Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Black Canvas: Nel buio della mente
Black Canvas: Nel buio della mente
Black Canvas: Nel buio della mente
E-book406 pagine5 ore

Black Canvas: Nel buio della mente

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In seguito al tragico suicidio di una paziente e alla burrascosa separazione dal suo compagno, la psichiatra Aria De Luca decide di prendersi un periodo di congedo dal lavoro. Ma quando una giovane donna viene trovata a vagare mezza nuda in piena notte per le strade di Milano e il commissario Pietro Scalia la convoca per una consulenza sul campo, Aria sente di essere pronta a tornare al lavoro.
Forse aiutare quella ragazza spaventata e in stato confusionale a recuperare la memoria è il modo per placare i suoi sensi di colpa e rituffarsi nella vita di tutti i giorni, allontanando il ricordo della relazione tossica con Gabriele, suo ex marito e mentore.
Il passato, però, è un fantasma tanto elusivo quanto pericoloso da risvegliare, e più Aria si avvicina alla verità sulla sua assistita, più rimane invischiata nella rete di manipolazione e inganni di un uomo misterioso e senza scrupoli, che si muove nell’ombra.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2022
ISBN9788831399586
Black Canvas: Nel buio della mente

Leggi altro di Laura Rossi

Autori correlati

Correlato a Black Canvas

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Black Canvas

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Black Canvas - Laura Rossi

    PARTE I

    LA RAGAZZA SENZA NOME

    "Riconoscete forse anche voi ora, che un minuto fa voi eravate un altro."


    Uno, nessuno e centomila – Luigi Pirandello

    PROLOGO

    «Sogno che mi sveglio e sono un’altra persona – i miei capelli, i miei occhi, persino la mia voce sono del tutto diversi – e ogni volta vado allo specchio per controllare la mia immagine, per vedere che aspetto ho. Sono lei. Ogni volta. Lei. È suo il viso che mi guarda dallo specchio, ma sono io che lo controllo. Ho il controllo, e questo mi fa stare benissimo. Ho il controllo su di lei e su di me. Ho il potere sulle vite di entrambe – la mia e la sua – e ho quello che desidero maggiormente: il suo aspetto, la sua posizione sociale, il suo matrimonio. Non c’è più alcuna traccia di me. Solo io conosco il segreto. Sono l’unica a sapere che ci sono io in quel corpo, dietro quella perfetta pelle di porcellana; dietro quei dolci e profondi occhi marroni ci sono io.

    E ho lui. È mio, solo mio ora. Non sono più l’altra donna. Sono tutto ciò di cui ha bisogno. Posso essere sia la moglie che la puttana. Sono una versione migliore di me stessa e una versione migliore di Miss Perfezione.

    Ma la cosa più importante è che ho io il controllo.

    Non ce l’ho mai avuto prima.

    A quel punto i miei occhi si aprono sul mondo vero, proprio mentre nel sogno lui mi sta baciando, appena prima che mi possa dire che sono l’amore della sua vita e pensa solo a me.

    Mi domando se dica a lei le stesse bugie che racconta a me ogni volta che ci vediamo. Le dice che la ama? E perché? Perché la ama?

    Lei non fa niente per lui, a parte essere se stessa.

    Ti amo per quello che fai per me.

    Sono queste le parole di amore che mi dichiara. In quel momento significano il mondo, ma non durano molto. Svaniscono insieme a lui, insieme al sogno.

    Sono gelosa delle parole che le dice, odio il modo in cui la guarda.

    Nessun appuntamento segreto, nessun bisogno di nascondersi, di travestirci per non farci riconoscere… Nel mio sogno è tutto alla luce del sole. Mi chiedo come sarebbe, vivere il nostro amore alla luce del sole.

    Prima di svegliarmi del tutto, sento salire questo rancore: la rabbia torna a galla.

    Sarebbe mio, se non fosse per lei? Mi avrebbe sposato, se non fosse per lei? Comincio di nuovo a perdere il controllo. Voglio quello che ha lei. Voglio lui.

    Apro gli occhi e fisso il soffitto per qualche minuto. Non ho motivo di alzarmi così presto. Sono sola, e passo i primi momenti di ogni giornata – di ogni singolo giorno della mia vita – a chiedermi se starà dormendo accanto a lei, se starà respirando il suo profumo… Mi chiedo se e quando mi chiamerà.

