Akna
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Fantasy - romanzo (112 pagine) - Il passato non è che una lucciola indifesa in una notte di tempesta
Oltre l’amore c’è il Tempo. Attraverso il Tempo, attraverso la Storia che si forma e trasforma le vite e gli amori, ci sono i volti di Federico e Greta, che si ritrovano inconsapevoli ad amarsi sotto la luna del Montefeltro, tra le bellezze di Urbino. Come attraverso uno specchio, entrambi si confrontano con un antico passato, rivivendo il tempo in cui erano Rodriguez e Akna, gli amanti sfortunati di Puerto Morelos, in Messico. Grazie a un talismano dal significato magico, che viaggia dal passato, scoprono il punto di partenza del loro amore, ma devono affrontare alcuni imprevisti che metteranno a dura prova la loro relazione.
Maria Sabina Coluccia nasce il 20 febbraio 1966 ad Ancona, nelle Marche, dove vive e insegna. Si è laureata in Lettere Moderne a Urbino, dove ha frequentato anche L’Istituto per la Formazione al Giornalismo. Ha realizzato in collaborazione con l’autrice romana Loriana Lucciarini diversi racconti e ha curato la raccolta di racconti L’amore tantrico è un piatto vegano, ma in crociera no! Le Mezzelane Casa Editrice. Ha pubblicato il romanzo La dodicesima chiave del cuore con Le Mezzelane Casa Editrice, Cuor di rubino con Arpeggio Libero Editrice e i romanzi brevi fantasy per Delos Digital Il canto della foglia dorata e Il senza cuore.
Vito Ditaranto nasce il 14 maggio del 1970 a Montescaglioso, Matera. Militare di professione, dopo aver vissuto in molti Paesi del mondo, attualmente vive a Taranto, ma la città che predilige è San Antonio, Texas. La scrittura è una passione che coltiva da molti anni e che oggi è dedicata a sua figlia Miriam, che ama immensamente. Le sue prime pubblicazioni (2005) sono sillogi poetiche. Si è poi dedicato al thriller e alla fiaba. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo esoterico V.I.T.R.I.O.L.- l’Artigliatore e il romanzo Il libro della notte, editi entrambi per Le Mezzelane Casa Editrice.
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Anteprima del libro
Akna - Maria Sabina Coluccia
… a mia figlia Miriam con infinito amore…
Ora Sorridi
. E quando avrai un momento di smarrimento o indecisione, fermati, aspetta e senti il tuo cuore.
Vito Ditaranto
All’Amore che sa percorrere le correnti del Tempo,
sa ritrovarsi e prendersi per mano.
Maria Sabina Coluccia
Un giorno un conoscente mi ha detto:
Mi aspettavo che fossi diverso
Gli ho risposto: Bene!. Adesso possiamo iniziare a conoscerci
.
La neve
Neve. Neve, che cade dal sorgere del crepuscolo. Neve che si accumula sui lembi degli alberi lungo la strada, frustati dal vento. Neve, che si posa sulle cime degli alberi, e ne piega i rami fino a spezzarli. Neve sul suolo duro, neve ostinata. Neve che fluttua nell'aria.
La neve cadeva senza sosta, ipnotica. Accesi il riscaldamento. Mi lasciai coccolare dall'aria calda. Mi stava facendo venire sonno. Erano le quattro del pomeriggio. Era inverno pieno, e non mi restavano ancora molte ore di luce a disposizione. Non ero troppo lontano dalla mia destinazione. Doveva essere passata almeno un'ora da quando avevo lasciato Taranto. Forse ero andato troppo avanti. Molti segnali stradali erano sepolti dalla neve. Forse, da qualche parte, avevo mancato la svolta giusta. Decisi di portarmi al margine della strada per consultare una cartina. Dovevo comperare un navigatore, ora me ne rendevo conto.
Il motore ansimò mentre mi fermavo. Sollevai lo sguardo allo specchietto e osservai i sedili posteriori. Lasciai il motore al minimo, per poter tenere acceso il riscaldamento ed evitare che i fiocchi di neve aderissero al parabrezza. Quindi dispiegai la cartina che avevo comprato poco prima a Metaponto, ingegnandomi per capire dove iniziasse e dove finisse. Il cielo era sempre più grigio. Non c'era traccia di sole. Ero solo. Ero determinato a non lasciarmi spaventare. Avevo deciso io di partire. A fatica, mi infilai il cappotto di pelo e mi preparai a uscire. C'era molto vento, e dovetti spingere non poco per riuscire ad aprire la portiera dell'auto. Quando fui del tutto fuori, lo sportello si richiuse alle mie spalle. Ebbi appena il tempo di sentire il freddo, quando accorsi che avevo abbassato la sicura e lasciato le chiavi nel quadro, con il motore acceso. Ero troppo sbalordito per lasciarmi prendere dal panico. Guardai oltre il finestrino, nel tepore dell'abitacolo. Presto il sole sarebbe tramontato.
