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Il Risveglio Dei Sovrani: Volume Primo delle Cronache del Dominio e della Morte
Il Risveglio Dei Sovrani: Volume Primo delle Cronache del Dominio e della Morte
Il Risveglio Dei Sovrani: Volume Primo delle Cronache del Dominio e della Morte
E-book537 pagine7 ore

Il Risveglio Dei Sovrani: Volume Primo delle Cronache del Dominio e della Morte

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Info su questo ebook

LIBERTÀ O STABILITÀ. TU COSA SCEGLI?


La monarchia è stata debellata, e adesso, con la venuta del nuovo Sistema utopico della Società di Controllo e Creazione, il mondo conosciuto si è evoluto in un qualcosa di nuovo, un qualcosa di diverso. Le scelte possono trasformarsi in illusioni, e le visioni in menzogne.

La Stima di Inutilità detta le sorti dell'esistenza e della vitalità, e chi non ha i requisiti adatti alla sopravvivenza viene cancellato secondo criteri imposti, eppure morali.

Nel corso del futuristico conflitto fra i ribelli, sostenitori della libertà individuale, e i membri del Sistema, fautori della stabilità politica, un particolare Risveglio permetterà a determinati individui di cambiare il corso degli eventi attraverso le decisioni della ragione e le azioni della volontà, decidendo una volta per tutte quale sarà la realtà del Creato.

Ma in cima a tutto, un uomo li attende.

E quando arriverà il momento, saranno in grado di affrontarlo?
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2023
ISBN9791222079059
Il Risveglio Dei Sovrani: Volume Primo delle Cronache del Dominio e della Morte

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    Anteprima del libro

    Il Risveglio Dei Sovrani - Carlo F. Tropiano

    Nota dell'Autore

    A mio Padre, perché le storie, come le persone, sono ricordi importanti.

    Copyright © Carlo F. Tropiano 2023

    Tutti i diritti riservati.

    Questo romanzo è opera di fantasia.

    Ogni riferimento a persone, avvenimenti, o gruppi esistenti è puramente casuale.

    Prologo

    -1

    Lea scese di un ulteriore livello in quel verticale dungeon futuristico di soli bianco e sconforto, attaccata con una cinghia alla sua fidata corda tesa a centinaia di metri dal suolo e la forte speranza di non cadere. Quella era una missione suicida, non solo pericolosa, e lei questo lo sapeva meglio di chiunque altro, ma non avrebbe mai lasciato indietro i suoi compagni. Mai, per nessuna ragione al mondo. Dopotutto, erano suoi fratelli, suoi alleati, suoi simili.

    Erano suoi amici .

    Lea Thioner, ribelle e comandante in seconda del Quinto Blocco, sesta dei leader generali della rivolta e madre di due figli, non avrebbe permesso a quel demonio di prendersi i suoi uomini. Quella era una promessa. Una promessa a loro e a sé stessa, al suo cuore idealista disposto a credere in un futuro migliore di quello già scritto da qualcun'altro.

    Doran. Manuel. Geoff. Hannah. Bartholomew. Lindsay. Quanti compagni aveva già perso? Quanti ancora ne avrebbe perso? E soprattutto, quanti ne poteva salvare, con quel suo disperato tentativo di soccorso? La verità era che non lo sapeva.

    Non lo sapeva, ma avrebbe tentato comunque, poiché tale era la sua indole. Era testarda e coraggiosa, e ne andava fiera tanto quanto il suo maestro prima di lei.

    Boris. John. Melanie. Sara. Ormin. Jade. La discesa pareva non finire mai. Da sola, fra le interiora sotterranee di quel maledetto luogo di controllo assoluto chiamato Torre Clarissa, i nomi sorgevano spontanei. Come se fossero stati loro a chiamare lei, ad invocarla e ricordarla con la loro sola presenza fuggente, invece che il contrario.

    E forse, era proprio così.

    Non fu la candida luminosità nivea circostante a sorprenderla, perché già da tempo sapeva che il bianco era il colore del demonio. Ciò che la colpì, e più di quanto avrebbe mai ammesso con chiunque, era quell'orribile silenzio .

    Quel luogo era un centro di ricerca, una base di controllo e un avamposto politico e militare, a detta del governo. Ma lei sapeva cos'era in verità.

    Quella era una prigione. Una prigione per la gente come lei, desiderosa di libertà e della possibilità di una scelta.

    Una prigione per il criminale peggiore di tutti: la volontà .

    Si era aspettata grida disperate, lamenti disumani e gemiti strazianti. Il nulla più totale non solo la sorprese, inquietò il suo spirito nel pieno delle sue aspettative.

    Merlen. Chibo. Susan. Booker. Mia. Samuel. Tutte quelle persone a lei care. Tutte quelle anime abbandonate dal mondo ma non dalla memoria. Che fine avevano fatto? Lo avrebbe scoperto. Potesse essere la sua ultima azione da viva, lei lo avrebbe scoperto.

    Lo doveva a loro, a sé stessa, ai suoi figli, al futuro migliore in cui così disperatamente credeva. Lo doveva a quel poco di giusto rimasto in quel mondo sbagliato.

    Raggiunse la fine della discesa che non poteva neppure più distinguerne l'inizio, vista la lontananza. Il sotterraneo della Torre Clarissa era immenso, profondo e complesso quanto un labirinto. E bianco.

    Solo bianco.

    Lei odiava il bianco. Era il colore del demonio.

    Sganciò la fune dall'imbracatura, assicurandosi di lasciarla intatta per l'eventuale ritorno in superficie. Se tutto fosse andato per il meglio, come lei aveva attentamente programmato e studiato, a breve Lyanna e Tyler l'avrebbero raggiunta.