    Non ho alcun controllo. Decide lui. Fissa lui i nostri incontri. Mi dice dove e quando. Il mio compito è essere lì in orario e come vuole lui. Possibilmente nuda.

    È solo dopo aver ricevuto il suo messaggio che trovo la forza di alzarmi. Mi cambia la giornata. Lavoro pensando al nostro appuntamento, faccio quello che devo fare e spero che il tempo voli fino al momento in cui lo rivedrò.

    La mia intera esistenza ruota attorno a lui.

    E si concentra su come essere più simile a lei.

    Farei qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, dottoressa. Farei di tutto per essere lei.»

    Ivy si è uccisa una notte nel suo piccolo monolocale che dava sui Navigli, a Milano. La nostra ultima seduta di terapia si ripete nella mia testa ogni volta che mi fermo a riflettere.

    A ciclo continuo.

    Nutro il mio stesso tormento. Ho tenuto le registrazioni, le ho riascoltate ancora e ancora, in cerca di quell’indizio che mi è sfuggito. Ho analizzato ogni parola, esaminato ogni sua espressione.

    E non ho trovato niente.

    «Smettila di torturarti.» La mia amica Ursula crede che stia diventando un’ossessione per me, tornare a quegli ultimi momenti con la mia paziente e cercare un motivo, un movente per il suo suicidio… cercare il mio errore, così da poter dire: ecco, è lì che hai sbagliato. Te lo sei perso. Non l’hai visto, proprio come tutte le altre persone della sua vita.

    Perché non vediamo mai le cose prima che sia troppo tardi?

    «Metti via tutto e vai avanti,» mi dice, ma non capisce quanto mi senta responsabile.

    «Non sai cosa si prova.»

    A perdere un paziente. A vivere con il senso di colpa, notte insonne dopo notte insonne.

    A vivere con lei, sentirla scavare sempre più in profondità nella mia mente.

    Non ti puoi dimenticare di una come Ivy: aveva un’anima nera… come qualcuno che ha vissuto due vite insieme.

    «Che maschera indossa oggi, doc?»

    Mi chiedeva sempre la stessa cosa quando entrava nel mio studio, con un sorriso che si contorceva nervoso sulle labbra senza mai raggiungerle gli occhi. Era così abituata a indossare una maschera, a essere qualcun altro, che forse si è persa nel suo mondo, sopraffatta dal peso della sua vita segreta.

    Che maschera stavi indossando, Ivy?

    Ha rinunciato alla vita a venticinque anni. Venticinque anni…

    Mi immagino i suoi ultimi pensieri, chiedendomi se si sia pentita della decisione nell’istante esatto in cui ha dato un calcio a quella sedia. O se ha finalmente sentito quel senso di controllo che tanto agognava.

    Morire era l’unica decisione che credeva di poter prendere da sola.

    «Gli mancherei se me ne andassi. Vuol dire qualcosa, vero? Ha bisogno di me tanto quanto io ho bisogno di lui.»

    Forse è stato il suo modo di punirlo per non averla amata abbastanza. Forse è stato il suo modo di punirsi per non essere stata abbastanza, per non essere stata perfetta, come lei.

    La sua ossessione. L’altra donna. La moglie.

    E in un certo senso, che lo volesse o meno, ha punito anche me. Non l’ho aiutata come meritava.

    Ho fallito.

    «Un giorno, sparirò. Prenderò tutte le mie cose e me ne andrò, senza dirgli dove. Lascerò un segno tanto grande nella sua vita che si pentirà di non avermi trattenuta. Voglio sconvolgergli l’esistenza, fargli vedere quanto sia orribile senza di me. Un giorno, dottoressa, farò in modo che non possa più smettere di pensare a me. Lo punirò, punirò entrambi.»

    Chissà se c’è riuscita, se ora occupa tutti i pensieri di quell’uomo, se la sua assenza gli ha sconvolto la vita.

    Di certo ha sconvolto la mia. Sono in aspettativa e il mio matrimonio è andato in pezzi. Metto in dubbio tutto quello che so. Non sono più me stessa.

    Dicono che passerà. Sto ancora aspettando. Ivy ora vive nella mia mente.