Un confuso cielo rossastro sullo sfondo. Un ovale ripiegato su se stesso, di tutti i colori o di nessun colore, disteso su sabbia ametista. Una visione sfocata di una stella rossa.
La scogliera.
L'ovale.
Il sole rosso.
La visione.
Silenzio. Tenebre.
Un suono. La prigioniera mosse gli occhi, vide grigio.
Il sole avrebbe lasciato il posto al buio e alla luna. Mi fermai un attimo. Guardai l'orologio. Allargai le mani e le strinsi a pugno. L'aria intorno era immobile, e le nubi basse stranamente erano immobili, cominciò a soffiare una brezza tagliente.
La scogliera.
L'ovale.
Il sole rosso.
La visione.
Silenzio. Tenebre.
Il vento ululava. Cominciai a perdere sensibilità alle dita. Sfregai le mani su e giù all'interno del cappotto. Cercai con lo sguardo qualcosa, un ramo o una pietra, da usare per rompere il vetro. Non c'era nulla. Magari sotto la neve. Cominciai a scavare in un cumulo di neve a mani nude, trasalendo per il freddo, le giunture che si irrigidivano mentre mi arrabbiavo sempre di più. Immersi fino in fondo le braccia nella neve. Le mie dita incontrarono qualcosa di duro. Afferrai e tirai invano verso di me, imprecando per la frustrazione. Mi fermai di nuovo, mi passai la mano sulla catenina intorno al collo, che strana sensazione
, la strinsi sull'amuleto che mio padre mi aveva regalato da ragazzo: un portafortuna con l'immagine incisa di un Occhio onniveggente
. C'era ancora. Infilai un’altra volta le mani nella neve e toccai un oggetto. Al tatto pareva di metallo. Mi feci forza e con un grande sforzo lo tirai fuori. Un oggetto metallico a forma di mano. La Mano di Miriam
. La osservai, al centro vi era un foro. La osservai meglio. Mi alzai in fretta e avvertii un dolore alla testa. Sfilai la catenina dal collo e poggiai l’occhio sulla mano. Coincidevano alla perfezione. Combaciavano. Perché? Era un pensiero troppo difficile da seguire, e lo lasciai scivolare via, procedendo in azioni automatiche: presi la mano metallica e la scagliai verso il finestrino della macchina, che andò in frantumi. Entrai in auto, recuperai la mano e la poggiai sul sedile del passeggero, assieme alla catenina che mi ero tolto. In tutta fretta, ripartii.
Di cielo e mare
Avvolta nel tepore di una coperta azzurro cielo, in stile provenzale, appoggiata a tre cuscini ricamati, declamavo con sentimento una poesia scritta in occitano antico. Mi confortava il calore rassicurante della lana, dei versi d’amore, del legno chiaro del soppalco, nella tana in cui studiavo con le mie amiche del cuore. In quel pomeriggio di inverno, grigio e freddo, loro provano a rendere più sopportabile e meno dolorosa la solitudine che imprigionava la mia anima. Dalla piccola finestra, a quell’altezza, si intravedeva il Palazzo dei Duchi del Montefeltro. Al piano di sotto il fuoco scoppiettava nel caminetto e un profumo di cannella, risalendo su per la scala a chiocciola, rievocava paesaggi esotici e voglia di evasione. Quel piccolo angolo di paradiso, in mezzo al verde del Parco delle Cesane, era il mio rifugio: lì trovavo spazio, libertà e amicizia.
Leggevo, ripetevo, traducevo. Leggevo, ripetevo e traducevo. Ma di quella canzone antica mi arriva solo la sofferenza di un cuore, perso nella solitudine d’amore. La mia stessa solitudine, la mia stessa desolazione. Cercavo di capire il messaggio racchiuso nelle parole che il poeta provenzale aveva affidato al Tempo, parole che erano giunte fino a me. Ma la mia testa era annebbiata, non riuscivo a penetrare nell’essenza di quella poesia. I miei riccioli biondi, impigliati tra le dita, ostacolavano lo scambio tra il mio mondo interiore e quello di fuori. Neppure scostando le ciocche di capelli riuscivo a imprimermi nella testa il senso profondissimo di quelle benedette strofe dell’amor cortese. Niente. Riuscivo solo a chiedermi perché
. Perché soffrire. Perché lui, il poeta, si fosse congelato in un amore tanto assurdo, da procurargli un dolore simile. Perché io mi fossi incastrata nello stesso vicolo cieco, più volte nella mia giovane vita. E la risposta mi sfuggiva, scivolava via dai miei pensieri. Tra le mie dita nervose ciò che restava aggrovigliato erano solo i lunghi riccioli biondi. Dov’ero? Dov’era la mia concentrazione? E lui, dov’era lui?