    Una squadra di tre era indubbiamente smilza e limitata, ma pur sempre affidabile, e soprattutto produttiva. In fondo, quelle due teste calde erano i suoi migliori uomini. Pazzi abbastanza da seguirla in quella missione suicida, sicuri delle loro capacità al punto di distrarre i Giudici di guardia alla Torre senza la minima esitazione e fidati come nessun altro. E poi...

    Erano rimasti solo loro.

    Ma non per molto. Se Lilbeth, Tormund e Sean erano ancora vivi, si trovavano nelle celle dei sotterranei della dannata Torre Clarissa, e se così era, lei li avrebbe trovati. Li avrebbe trovati e salvati, perché erano la sua famiglia. I suoi compagni. I suoi amici.

    Avrebbe ricomposto la sua squadra, anche se con nient'altro che cadaveri rimasti a fare da membri. Avrebbe riottenuto il suo mondo.

    Attivò il palmare Personal e impostò la modalità furtiva della sua tuta militare. Vide il corpo, partendo dalle falangi, dissolversi e scomparire, divenire invisibile. È il momento, pensò indossando il cappuccio. Sto arrivando, ragazzi.

    Vagò fra le interiora luminescenti di quella prigione insensata passando per corridoi e stanze, scalinate e porte, e realizzò che non sarebbe cambiato assolutamente nulla. Era sempre la stessa storia. Muri, pareti, soffitti, gradini e pavimento. Tutto era bianco e accecante, pulsante di una vita artefatta e costrutta come le menzogne che il demonio serviva al popolo ogni giorno.

    Bianco, accecante e silenzioso.

    Orribilmente silenzioso.

    Non ha senso, rimuginò dopo una decina di minuti. Non c'è nessuno.

    Il Personal pesantemente modificato squillò, emettendo la solita vibrazione alle percezioni del suo sistema neurale. Nel suo campo visivo, prima occupato da un lungo salone di vuota bianchezza, apparve ora l'immagine di Lyanna e la domanda di chiamata.

    Rispondi in modalità interna, ordinò, e l'immagine si allargò, prendendo metà della sua vista e proiettando in tempo reale il video dell'interlocutore.

    «Lea», chiamò in uno sfarfallio statico Lyanna Trident. «Lea, ci sei? Non ti vedo.»

    Il palmare Personal permetteva alla conversazione di restare silenziosa e intracciabile, rilasciando le sollecitazioni necessarie al sistema nervoso di ricevere e capire. Era un qualcosa di insito e inspiegabile, artificiale e impiantato, assolutamente personale e unico. Ma non garantiva lo stesso per l'invio dei dati.

    Per comunicare e non solo visualizzare, dovevi parlare.

    «Ci sono», sussurrò cautamente Lea. «Non posso estrarre il mio Personal, ma ci sono.» Scivolò fra due pareti, convinta di aver finalmente trovato quel passaggio nascosto tanto ricercato.

    «Questo spiega il bianco», scherzò in un riso amico Lyanna. «Ci hai fatti preoccupare, dannazione.»

    Lea non sorrise, anche se avrebbe voluto. «Preoccupatevi dei Giudici», dichiarò seccamente. «Io qui sto bene.» Ed era vero. Non del tutto, forse, ma lei era la migliore.

    Lyanna cambiò improvvisamente espressione e si guardò alle spalle, accennando uno sguardo ostile.

    «Problemi?», domandò Lea.

    «No.» Lyanna guardò nuovamente il suo Palmar, riportando lo sguardo nella visione divisa di Lea. «Non penso.»

    Quanto era forte, l'ultima ribelle Trident. Suo padre era stato Primo Fuciliere al fianco di Albert Thioner. Quella, però, era stata un'altra rivolta.

    E l'avevano persa.

    «Dov'è Tyler?», chiese Lea, sempre attenta ai suoi dintorni.

    Lyanna scrollò le spalle, sorridente come al solito. «In giro con qualche Giudice», disse decisa. «Quello scemo mi farà penare, un giorno o l'altro.»

    , non poté fare a meno di pensare Lea. Lo farà.

    Lyanna e Tyler dovevano sposarsi da almeno due anni, ma ogni volta, o per una missione o per la perdita di un compagno, si erano sempre trovati a rimandare. Il loro prossimo matrimonio era fra sei giorni. Lea sperò solamente, in cuor suo, che del suo corpo, il Quinto Blocco, oltre a lei e i suoi figli potessero esserci anche Lilbeth, Tormund e Sean.

    «Tu?», domandò Lyanna facendosi seria. «Progressi?»

    Lea scosse il capo, e solo quando ricordò che non era nell'inquadratura del suo Personal rispose a voce. «No.» Si abbassò per passare fra due verticali porte automatiche semichiuse, evidentemente disattivate da tempo. «Non c'è nessuno e non si sente niente, ma sono sicura che troverò qualcosa.»

    Lyanna annuì, chiaramente pensierosa. «Speriamo», disse abbassando la voce. «Sennò poi Levi chi lo sente...»

    Già, concordò Lea. Anche perché questa maledetta missione ci è costata tutte le ultime risorse che avevamo.

    Lyanna sembrò distrarsi. Spostò le pupille da un lato, come attratta da qualcosa. «Mi sta chiamando Tyler», affermò con una malamente nascosta nota di eccitazione e conforto emotivo. «Lo metto in visione condivisa?»

    «No», replicò duramente Lea. «Rispondi tu. Vi richiamo poi.»

    Lyanna annuì.

    Termina conversazione, ordinò Lea al Personal, e la sua vista tornò ad essere totale e naturale. Solitamente non era così scorbutica, ma quella situazione non le piaceva, la stava facendo infuriare a dismisura.

    Tutta colpa del demonio.