    1

    «Aria, grazie mille per essere corsa qui con così poco preavviso.» Il commissario Pietro Scalia mi viene incontro con un sorriso gentile. Mi alzo e gli stringo la mano, ricambiandolo.

    È passato parecchio tempo dall’ultima volta che ci siamo visti.

    «Ma certo. Se dici che è urgente, io arrivo subito.» Afferro la borsa di pelle appoggiata sulla sedia accanto alla mia.

    Ci siamo solo noi nella sala d’attesa del pronto soccorso, a parte una coppia di anziani che aspettano di essere visitati e un uomo che parla con la ragazza all’accettazione.

    Déjà-vu. È francese per qualcosa che è familiare in modo inquietante e fa male come una pugnalata nel fianco.

    Stesso ospedale, stessa sala d’attesa, io e il commissario Scalia che parliamo della mia paziente, ricoverata, il cui battito è flebile ma regolare.

    «Possiamo solo aspettare e sperare,» mi aveva detto Pietro Scalia, posando una mano sulla mia spalla.

    Sperare non era stato sufficiente.

    «Lo apprezzo davvero molto, so che eri in aspettativa.» Mi fa segno di seguirlo e mostra di nuovo il distintivo all’infermiera. «Lei è con me.» Camminiamo lungo il corridoio candido e asettico che conduce al reparto.

    «Uno dei miei uomini l’ha accompagnata qui poco più di un’ora fa,» comincia a spiegarmi mentre superiamo una porta dopo l’altra. «L’hanno trovata mezza nuda che vagava per le vie del centro.» Mi allunga un fascicolo.

    Capelli biondi, sui vent’anni.

    Dalla foto, una donna mi guarda, gli occhi marroni vuoti e persi.

    «Ha detto qualcosa? Qualche parola?» chiedo. Lui si ferma.

    «No, niente di comprensibile, in ogni modo. È in stato confusionale. L’agente che l’ha portata qui ha detto che era completamente assente. I dottori hanno predisposto degli esami del sangue, per vedere se è sotto l’effetto di qualcosa.»

    Annuisco, dando un’altra occhiata ai fogli.


    Presunta assunzione di droghe. Sospetto abuso fisico ed emotivo. Possibile abuso sessuale. Corpo coperto di graffi. Trovate terra e spine nelle ferite. Segni tipici di costrizione sui polsi.


    Costrizione.

    Era legata.


    Vittima sconosciuta. Niente documenti. Niente borsetta. Scalza.


    Una ragazza senza nome, persa per le strade trafficate di Milano, e nessuno ha visto niente. Non può essere apparsa dal nulla.

    «Per quello che ne sappiamo, potrebbe essere stata rapita o stuprata,» continua il commissario, con una mano appoggiata sul fianco e lo sguardo perso per un momento sulla punta delle sue scarpe, mentre mi aggiorna sul caso. «Ho pensato subito a te. Sei una specialista di vittime di abusi, e poi sei una dei migliori, tra i dottori con cui collaboro.»

    Una dei migliori.

    Rabbrividisco.


    «Non è colpa tua, Aria.»

    «Non stava prendendo le medicine.»

    «Non avevi alcun potere sulle sue decisioni.»


    Erano state le parole del commissario Scalia quando Ivy era morta in terapia intensiva.

    Avevo pianto, ribattendo che avrei potuto fare di più: mandare i servizi sociali più spesso a controllare che stesse bene, magari prescriverle farmaci diversi, lavorare di più con lei…


    «A volte non importa quanto tu sia bravo, le cose brutte capitano comunque. È al di là del nostro controllo.»


    Mi aveva costretto a guardarlo negli occhi, a ragionare.


    «Tutti abbiamo perso qualcuno mentre lavoravamo, che fosse un collega o una vittima… tutti, nessuno escluso. Sai perché? Perché a volte vinciamo e a volte perdiamo, Aria.»


    Io ho perso.

    «Sono sicura che anche i dottori qui avrebbero fatto un buon lavoro,» sorrido, incrociando il suo sguardo. Non lo dico a caso, conosco personalmente la maggior parte di loro. Siamo nell’ospedale dove mi sono specializzata, dove mi sono innamorata della mente umana e dove mi sono innamorata di mio marito… tra poco ex marito.

