava merito e riconoscenza per quel servizio unico, un piccolo scoop come si dice in gergo, invece per altri cinque giorni ci fu gran palleggio di responsabilità decisionale tra caporedattore e direzione generale: pubblicare or not? Questo era il dilemma, se favorire lo scandalo e vendere un centinaio di copie in più o proteggere il buon nome degli inserzionisti di lucrosa pubblicità nelle persone dei commercianti. Ben tre volte le quaranta foto furono spedite via telescrivente a giornalisti responsabili, capi in testa, agenzie e organizzazioni parasindacali, a paraculi vari: nessuno voleva credere all'evidenza e la notizia non usciva. Josè non fu interpellato di persona neppure una volta, lunghe fitte telefonate sottovoce con picchi di brevi urli avvenivano tra caporedattore e altri capoccia, intanto l'articolo invecchiava e il pesce puzzava. Si sperava che lo scoop sarebbe stato superato da un semplice innocuo comunicato stampa circa un provvedimento preso da un organo di polizia per bloccare l'insano traffico o sulla dotazione di cellule frigorifere da parte di associazioni di commercio. In questi casi l'inchiesta sarebbe stata superata dai provvedimenti sia pur tardivamente presi. Josè capì che non erano solo in ballo gli intrecci di interessi tra giornalisti, politici, organi amministrativi, inserzionisti di pubblicità, amici e amici degli amici ma non si voleva avvallare il suo modo di intendere l'informazione.

    Quindi rifece quel che aveva già fatto in precedenza, mandò pezzo e foto alla concorrenza, un quotidiano della sera in via di estinzione: risultato immediato, prima pagina a tutto spazio. E pure le reazioni in redazione furono le stesse, con l'aggiunta della convocazione formale presso la proprietà, non prima che il quotidiano pubblicasse (due giorni dopo la concorrenza) in un angolo di pagina interna un sunto dello scoop solo siglato J.S., José Sardigliano cioè. Neppure l'onore della firma per esteso fu concesso, e - udite udite - il pezzo fu pagato quanto una nota di appuntamento, di modifica d'orario, di cambio d'indirizzo: 1500 lire.

    Non si sa cosa si dissero i rappresentanti della proprietà e l'argentino, voci di corridoio mormorano che ogni parte vuotò il proprio sacco, fatto è che ritornando dall'incontro José scrisse le proprie dimissioni senza che s'udisse voce alcuna di solidarietà, di incoraggiamento, di dissuasione, solo silenzio, non volava una mosca. Finito che ebbe di scrivere a mano sul foglio, entrò senza bussare nell'ufficio dei due ex amanti (davvero ex?) riuniti a porte chiuse e disse (sentirono tutti) che lui aveva visto cose e vissuto esperienze in Argentina che nessuno di loro poteva neppure immaginare nella miseria morale e pochezza intellettuale che li contraddistingueva; riconosceva di essere sconfitto dalla mafia del sistema di cui si pascevano e profetizzava tempi tristi per la libertà di parola e informazione in Italia a causa di gente come loro. Lasciò la redazione in un silenzio assoluto, nessuno scriveva o rispondeva al telefono.

    Un mese dopo era già a casa sua, Mendoza nella regione Pampeana, coi soldi risparmiati nel lavoro di giornalista si era procurato un passaggio su una nave da trasporto (costa poco) portando con sé una motocicletta di terza mano acquistata da noi, aveva restituito l'auto lasciandola però in divieto di sosta cosi la mecenate si vide arrivare a casa un bel pacco di contravvenzioni che dovette pagare, essendo ovviamente la proprietà ancora sua. Seppi tutto questo da una cartolina che Josè mandò dall'Argentina a me, unico amico che era riuscito a farsi nella Patria degli Avi. Anni dopo la prima post-card mi chiese se c'erano novità tra i vecchi colleghi: dovetti rispondere che due note arrampicatrici di redazione dai facili costumi erano state promosse a ruolo, i due capintesta erano andati in pensione per limiti di età ma, data la loro insostituibile capacità, erano stati riassunti immediatamente come collaboratori esterni e in pratica molto era rimasto come prima. Nella risposta citai le parole con le quali la proprietà salutò il redattore capo: La nostra stampa è quasi sempre vera, il giornalismo nostrano è sacrificio, fatica e abnegazione. E' mestiere fondamentale per la libertà, dobbiamo essere sentinelle del territorio con tanta voglia di stupirci e stupire, rispettosi delle vittime, impegnati ad alzare l'asticella della qualità. Il pensionando affermò di suo: Ho vissuto un'esperienza professionale di giornalismo vicino ai fatti e che respira la stessa aria di chi legge.

    Forse si vuol sapere come è finito José Sardigliano? Divenne sindacalista esperto in diritti del consumatore; durante gravissimi incidenti sotto il governo del radicale Fernando de la Rua che congelò i depositi bancari per arginare la fuga di capitali, fu ucciso in un moto di piazza, colpito al cuore. Davvero

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