    Solo dopo una buona mezz'ora di perlustrazione intravide la prima cella. Era bianca, con le sbarre in vetro disattivate e la flebile luminosità disumana che tutto quel maledetto luogo pareva avere. Ma soprattutto, era vuota.

    Ciò non permise però a Lea Thioner di abbattersi. Mi sto avvicinando, pensò invece motivata. Dove c'è una cella, ce ne sono per forza anche delle altre.

    La sua teoria, in fin dei conti, era fondata. Quella era realmente una prigione. Ora doveva solo trovare i suoi compagni e dimostrarlo al resto del mondo.

    Lo doveva fare. Per lei. Per loro. Per Lyanna e Tyler. Per i suoi figli.

    Era così ingiusto, che ci fosse del giusto in quel mondo sbagliato. Forse era proprio il paradosso, a darle così fastidio.

    Udì una voce, e immediatamente, rallentò. Viene da dietro quella porta, realizzò avvicinandosi. Che sia amico o nemico, finalmente, avrò le mie risposte. Estrasse il Boia dal fodero e lo udì attivarsi, le vibrazioni elettro-statiche scorrerle sulle braccia. Forse avrebbe interferito con la qualità della modalità furtiva, ma a questo punto, non le importava. Era furiosa. E motivata.

    Varcò la soglia di quella strana porta-parete automatica senza emettere il minimo suono, addestrata e capace, e si portò al centro della stanza con il più abile e preparato dei movimenti. Non c'era nessuno. E questo, la fece infuriare ancora di più.

    «Sei in ritardo.»

    Istintivamente, Lea si voltò e puntò la canna del Boia in direzione della voce. Dietro di lei, nel preciso punto da cui era entrata, vi era un uomo. Quando?, si chiese rabbiosa. Quando è arrivato? E come ho fatto a non sentirlo?

    L'uomo, baldanzoso e tranquillo, si avvicinò con calmo passo spaesato. «Dovresti ragionare di più sulle tue domande, Lea.» Il suo viso era indefinibile, di un età incomprensibile, e i capelli scarmigliati e lunghi fino al bacino erano bianchi come il latte più liscio e cosparsi di rossi fili spettinati. Le sue pupille avevano colori diversi l'una dall'altra; la sinistra era di un cremisi acceso, la destra di un lucente verde smeraldo. «Dovresti chiedere come posso vederti nonostante il Personal modificato che possiedi. Quello, già, sarebbe un quesito interessante, e soprattutto, argomento di conversazione.»

    Ma se c'era una domanda che Lea aveva in quel momento, era una e una soltanto. Perché sa il mio nome? Non si sentì a disagio. Le situazioni scomode, in fin dei conti, facevano parte del suo lavoro. Era la normalità. Eppure... Perché sa il mio cazzo di nome?

    «Non essere volgare, Lea.» L'uomo continuò ad avvicinarsi, serafico e controllato. Vestiva abiti lunghi, decorati e ornati da mille colori, ma non rintracciabili a fazione alcuna.

    Lea, però, era sempre pronta a tutto. «Un altro passo e ti faccio saltare in aria», minacciò sollevando il Boia. «Ti avverto.»

    L'uomo arrestò il suo cammino. «In questo caso», dichiarò chinando il capo. «Penso che mi fermerò qui.» Sorrise. Era strano, molto strano.

    Troppo strano.

    «Come sai chi sono?», domandò Lea con gelida attenzione oramai abitudinale. Fece una pausa, ragionando sulle conseguenze delle sue azioni, e poi chiese l'unica cosa che in realtà aveva importanza. «Da che parte stai?»

    L'uomo dagli occhi eterocromi scosse il capo e sospirò. «Andiamo, Lea», sbuffò con fare deluso. «Ancora con queste domande impulsive?»

    Lea sfiorò il grilletto. Non stava giocando. A dirla tutta, non aveva mai giocato. Era sempre stata pronta e diretta, fin da bambina. Tutta colpa di quel mondo. «Parla», sentenziò duramente.

    «La mente del soggetto non si affida alle probabilità, ma alle incertezze caotiche che la collettività definisce reali.» L'uomo tornò a camminare, ma stavolta, invece di avanzare, proseguì su una definita traiettoria circolare immaginaria. «È l'apoteosi dell'ipocrisia, eppure, lo facciamo tutti.» Guardò Lea, nonostante non dovesse essere in grado di vederla, con il suo calmo occhio smeraldo. «Come le tue domande e le mie ipotetiche risposte. Non hanno un senso logico e preciso, eppure le poniamo comunque, poiché tale è la conversazione umana.»

    Lea premette lievemente con l'indice. Percepì il Boia caricarsi di pura energia distruttiva. «Vuoi morire?», chiese infastidita.

    L'uomo scosse il capo. «Mh, a dirla tutta no.»

    C'era qualcosa di terribilmente sbagliato, in quella situazione. E lei, questo, lo aveva capito già da un po'.

    «Non te lo ripeterò una terza volta», avvisò fermamente. «Da che parte stai?»

    L'uomo non batté ciglio. «Dalla parte dell'umanità, mia cara», dichiarò sinceramente. «Ma non dalla tua.»

    Lea si preparò al peggio, sia fisicamente che mentalmente. «Lavori per il demonio, quindi.» Lo sospettava. Forse, lo sapeva del tutto.

    L'uomo voltò gli occhi diversi al soffitto, bianco come i suoi capelli. «Mi chiamo Yohann Light», disse presentandosi. «Sono noto come Re del Controllo.» Fece una pausa, riportando lo sguardo su Lea. «Penso che tu mi conosca.»

    Ovvio. Tutti conoscevano il Re del Controllo. Era il braccio destro del demonio. Lo strumento del male più assoluto.