    «Come no.» Al commissario scappa una risata sarcastica che gli fa arricciare le labbra e si nasconde sotto i folti baffi grigi. «Non mi fido neanche della metà degli strizzacervelli in camice bianco che lavora qui dentro. E ho bisogno di qualcuno che sia stato sul campo. Tu sei una di noi.»

    «Tecnicamente, sono solo un dottore,» lo correggo.

    Sono una psichiatra, specializzata in psichiatria forense e vittime di abuso, e fornisco consulenze alla polizia da un po’ ormai, cosa che mi rende un dottore con mezzo distintivo. E una pistola.

    «È per la tua sicurezza,» mi aveva detto il commissario Scalia durante l’addestramento. Quella è stata anche l’ultima volta che l’ho usata.

    «Ascolta.» Si guarda attorno, assicurandosi che non ci sia nessuno a portata di orecchio. «Ho bisogno di qualcuno di cui mi fido. C’è una cosa che dovresti sapere.» Abbassa la voce. «Non sappiamo chi sia o cosa le sia successo, ma potrebbero esserci altre vittime.»

    «Altre?» Sgrano gli occhi e lui annuisce.

    Mi informa che è stata denunciata la scomparsa di due ragazze, nelle ultime otto settimane, entrambe sui vent’anni, entrambe di Milano o di aree circostanti.

    «Non siamo certi che i casi siano collegati, ma è possibile.» Si passa una mano sulla fronte, gli occhi stanchi ma resi vigili da tutta la caffeina in circolo.

    Nicotina e caffeina, il corpo di un sessantenne che si regge in piedi grazie a droghe legali.

    «È per questo che ti ho chiamato: dobbiamo essere sicuri che stia bene, che si possa riprendere e raccontarci tutto quello che è successo,» aggiunge.

    Annuisco, e torno a fissare la fotografia della donna senza nome, i suoi occhi vitrei. Non sono vuoti, decido. Sono spaventati, pietrificati. Non c’è disperazione nel suo sguardo, ma orrore, come se fosse stata ferita oltre il punto di non ritorno.

    «Allora, pensi di potermi aiutare?»

    Quello che vorrebbe davvero chiedere è: Sei pronta a tornare a lavorare?

    Annuisco, chiudo il fascicolo e, stringendolo tra due dita, lascio che penzoli al mio fianco mentre mi sistemo la tracolla della borsa sulla spalla. «Farò del mio meglio,» gli prometto, guardandolo negli occhi.

    «Non ho dubbi.» Sorride ed estrae dalla tasca il mio badge, il mio jolly, per andare e venire senza problemi dal commissariato. «Credo che questo ti appartenga.» Prendo in mano il pass e lo giro per leggere la scritta sul davanti.

    Dottoressa Aria De Luca: psichiatra, psichiatra forense e consulente di polizia.

    Un promemoria di chi sono stata… di chi posso essere di nuovo.

    «Bentornata.»

    Alzo lo sguardo e sorrido appena.

    Sto cercando di avere indietro la mia vita.

    Mi appunto il badge sul maglioncino grigio e mi ripeto che hanno ragione: non posso cambiare quello che è successo, non posso tornare indietro nel tempo.

    Non sei stata abbastanza brava per aiutare Ivy, cosa ti fa pensare che puoi fare qualcosa per questa donna? O qualsiasi altra persona, se è per quello?

    Ah, il Dubbio. Attecchisce nella tua mente, le radici si protendono e si infilano in profondità, distruggendo la tua sicurezza un pezzettino alla volta.

    «Grazie,» rispondo al commissario, raddrizzo le spalle e zittisco quella voce crudele dentro di me.

    Proseguiamo fino a una porta sorvegliata da un poliziotto.

    La sento singhiozzare ancora prima di superare la soglia.

    2

    Magra, fragile, denutrita.

    La mia prima impressione di lei.

    Sta seduta sul letto, nella lunga vestaglia bianca dell’ospedale e si abbraccia le ginocchia. La stoffa le penzola dalle spalle, sopra un corpo che sembra essersi ristretto. Riesco a malapena a vederle gli occhi – li tiene bassi – e alcune ciocche di capelli sfuggite dalla coda di cavallo le sfiorano le guance livide.