Il tempo per me si era fermato a sette giorni prima, quando lui mi aveva baciato sotto una bianchissima luna piena; sullo sfondo, in lontananza, c’era il Palazzo Ducale. Intorno a noi la natura era avvolta nel manto nero della notte. Una scena memorabile, che restò impressa nella mia mente per sempre: sotto la luna piena ci scambiammo l’ultimo bacio d’amore.
La data dell’esame si avvicinava e le pagine da studiare erano tante. Fuori iniziava a fioccare piano e il mio sguardo era ipnotizzato dalla neve, che andava ricoprendo di bianco la campagna del magico Montefeltro. Scesi dal letto, trascinandomi dietro la coperta azzurra. Mi accostai alla finestra: i Torricini del Palazzo Ducale sembravano le torri di un castello fiabesco. Mi avevano sempre affascinato. Lasciai vagare lo sguardo e i pensieri: oltre, più oltre, si ergeva la rocca di San Leo, con tutto il suo carico di mistero legato alla figura del grande Cagliostro. In che posto magico avevo la fortuna di vivere! In quella terra incastonata tra l’Appennino e il mare, tutto sembrava possibile, la magia era ovunque.
La voce calda di Emanuela mi riportò alla realtà.
Emanuela, una cascata di riccioli castani e una parlata morbida, come le sue forme, ci supportava con dosi massicce di the e dolcetti fatti in casa. Lei rappresentava senza dubbio quel tratto solido e concreto, che è inciso da sempre nel DNA delle ragazze del Montefeltro. In lei quella caratteristica era molto, molto più evidente che in me, pur avendo entrambe le stesse radici geografiche, forse perché Emanuela era cresciuta tra le colline, a contatto con la terra, mentre io avevo negli occhi e nel cuore la sabbia fine, che si stendeva per chilometri in un profilo sempre uguale a nord, fino alla Romagna. Nei miei occhi verdi si specchiavano i colori dell’Adriatico, mare stretto, ma pur sempre mare. E si sa, il mare, fermo non ci sa stare.
– Ragazze facciamo una pausa – cinguettò Emanuela allegramente dalla cucina. – Venite a prendere il the, poi studierete meglio.
Alla parola the mi rabbuiai e il mio cambiamento di espressione non passò inosservato.
– Che ti prende? – mi chiese Angelica, la mia amica del cuore, riemergendo per pochi attimi, stralunata, dall’ennesima sfuriata telefonica col suo ragazzo. Angelica era romana, ma ormai la consideravamo una di noi. Mi allungò un fazzolettino di carta: aveva capito subito che stavo per scoppiare a piangere.
– No vabbè, allora ditelo che oggi non è giornata e usciamo! – proruppe insofferente Veronica, l’altra ragazza del gruppo, chiudendo di scatto il suo volume di poesie. – Insomma, chi piange di qua, chi strilla di là. Non abbiamo speranza di superare questo esame, se continuiamo così.
Non aveva torto Veronica, la secchiona
.
Angelica litigava col suo ragazzo, al cellulare. Francesco, il suo fidanzato storico, quello dei tempi del liceo, era sempre in preda ad attacchi di gelosia, per lo più ingiustificati. Lei era bella, occhi azzurri e riccioli neri, lunghi, labbra ben disegnate e una carnagione lattea. Era però anche una ragazza con la testa sulle spalle, e il massimo della civetteria che si concedeva consisteva nel battito delle lunghe ciglia scure, che impreziosivano lo sguardo da cerbiatta innocente, donandogli quell’aria di mistero che tanto piace ai ragazzi. Bastava questo per incantare i giovani assistenti dei professori, durante le sessioni di esami, e per mandare in crisi il fragile equilibrio di Francesco, che a ogni bel voto della sua fidanzata, invece di complimentarsi, esplodeva in scenate di gelosia. Una situazione davvero paradossale e insostenibile, pensavo io, che intanto, alla parola the, ero sprofondata in una crisi di tristezza infinita, e avevo iniziato a piangere. L’ultima tazza del profumato e caldo liquido ristoratore l’avevo sorseggiata appunto la settimana prima. Mi tornò in mente il pomeriggio in cui Federico se n’era andato.
Sedeva di fronte a me, nel bar affacciato su piazza Duca Federico, e sorseggiava il suo the inglese, a occhi bassi. Cercai di prendergli una mano, appoggiata sul tavolino tondo e verde scuro in stile Liberty, troppo stretto per contenere tutto l’amore che provavo per lui. Non capivo perché non mi guardasse negli occhi, come sempre, perché non sorridesse alle battute spiritose che dicevo per farlo sorridere. Doveva essere un momento di svago, tutto per noi e per il nostro amore. Invece fu il pomeriggio peggiore