    Lea non si lasciò spaventare. Se sta mentendo, è spaventato, rimuginò carica. Se invece ciò che dice è la verità, ho un ostaggio mostruosamente importante. Non sorrise, anche se avrebbe voluto. In ogni caso, ho fatto il colpo grosso.

    «Non ne sarei così sicuro», interruppe serafico Yohann Light. «Vedi, la convinzione dell'individuo varia a seconda della situazione temporanea, quella definita comunemente come circostanza. Il momento può variare, e con esso le emozioni, definendo un nuovo percorso di comportamenti totalmente inesplorati o inaspettati.» Allargò le braccia, calmo. «Alla fine della giornata, il pragmatismo non vince, ma vince chi è in grado di controllarlo.»

    Lea provò il più genuino e spontaneo disagio. Decise di finire lì quella così scomoda conversazione. «Dove sono i miei uomini?», domandò furibonda. «Cosa gli avete fatto?»

    L'uomo espirò rumorosamente, palesemente assorto. «Il tuo animo è peculiare», determinò chiudendo gli occhi. «Onesto con tutti, tranne che con sé stesso. Mente sull'importanza delle altre persone con pensieri secchi e concisi, tamponando il vuoto della perdita con filantropiche menzogne riparatorie. Affibbiare la colpa delle azioni sul tuo acerrimo nemico, il demonio, senza mai valutare l'esito della propria incompetenza. Tutta colpa di questo e quello, ma mai mia, è così che il tuo processo di ragionamento funziona.»

    Lea sentì la rabbia crescere. Il Boia nelle sue mani deciso a inglobare l'energia della morte più diretta. «Da questo momento ti converrà valutare attentamente le tue parole, Re del Controllo

    Yohann Light annuì in un respiro sicuro. «Altrimenti mi farai saltare in aria, lo so. Lo hai già detto.» Riaprì gli occhi dai colori instabili e li voltò verso Lea con studiata espressione inviolabile. «Eppure, io sono curioso. Voglio davvero sapere quanto bene ti fa sentire ergerti a capo, a dura e ferma guerriera. Voglio dire, i tuoi uomini ti stanno a cuore, e questo non lo metto in dubbio, ma mi domando quanto il tuo atteggiamento cambierebbe se invece che di subordinati si stesse parlando di qualcun'altro, come i tuoi figli.»

    Basta. Re del Controllo o meno, non le piaceva. Avrebbe trovato da sola Lilbeth, Tormund e Sean. Quell'uomo non era degno neppure di venire considerato ostaggio.

    Ma Yohann Light non aveva ancora finito. Allargò lievemente le pupille, come interessato alla reazione di Lea, quando pronunciò due soli nomi. «Thea e Lionel.»

    Lea impietrì. Quelli...

    «... Sono i nomi dei tuoi figli.» Yohann Light tornò ad avvicinarsi, raggiungendo la vicinanza di un passo dalla canna del Boia puntato contro la sua fronte.

    Ma Lea era la migliore. Sempre preparata e attenta. E premette il grilletto.

    Il boato del Boia rimbombò per tutto il salone, mentre l'energia distruttiva raccolta si distorceva e incanalava la sua furia su per la canna di sola devastazione.

    Poi, il nulla.

    Lea provò nausea e disgusto, improvvisamente vulnerabile come la bambina che vide morire il suo maestro dieci anni prima. Cosa?

    Yohann Light, davanti a lei con un sottile sorriso genuino stampato in viso, scosse per l'ennesima volta il capo. «Sai», cominciò affabilmente. «La verità è che i ribelli come te ci servono. L'utopia può esistere; semplicemente, l'uomo non sa gestirla. Poiché perfetto nella sua imperfezione, deve illudersi di poter reagire alle circostanze nonostante l'universo detti l'inutilità delle sue azioni. È la semplice e concisa natura.»

    Lea arretrò. Provò a premere nuovamente il grilletto.

    Non successe nulla.

    Il Re del Controllo inspirò ed espirò con tranquilla filosofia, intoccabile nella sua arroganza. «Per domare le circostanze l'uomo crea strumenti. Il Boia», nominò accennando a quello nelle mani di Lea. «O anche il Personal.»

    Improvvisamente, come chiamato in causa, il palmare Personal di Lea disattivò la modalità furtiva e arrestò tutte le funzioni secondarie, impedendo la comunicazione.

    «Mai, neppure per un secondo, pensa che tali strumenti possano ritorcerglisi contro», disse imperterrito Yohann Light. «Ed è per questo che esiste un governo. Per regolare l' utilità delle leggi e delle persone, e conservare la funzione degli strumenti ideati a scopo individuale nel collettivo di una società stabile.»

    Lea buttò a terra Personal, Boia e tutto ciò che di tecnologico aveva con sé, costretta all'ovvietà. Ansimò e cercò di ricomporsi, e solo quando riuscì ad apparire un minimo intimidatoria, parlò di nuovo. «Perché alla fine è sempre a questo che mirate, no?», domandò collerica. «All' utilità . O meglio, all' inutilità delle persone.»

    Era a questo che lei si ribellava. Al mondo sbagliato in cui giusta era considerata una cosa come la Stima di Inutilità. Al governo ingiusto che eliminava definitivamente tutti coloro non in grado di garantire una produttività stabile e duratura. A quell'inferno in terra in cui era nata e cresciuta.

    Il Re del Controllo spostò lo sguardo altrove, apparentemente noncurante. «Ipotizziamo che tua figlia, Thea, crescendo, diventi un dottore fenomenale. È nel pieno delle sue ricerche, e sta per trovare la cura ad un male tanto orribile quanto mortale.» Camminò con assorto fare esperto, contemporaneamente analitico e riflessivo. «Tornando a casa viene accoltellata da un inutile tossico per qualche spicciolo, e muore dissanguata sul marciapiede. Ti sembra forse giusto?» Voltò nuovamente le pupille su Lea, accese di diversi colori brillanti. «Lei voleva salvare il mondo. Lui voleva bruciarsi il cervello. Dimmi, valuti questi due desideri, queste due volontà , uguali in importanza?»