    Sembra così giovane.

    La guardo da vicino.

    Giovane, sola e spaventata.

    È ancora sotto shock.

    «Le ho dovuto dare un lieve tranquillante: stava soffrendo molto,» ci dice l’infermiera prima di uscire dalla stanza, promettendo di tornare con un dottore.

    Non stento a crederlo, a guardarla. È ancora così, sta ancora soffrendo molto. Posso solo immaginare come stesse quando l’hanno portata in ospedale.

    I singhiozzi sono quasi dei rantoli, come se non riuscisse a respirare, esausta a forza di piangere.

    «Salve, sono il commissario Scalia e questa è la dottoressa De Luca,» dice Pietro avvicinandosi al letto, ma la donna non alza nemmeno lo sguardo.

    «Signora?» Prova a chiamarla ancora un paio di volte, ma i suoi occhi rimangono uguali: assenti, persi nel candore della stanza, nella morbidezza delle lenzuola.

    È lontana da qui.

    «Mi puoi lasciare qualche minuto da sola con lei?» gli chiedo, incontrando il suo sguardo.

    Forse riesco a farle dire qualcosa, se si sente al sicuro, non sotto esame, come sotto una lente di ingrandimento.

    Tengo quel pensiero per me, ma so che capisce. Sa come funziona: ci siamo già passati.

    Con cautela e in punta di piedi, ecco come si entra nella vita di una vittima o di un sospetto.

    Non sappiamo niente di lei, cosa abbia passato o dovuto sopportare. Un passetto dopo l’altro, è l’unico modo di procedere.

    «Va bene,» acconsente. «Sarò proprio qui fuori. Provo a cercare un dottore.»

    Annuisco e lo rassicuro con un sorriso, ma non appena la porta si chiude alle sue spalle tutta la mia attenzione è di nuovo sulla donna.

    Per quanto tempo ha vagato per le strade prima che la trovassero?

    Il mio sguardo si posa sui suoi piedi. Sono ancora sporchi, graffiati.

    È scappata? Era tenuta segregata da qualche parte?

    E da chi?

    Chiunque fosse che la teneva prigioniera, dovunque fosse, la sua testa è ancora lì. È ancora persa in quell’incubo.

    «Riesci a sentirmi?» le chiedo, sedendomi sul letto accanto a lei, con il registratore in mano.

    Niente. Nessuna risposta, neanche un cenno.

    La paziente non risponde alle domande.

    Lo scribacchio sul mio blocchetto.

    «Puoi dirmi il tuo nome?»

    Niente.

    «Sai dove ti trovi?» provo ancora, esaminando il suo linguaggio del corpo.

    Nessuna risposta, ma sta ascoltando. Mi accorgo che mi sente dal modo in cui muove lo sguardo di lato, controllando ciò che la circonda. Sta ascoltando.

    Forse sta cercando di uscire… di tornare.

    Quando la sofferenza, il trauma, diventa insopportabile, la nostra mente cerca di salvarci dalla disperazione e dal dolore. È come se spegnesse tutto il sistema, si mettesse in modalità di sopravvivenza. Restano attive solo le operazioni necessarie e vitali: respirare, sbattere le ciglia, deglutire, sedersi, alzarsi. Nessun’interazione con nessuno, nessuno sguardo al passato… Solo il vuoto e occhi freddi e senza emozioni sul mondo.

    «Puoi guardarmi, per favore?» Un’altra domanda senza risposta. «Sai che giorno è oggi?»

    Le domande non ricevono risposta.

    Ho bisogno di un’altra strada, qualcosa di diverso che mi permetta di entrare… di vedere nella sua testa.

    Non è qui. Non è qui con me. L’unica cosa che posso fare è osservare. Mi fermo ad analizzare ancora il linguaggio del corpo.

    Dove sei? Cosa ti è successo?

    Do un’occhiata alla sua cartella.


    Trovata che vagava nuda per le strade di Milano vicino al Duomo.


    «Lavori vicino al Duomo?» Le mie parole sembrano far presa su di lei. Per la prima volta mi guarda negli occhi. «Stavi andando a casa?»

    Angoscia. Paura.

    Il suo sguardo è così intenso, dà voce a quello che la sua mente non riesce a formulare.