    Lea non avrebbe cambiato idea, a dispetto del soggetto usato. «Almeno, hanno avuto la scelta», dichiarò convinta.

    «E anche qui», disse prontamente Yohann Light. «Il nostro governo permette la scelta nella più completa sicurezza, eliminando ciò che potrebbe danneggiare la stabilità della vita. Puoi essere un politico, un medico, un ingegnere, un lustrascarpe e un ribelle. Noi lo sapremo e aiuteremo l'individuo a costruire il suo futuro, la sua volontà, seguendo i criteri richiesti dalla società. Non è un sistema arbitrario o soggetto a contestazione, ma la pura e finita illusione di non-utopia.»

    Lea arretrò ulteriormente, disgustata. «È disumano.»

    Il Re del Controllo annuì. «Sì, lo è. Lo è perché trascende l'umano. Perché è il futuro.»

    Così tante parole. Così tante promesse. E per dire cosa? Lea sapeva già come sarebbe finita. «Mi ucciderai.» Non era una domanda. Era una certezza. «E poi, farai lo stesso con i miei figli.»

    «Come ho già detto, il sistema non è arbitrario.» L'occhio rosso di Yohann Light era il male, quello verde il bene. Il suo aspetto era strano quanto le sue parole. «Dal momento stesso in cui si è deciso che la tua Stima di Inutilità è superiore alla media di esecuzione, salvo cali imprevisti, sei sempre stata al sicuro. Il governo ti protegge, e lo stesso vale per i tuoi figli.» Fece una pausa, socchiudendo le palpebre con misurata indifferenza. «Non ti ucciderò. Io ti promuoverò.»

    Lea cominciò seriamente a non capire. «Che cazzo significa questo?»

    «Significa che la tua Stima si è alzata.» Il Re del Controllo sorrise amabilmente. «I miei complimenti.»

    Una manciata di soldati entrò nella stanza da un'apertura alle spalle di Lea. Non erano Giudici, poiché umani e non automi, ma indossavano l'uniforme bianca, con tanto di elmetto, del governo reggente.

    Mi hanno teso una trappola, realizzò Lea. Hanno teso una trappola a tutti noi. Ma era curiosa, avida di risposte come un assetato con dell'acqua. «Perché?» chiese cercando di non tradire la sua gelidità. «Perché fare una cosa del genere?» Se sapevano tutto, qual'era il valore di lasciarli agire indisturbati? Non aveva senso.

    Yohann Light rispose immediatamente. «Per donarvi l'illusione della libertà», disse in un respiro. «Per donarvi momenti di felicità.»

    Lea sentì di avvampare dentro. «Quella non è felicità!», urlò indignata. «È una menzogna!»

    «Il concetto di menzogna cambia a seconda di ciò che si ritiene vero o falso», replicò instancabile il Re del Controllo. «Che come abbiamo già detto in precedenza, varia a seconda della circostanza e situazione. In base a cosa ci è più confacevole.» Fece un cenno con la mano destra, e i soldati del governo, istantaneamente, spezzarono a Lea sia le gambe che le braccia.

    Lea urlò e pianse per il dolore nonostante il suo desiderio di rimanere gelida e inviolabile. Non potevano vederla così. Quei servi del demonio non ne avevano il diritto.

    «Non preoccuparti», sorrise affabile Yohann Light. «Non è un danno permanente. È solo a scopo precauzionale, vista la tua importanza.» Accennò un altro movimento, e tre dei soldati rimossero contemporaneamente il loro bianco elmo in lega militare.

    Lea desiderò di morire. «Lilbeth!», gridò terrificata. «Tormund! Sean! Che state facendo? Cosa mi state facendo?»

    I tre sottoposti di Lea, quelli che lei così disperatamente voleva salvare e che così prontamente le avevano spezzato le ossa, afferrarono il loro ex-capo dalle spalle.

    «La cosa più semplice delle persone sono le loro idee», dichiarò riflessivo il Re del Controllo. «Cambiarle è tanto naturale quanto istintivo. Basta saper usare le parole e i metodi giusti.» Sorrise. «Le circostanze più adatte e utili

    Lilbeth, Tormund e Sean iniziarono a trascinare Lea, urlante e sull'orlo della pazzia, via dal suo interlocutore.

    Ma Yohann Light, in un ultimo saluto, decise di aggiungere ancora qualcosa. «E quando rivedrai i tuoi figli, amerai il mondo...»

    Il mondo. Quel mondo maledetto.

    «... Amerai la SCC...»

    La SCC. Quel governo corrotto.

    «... Amerai Llial...»

    Llial. Quel demonio maligno.

    «... Amerai il bianco.»

    Il bianco. Lei odiava il bianco. Era il colore del demonio .

    Ma lo avrebbe amato. Era il colore di dio .

    Parte Prima

    Rinascita

    1

    Il Mondo. Per molti, l'ecosistema base di un infinità di specie tanto superiori ed evolute da potersi considerare seconde solo a ciò che diede loro il dono della nascita. Forse un dio, forse un principio evolutivo, forse, il puro e semplice caso. La consapevolezza di essere creature viventi, in fondo, genera l'arroganza di credere nell'unicità della propria esistenza come un qualcosa di giustificato e necessario. La grandezza di una razza in grado di definire la coscienza attraverso la libera scelta, tramandata negli eoni grazie alla comunicazione di parole diverse ma uguali. Eppure, la morale di un uomo genera morale nel cuore di un altro, imponendo il tradizionalismo, prolungando l'odio di un anacronistico desiderio di perseveranza e sopravvivenza oltre le generazioni. La fusione di due principi suddivisi in pezzi, categorie, momenti, frammenti di un puzzle di conoscenza appositamente lasciato incompleto, per evitare d'impazzire. La libertà e la stabilità. Tali sono le colonne dell'animo dell'essere, poiché parti opposte dello stesso archetipo interrogativo. Alla fine, la domanda è la stessa di sempre.

    Libertà o stabilità?

    La risposta che nessuno avrebbe mai concepito, poiché fin troppo reale, era l'unica che aveva importanza. Nessuna delle due .

    Uno scampanio improvviso ma non inaspettato, solito anche se mai ben accetto, interruppe i pensieri profondi di Robert. Un annuncio, riconobbe dall'intonazione degli altoparlanti, presenti sull'iper-bus come nel resto dell'intera città e forse dell'intero mondo.

    E infatti...

    «ANNUNCIO ALLA COMUNITÀ: RAID DI TERRORISTI DEBELLATO A SUD DELLA TORRE CLARISSA. I CRIMINALI CATTURATI SONO STATI POSTI SOTTO SORVEGLIANZA E SARANNO GIUDICATI IN BASE AL LIVELLO DELLA LORO STIMA DI INUTILITÀ. L'USO DELLA VIOLENZA DA PARTE DELLE AUTORITÀ NON È STATO NECESSARIO.» La voce programmata che nulla aveva di maschile o femminile, umano o artefatto, accennò una pausa statica. Continuò dopo pochi secondi con il solito saluto alla popolazione. «LA SCC AUGURA A TUTTI VOI UNA BUONA GIORNATA. ANNUNCIO TERMINATO.»

    Annoiato, Robert scrollò leggermente le spalle e tornò a leggere il suo libro. L'uso della violenza non è stato necessario..., pensò indispettito. Chissà perché, ne dubito fortemente. L'omissione di dettagli fondamentali non era poi così distante dal riferire menzogne. In fondo, era tutto relativo. Il concetto di violenza applicato a macchine quali i Giudici della SCC, per una metà acciaio e filamenti inorganici e per l'altra intelletto artefatto dedito solo alla cancellazione di ciò che il Sistema marchiava come inutile, poteva essere un qualcosa di estremamente vago e, paradossalmente, incomprensibile.

    Ma ovviamente, questo il detestabile tono monovolume degli altoparlanti non l'avrebbe mai dichiarato nei suoi annunci. Il massimo che faceva era salutare di tanto in tanto il popolo con la melliflua voce affabile, contemporaneamente inquietante e amichevole, dell'amato beniamino della gente, il Re del Controllo Yohann Light. E poi, c'era Lui ...

    Un altro scampanio, stavolta quello intento ad indicare il tragitto di fermata dell'iper-bus.

    Ancora tre fermate, realizzò cautamente Robert, ora più immerso nella fretta del realismo che nell'illusione della filosofia. Se non mi sbrigo a terminare il capitolo, finirò con il fallire l'esame di oggi. Questo non era assolutamente vero, e lui lo sapeva meglio di chiunque altro. Poteva anche evitare di leggere tutti i titoli che gli avrebbero affidato da lì alla fine dei suoi giorni che sarebbe rimasto il primo indiscusso della classe. Era semplicemente così, un genio. Ma... Questo non gli interessava. Voleva mantenere un basso profilo. In verità, doveva mantenere un basso profilo.

    Meglio fingersi mediocri e vivere una lunga e piena vita, o proclamarsi migliori e morire giovani e senza l'affetto di nessuno?

    Forse una risposta c'era, ma anche in questo caso, non gli interessava.

    E invece sì, ma non vuoi ammetterlo perché hai paura delle conseguenze .

    Silenzio. A volte, le voci erano più vivide. Doveva sopprimerle, se voleva essere forte. Doveva sopprimerle, se voleva vivere.

    Doveva sopprimerle, se voleva vincere .

    Vincere contro chi? Lui? Ma fammi il piacere! L'ultima volta che l'hai visto sei scoppiato a piangere come un bambino e te la sei data a gambe! Sembra anche appropriato che uno schifoso ratto come te abbia avuto bisogno di nascondersi nelle fogne per tutti quegli anni.

    Robert inspirò ed espirò lentamente, leggendo con falsa flemma le righe di un libro che non gli interessava e combattendo le grida di persone che non conosceva.

    Se in mano hai quell'ammasso di carta invece che la superficie liscia di un Personal poco illuminato, è perché a Lui piace leggere in formato cartaceo. Solo per un suo capriccio infantile.

    Robert affilò ulteriormente la concentrazione sulla materia del suo esame. Le voci, lentamente, calarono d'intensità.

    Ma non scomparvero del tutto.

    Se sei vivo, è perché Lui ha voluto così.

    Un nuovo scampanio, risonante nella sua artificiosità. Un tintinnio calmo e controllato, pronto a ricordare, in ogni occasione, a chi realmente apparteneva quel mondo.

    Solo, per un suo capriccio infantile.

    E nello sfogliare un'altra calma, fragile pagina tremolante, le fermate rimaste calarono a due.

    °

    Uno sbaglio.

    Proprio come gli ripeteva in continuazione sua madre: Lui era uno sbaglio .

    No. Non doveva pensare a quello. Non adesso. Doveva pensare all'esame. All'esame che doveva passare senza errori, perché uno sbaglio gli sarebbe costato la media e, quasi sicuramente, la promozione.

    Uno sbaglio. Uno solo. Non poteva permettersene altri. Non lui.

    Non lo sbaglio.