    Trattengo il respiro. Non mi muovo di un centimetro, il silenzio che mi urla nelle orecchie.

    La donna sbatte le ciglia e abbassa di nuovo lo sguardo sulle mani, come se stesse cercando la forza per parlare. I singhiozzi si stanno calmando, sono un po’ meno forti, ora.

    «No,» sussurra. Mi chino verso di lei, cerco di carpire qualcos’altro prima che smetta di parlare.

    Mai interrompere un paziente, mai influenzare i suoi pensieri.

    «Non posso. Non posso scappare.» Piega leggermente la testa, con gli occhi chiusi per un momento, e poi deglutisce, strozzata dalla paura. Non ha più lacrime da versare, ma le ferite dentro di lei sanguinano ancora.

    «Scappare da chi? Dove?» chiedo, ma lei scuote la testa, stringendo gli occhi.

    «Sono ovunque,» piange.

    «Chi è ovunque?» Mantengo un tono di voce calmo e controllato.

    «Verranno a prendermi.» Questa volta è quasi un grido. La sua voce riempie la stanza. Il petto sale e scende veloce. Si lancia giù dal letto, a braccia tese, e mi afferra per le spalle. Io balzo all’indietro, le mie cose che si sparpagliano dappertutto.

    «Mi aiuti,» mi supplica. «La prego, mi aiuti.»

    «Sono qui per aiutarti,» le dico, cercando il suo sguardo, mentre le sue mani rimangono strette sulle mie spalle.

    Calma, stai calma.

    Non so chi sto cercando di convincere, se me stessa o la mia paziente.

    «Sono qui per te. Calmati.» Ora siamo faccia a faccia, le mie mani posate gentilmente sulle sue braccia, mentre cerco di convincerla a sedersi di nuovo sul letto.

    «Si allontani. La lasci!» Due infermiere e un dottore corrono nella stanza, con il commissario Scalia un passo dietro di loro.

    «Va tutto bene,» dico, anche se la stretta della donna si rafforza, una ritrovata energia che pulsa nelle sue vene. «Va tutto bene.»

    Sopravvivenza. Puro istinto.

    Si aggrappa a quello che può salvarla.

    Me.

    «Per favore,» sussurra a denti stretti, gli occhi spalancati per l’orrore.

    «Signora, signora…» Le infermiere cercano di richiamare la sua attenzione.

    «Signora, la lasci andare. La lasci andare, per favore.» Cercano di farle allentare la presa, ma lei non si muove, anzi le sue dita affondano ancora di più nella mia giacca.

    «Andrà tutto bene,» cerco di rassicurarla mentre con le infermiere la guidiamo con delicatezza verso il letto. «Sono qui per aiutarti.»

    «Stanno arrivando. Stanno arrivando per uccidermi,» mi sussurra a pochi centimetri dall’orecchio, prima di staccarsi e lasciarsi andare sul letto.

    «Piano, piano,» raccomando alle infermiere, sporgendomi sopra di lei con il cuore in gola.

    I suoi occhi rossi, terrorizzati, sono inchiodati ai miei. «Non mi toccate!» Urla, si dimena sul letto, cercando di mettersi seduta, e il terrore nella sua voce conficca i suoi artigli dentro di me.

    «No, no, per favore, no!»

    «Dottore?» Un’infermiera cerca istruzioni.

    «Si sta agitando,» dice l’altra.

    «Piano, piano. Va tutto bene,» il dottore rassicura la donna. Poi si rivolge all’infermiera: «Un’iniezione di 2,5 ml di Diazepam. Ora della somministrazione: 13:30,» continua, dando un’occhiata all’orologio.

    Diazepam. Guardo loro e poi la donna. Si addormenterà presto.

    «Per favore, per favore, no,» urla lei, ormai quasi senza voce. «Non voglio dormire. Non voglio dormire!» Singhiozza, e le lacrime le scorrono lungo le guance.

    «È per il tuo bene. Nessuno vuole farti del male.» Cerco di rassicurarla, ma lei mi guarda, gli occhi spalancati, disperati.

    «Non glielo permetta. La prego, non gli permetta di uccidermi. Per favore, per favore, la supplico.» Le sue urla si fanno più intense, gli occhi fissi sulla siringa, sulle mani del dottore che inietta il liquido nella flebo.