    Shelgon strinse fra le braccia il tomo incomprensibile di anatomia generalizzata, suo unico pensiero e chiodo fisso da quaranta giorni a quella parte. Ancora tre mesi..., si rassicurò inspirando pesantemente. Poi, potrò lavorare e aiutarla con le spese. Rafforzò la presa, sentendo sulle dita il freddo tatto lucido della copertina tirata. Mamma...

    «Stammi lontano!» Gli lancia contro un piatto. No, forse un coltello. «Tu lurido errore!»

    «Mi dispiace, mamma.» Shelgon piange. Ha solo otto anni. «Non volevo...» Non desidera altro che il conforto dell'affetto. Un abbraccio.

    «Zitto!» Lo getta a terra con uno schiaffo. «Sei solo uno sbaglio!» E un altro. «Un maledetto parassita!» E un altro ancora.

    Shelgon si lascia colpire. Sa che questo la farà sentire meglio. Sa che aiuterà la Mamma a tenere sopra la media la sua già precaria Stima di Inutilità. Sa che questo, la terrà in vita.

    «Due!», urla lei, e stavolta lo schiaffo si chiude e diventa un pugno. «Un due su dieci, Shelgon!» Sulle sue nocche cominciano ad esserci piccoli puntini rossi. Gocciolano. Sono macchie di sangue. «Ma quanto fai schifo!»

    Lui non si muove. A questo punto, il dolore neppure lo sente più. È già finito in ospedale sei volte. In tre occasioni ha addirittura rischiato la vita. Ma non importa, perché questo serve a lei. Non vuole che i Giudici la portino via.

    Non di nuovo.

    «Muori!», grida la Mamma. «MUORI!» Afferra la bottiglia mezza vuota di alcool che l'ha portata a trovarsi lì. La alza sulla testa sanguinante di suo figlio. «MUORI, SBAGLIO!»

    Dopo, solo frammenti.

    «Ehi.» Un saluto. Una distrazione di voci del presente per fuggire dai ricordi del passato. La salvezza.

    Shelgon voltò il capo in direzione del cancello della scuola, alle sue spalle. Aveva già riconosciuto il tono dell'interlocutore ancora prima d'incontrarlo con lo sguardo. In fondo, era il suo migliore amico. «Ciao, Robert.»

    «Pronto all'esame?» Robert si avvicinò a Shelgon camminando flemmaticamente, con la cartella scolastica sotto braccio e la mano libera in tasca. Il suo tono era come di norma, distaccato e razionale, simile a quello degli studiati politici del passato.

    Il duo di compagni venne improvvisamente superato, e interrotto, dalla comparsa di un silenzioso Giudice in servizio. Il suo oblungo corpo umanoide, composto da placche in silicio color neve e filamenti organici artefatti, era accompagnato dallo sguardo totalitario di due vitrei occhi trasparenti sempre in azione, perennemente dediti all'analisi. Osservò Robert e Shelgon per neppure un secondo, senza guardarli, poi emise uno scatto statico di accettazione e si diresse verso una nuova serie di alunni poco distanti.

    Tutto quello, in verità, era normalissimo. La SCC aveva ritenuto necessario appurare la Stima di Inutilità di tutti gli individui oltre i 4 anni di età in ogni luogo pubblico o privato dall'alto tasso di concentrazione cittadina, per evitare quella che definevano diffusione involontaria controproducente. Ovviamente, i controlli erano eseguiti dagli imparziali Giudici del Sistema, così da ricordare alla popolazione che la protezione della vita e della pace era costantemente, e senza eccezione alcuna, assicurata da fonti incontestabili.

    Shelgon francamente lo trovava un po' inquietante, a tratti persino invasivo, ma a parte quello era lieto di vivere in un mondo privo dell'ignoranza o delle costanti liti violente di cui leggeva spesso nei libri di storia. Ricordava che da bambino, quando ancora la SCC non esisteva, la società era gestita da una monarchia sull'orlo dello sfascio, in perenne contrasto con gli altri paesi. Per quanto i Giudici potessero essere temibili e consoni a controllare la Stima di sua Madre, niente gli era rivoltante quanto l'idea di vite strappate per gli errori di qualcun'altro, niente.

    Shelgon abbassò lo sguardo, tornando alla conversazione. «Non saprei», rispose a Robert, sviando i pensieri per lui troppo complicati. «Spero vivamente di sì.» Allentò la presa sulla cartella e la percepì più pesante del solito, carica di una gravità la cui importanza era a dir poco necessaria. «Tu?»

    «Il solito.» Robert sorrise con la sua classica smorfia priva di preoccupazione, come a voler rassicurare il prossimo con il solo sguardo color nero. «Ho studiato tutta la notte e non ci ho capito un bel niente.» Si passò una mano fra i capelli e li sistemò con un gesto rapido e preciso, a vedersi oramai abituale. «Dovrò affidarmi alla fortuna, come sempre.»

    Robert è così buono. Shelgon sorrise a sua volta, tirato su di morale da quel ragazzo contemporaneamente eccezionale e amico. Pensa sempre agli altri più che a sé stesso. «E come al solito, prenderai il massimo dei voti», scherzò simpaticamente, trattenendo un grazie spontaneo quanto la sua ammirazione.

    Robert espirò un risolino e inarcò un sopracciglio, volgendo lo sguardo corvino verso il compagno. «Non so proprio di cosa tu stia parlando.»

    «Wyck», chiamò una voce esterna alla conversazione, conosciuta anche se intromessa.

    Robert Wyck voltò il capo alle sue spalle cambiando espressione, tornando serio, rispondendo all'appello con la semplice osservazione.

    La ragazza appena arrivata afferrò l'oggetto del suo richiamo per la camicia e lo abbassò di un intera testa, così da poterlo squadrare fronte contro fronte, occhi contro occhi. «Stavolta hai davvero esagerato», ringhiò con incupito sguardo insensibile, caricando un pugno con la mano libera. «Meriti una punizione.»

    Shelgon fermò la tentata percossa immettendosi fra i due, ponendo il suo corpo prima di quello di Robert. «Fermati, Tiara!», affermò alzando la voce. «Così non risolverai un bel niente!»

    Tiara Gumlein, sotto la frangia scompigliata di capelli rossi, assunse uno sguardo chiaramente stizzito. «Hai sei secondi, Slate», avvisò senza il minimo scrupolo. «Poi ti spacco il naso.»

    Shelgon non si spostò. «Non so cosa abbia combinato stavolta Robert, ma ti prego, questo non è il modo», sostenne con il più spontaneo e genuino dei regolamenti, come se quella fosse per lui l'unica e irrevocabile verità per una vita felice. E sotto molti aspetti, lo era. «Siamo persone, non bestie.»

    Uno schiocco di dolore alle narici, seguito da un rumoroso fastidio di fratture, poi un rivolo di sangue intento a colare sulle labbra.

    Tiara Gumlein tornò a nascondere lo sguardo sotto la frangia, ritirando le chiuse dita schizzate di rosso. «Io ti avevo avvisato.»

    Shelgon cadde in ginocchio realizzando l'accaduto, tentando di fermare con le mani la perdita di sangue al naso.

    «Quanta inutile brutalità», giudicò Robert impassibile, osservando Shelgon atterrato con la sola coda dell'occhio. «Ricorda quella di un gorilla selvaggio.»

    Tiara caricò e lanciò il nuovo pugno con una rapidità impressionante. «Te lo faccio vedere io il gorilla, Wyck.»

    Robert si abbassò all'ultimo momento evitando il colpo di Tiara e una mascella frantumata come se nulla fosse, evidentemente tanto usato a quella scena da esserci oramai abituato. Scivolò sotto la ragazza con un fuggente movimento silenzioso, agile e allenato, e si portò alle sue spalle senza fare il benché minimo sforzo o rumore. «Se è per la storia di Hannah, stai pure tranquilla», affermò con una calma quasi meticolosa, allontanando il passo per dirigersi verso l'entrata dell'edificio scolastico. «Sto andando a rimediare proprio adesso.»

    Tiara forse disse qualcosa, ma Shelgon, ricomponendosi per quanto possibile dal colpo subito, non riuscì a udire altro che il suono elettrico della campanella d'inizio lezione intenta a propagarsi dagli altoparlanti sparsi per tutta l'area, dediti a ricordargli, in un modo o nell'altro, che il suo tanto temuto esame, quello che avrebbe dovuto passare senza nemmeno uno sbaglio , era arrivato.

    2

    Il primo a parlare, in quel luogo fuori da ogni dove e quando, fu la creatura dagli occhi di pietra.

    «Il Risveglio è imminente», annunciò con gravità immortale, incontestabile.

    «In quale dei Mondi?», chiese in risposta l'essere dagli occhi di stella.

    «In tutti e in nessuno», rise il demonio dagli occhi d'oro. «Nel mio e nel tuo.»

    «Ha importanza?», domandò imperturbabile il guerriero dagli occhi ciechi.

    «Può averla», replicò incerta la musa dagli occhi pulsanti. «L'anima è forte, ma il corpo debole. Il Creato potrebbe non essere pronto a tutto questo.»

    «Chi lo sa», ribadì intrigato l'uomo dagli occhi diversi. «La cosa è interessante.»

    «Esprimere giudizio su distrazioni simili è azione futile», controbatté il mostro dagli occhi di abisso. «La principale preoccupazione di un Re dovrebbe andare unicamente a ciò che lo riguarda.»

    «Non dire così», pregò la musa dagli occhi pulsanti. «Il Creato è importante.»

    «Precisamente», stabilì il mostro dagli occhi di abisso. «E proprio per questo, non va giudicato ma osservato.»

    «È la tua parola contro la nostra», gravò il guerriero dagli occhi ciechi.

    «Nessuno ti ha chiesto niente», infierì il demonio dagli occhi d'oro. «Giudizi e supplizi per piccoli fatti fittizi.»

    «Se il Primo fosse qui con noi, cosa penserebbe?», domandò l'essere dagli occhi di stella.

    «Forse che siamo come lui», osservò l'uomo dagli occhi diversi.

    «Basta così», ruggì la creatura dagli occhi di pietra. «Che i Mondi abbandonino il regno della discussione e tornino al loro essere, costante o incostante che sia. Tale è l'ordine delle cose.»

    «Tale è l'ordine delle cose», ripeterono tutti all'unisono, e gli occhi dei Mondi svanirono per fare spazio alla luce. «Tale, è l'ordine dei Re.»

    3

    Lo aveva fatto un'altra volta.

    A questo punto era già il sesto o settimo episodio, forse addirittura l'ottavo, ma Hannah non poté comunque fare a meno di dispiacersi e preoccuparsi.

    E se gli fosse successo qualcosa?, continuava a ripetersi pensierosa. Se per venire da me, fosse stato coinvolto in una brutta situazione? Avvertì un brivido gelido e si strinse nelle spalle volgendo lo sguardo all'esterno dell'aula, osservando il sole dalle finestre olografiche con un sorriso accogliente, calmante come il velo caloroso della luce. Spero solo che stia bene...

    La campanella era suonata da poco meno di un minuto, e sicuramente a breve Hannah avrebbe ottenuto una risposta a tutte le sue dubbiose domande, eppure non poté fare comunque a meno di ragionarci su. In fondo, era stata lei, come al solito, a chiedergli di uscire.

    La colpa era sua.

    "Sono

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