    «Sei al sicuro qui. Sei al sicuro. Non ti succederà niente,» le ripeto, mentre i suoi occhi si appannano. Capisco che è ancora presente, però, sta ascoltando, la mente ancora vigile.

    Sei al sicuro.

    Cerco di dirglielo con gli occhi, le mani posate fermamente sulle sue spalle, e lei mi guarda mentre i singhiozzi diminuiscono, il respiro torna piano piano al ritmo normale. Sono l’ultima cosa che vede prima di addormentarsi e posso solo sperare che sia abbastanza per rassicurarla, per farla dormire tranquilla.

    «Stai bene?» dice il commissario Scalia toccandomi un braccio.

    Lo guardo e annuisco, il cuore che mi batte ancora forte nel petto. «Sto bene. Non mi stava facendo male.» Rassetto la giacca, mi butto i capelli dietro le spalle e faccio un respiro profondo.

    «Poteva farsi del male, o peggio, poteva far del male a lei,» mi dice il dottore, e so che ha ragione. È la prassi.

    Non abbiamo abbastanza informazioni sulla donna. Non sappiamo niente di lei, del suo passato o di cosa sia successo. Poteva essere un pericolo per la sua salute o per quella degli altri.

    «Stava per dirmi qualcosa,» mormoro.

    L’avrebbe fatto, so che era sul punto di farlo.

    Torno a guardarla, la donna senza nome. Sembra così innaturalmente tranquilla, ma dentro di lei c’è ancora una battaglia in corso.

    «Mi aiuti, la prego.»

    Me l’ha sussurrato all’orecchio.

    «Non gli permetta di uccidermi.»

    So che mi avrebbe raccontato quello che è successo.

    «Starà meglio domani e sarà in grado di parlare,» ci rassicura il dottore.

    Esamino il corpo fragile della donna, probabilmente disidratato e malnutrito, mentre il dottore parla con il commissario Scalia: gli esami del sangue saranno pronti domani. Vogliono controllare se ci sono tracce di droghe o alcool, così come sangue o sperma nelle urine.

    «Non siamo riusciti in alcun modo a stabilire se sia stata stuprata. Non vuole essere toccata da nessun dottore, uomo o donna che sia, ma gli esami ci daranno un’idea di cosa può essere successo.» Pronuncia le parole lentamente, spostando più volte lo sguardo da me al commissario.

    Stuprata, probabilmente drogata… spiegherebbe l’agitazione e la confusione.

    Gli chiedo una copia della cartella clinica, voglio studiarla con calma. Acconsente e va a procurarmene una.

    «Cosa ne pensi?» mi chiede Pietro con le mani appoggiate sui fianchi, non appena restiamo di nuovo soli nella stanza. «Ha detto qualcosa? Qualsiasi cosa che possa aiutarci a capire cos’è successo?»

    Scuoto la testa. Nessuna storia, nessun nome. Sappiamo solo una cosa. «È stata ferita, profondamente, e chiunque sia causa della sua sofferenza è ancora là fuori. Credo ci sia una buona possibilità che la stiano cercando. Lei mi ha detto proprio così.» Continuo a guardare la donna, l’alzarsi e l’abbassarsi ritmico del suo petto. «È per questo che mi ha afferrato. Voleva sussurrarmelo nell’orecchio, confidarmi le sue paure. Qualcuno vuole finire il lavoro.»

    Il commissario Scalia sospira, scuote la testa, la guarda preoccupato. Mi chiede di tornare domani. Mi raccomanda di non parlarne con nessuno: sono informazioni confidenziali fino a quando non ne sapremo di più sulla donna e sulla possibilità che sia collegata agli altri casi che sta seguendo.

    «Promesso,» lo rassicuro.

    «Mi serve un uomo di guardia alla porta tutto il tempo, fino a quando non ne sapremo di più. Nessuno è autorizzato a entrare o uscire senza il mio permesso,» ordina parlando al telefono, e poi riferisce le stesse istruzioni al poliziotto alla porta.

    Sarà al sicuro qui.

    La guardo per l’ultima volta, prima di lasciare il suo fianco.

    3

    «Le dirò un segreto.» Si china in avanti come se qualcuno potesse sentirci, anche se non c’è questo pericolo: siamo sole nello studio e la mia segretaria ha la scrivania nel piccolo atrio che ci separa dalla sala d’attesa.

    Aspetto in silenzio, incoraggiando Ivy con lo sguardo.

    I pazienti possono raccontarmi qualsiasi cosa. Niente esce dalla stanza, e la maggior parte delle volte non permetto a quelle parole di rimanere a lungo neanche nella mia mente. È per questo che prendo appunti, che registro tutte le nostre sedute. Cerco di separare le due cose: quando sono la dottoressa De Luca e quando sono solo Aria.

    «Fiuto le bugie, mi accorgo quando qualcuno mi sta mentendo,» mi confida Ivy, lo sguardo fisso sul muro alle mie spalle.

    «Davvero?» le chiedo, cercando di darle corda.

    «Oh, sì.» Mi guarda e annuisce, gli occhi vuoti. «Capisco quando mi sta mentendo, quando si inventa scuse, quando mi promette il mondo e poi cosa ottengo? Niente. Capisco che sta mentendo, ma sa cosa? Continuo a credere a quello che dice. Mi costringo a crederci e non smaschero mai le sue bugie. Sorrido come un cucciolo obbediente. Scodinzolo come una brava cagnetta e lascio che si prenda gioco di me. Pensa che io sia pazza, non è vero?» Mi guarda come se non vedesse l’ora di assistere alla mia reazione, come se sperasse di sconvolgermi, per qualche motivo.

    Me l’hanno chiesto così tante volte, prima. Quasi ogni paziente passa da questa fase: la paura di essere giudicati. Ma non sono qui per giudicare. È la prima cosa che dico quando mettono piede nel mio studio. Quello lo lascio fare al sistema giudiziario. Sono qui per ascoltare, guidare, curare…

    «Come ho già detto, Ivy, non sono qui per giudicare. Non giudico nessuno.»

    «E se le dicessi qualcosa di davvero folle? Qualcosa di così folle da farle cambiare idea…» Le luccicano gli occhi.

    Non rispondo. Aspetto che continui.

    «Amo le sue bugie: il modo in cui mente con gli occhi, con la bocca, con il corpo. Amo quando mi mente, mi fa sentire speciale, perché mente anche a lei. So che lo fa. Conosco tutte le bugie che le propina. So che lei non lo capisce… non veramente. Solo io lo capisco, so quello che vuole davvero, nel profondo. È così travolgente. Se solo lei gli permettesse di essere se stesso… Ma allora penso che quella è la mia forza, accettarlo per ciò che è. È il motivo per cui continua a tornare da me. Lo vede, dottoressa, che situazione contorta?» I suoi occhi brillano di una luce nera, sinistra, quando si posano su di me. «Le bugie ci tengono insieme. Io fingo che non mi ferisca e lui finge di tenere a me mentre mi usa e mi promette il mondo intero. Quindi faccio tutto quello che vuole. Tutto. E mi piace. Sono qualcun altro quando siamo insieme. Sono viva solo quando sono con lui.»

    Tick, tick, tick.

    È il suono del tempo perso: tempo speso a letto, con gli occhi spalancati a dar calci alle lenzuola. Un’altra notte insonne. Io e l’insonnia abbiamo una relazione stabile, ormai. Non è così che si dice quando diventiamo intimi con qualcuno, passiamo mesi e mesi insieme, condividiamo una casa, un letto?

    Tanto tempo fa era il sesso a tenermi sveglia di notte, ora questo.

    Ci rinuncio. Calcio via il piumone e il mio labrador nero, Nerone (per l’appunto), si sveglia e sbadiglia rumorosamente.

    Se solo potesse parlare.

    Gli accarezzo la testa.

    Se potesse parlare mi starebbe insultando per aver svegliato anche lui. È stato così paziente con me, abbiamo traslocato, siamo scappati dalla città ed è stato al mio fianco quando non avevo abbastanza forza o coraggio per avventurarmi fuori.

    «Sei il mio cucciolone,» gli ricordo mentre mi alzo, mi infilo una felpa sopra il pigiama e vado verso la cucina.

    Il solito: una tazza di infuso alle erbe. Magari funzionerà, questa

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1