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Fellside. La prigioniera
Fellside. La prigioniera
Fellside. La prigioniera
E-book584 pagine8 ore

Fellside. La prigioniera

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Info su questo ebook

«Grandioso.»
Daily Telegraph

«Originale e inquietante.»
The Guardian

«Un vero gioiello.»
Joss Whedon

«Un libro da cardiopalma.»
Vogue

Jess si sveglia in ospedale. Non ricorda niente, neanche il proprio nome, ma sa che quella che vede allo specchio non è la sua faccia. È stata ricoverata per le ustioni che ha su gran parte del corpo e del viso. A poco a poco, frammenti di ricordi le tornano in mente. Le dicono che ha appiccato il fuoco alla sua casa sotto effetto della droga e che, nell’incendio, è morto un bambino di dieci anni che abitava nell’appartamento sopra di lei. Il suo ragazzo, John, conferma questa versione dei fatti e lei si convince di essere davvero una piromane assassina. Durante il processo accetta passivamente ogni accusa e viene, perciò, condannata e rinchiusa nel carcere femminile di massima sicurezza di Fellside. La prigione è sotto il controllo di una certa Grace, che gestisce, con la complicità della guardia Devlin, il traf co della droga. Grace ha due guardaspalle, Lizzie e Big Carol, con le quali è meglio non avere a che fare. Ma c’è di più: con il favore delle tenebre a Jess appare il fantasma del bambino morto nell’incendio. Le dice che ha bisogno del suo aiuto e che non accetterà un no come risposta…

Dall’autore del bestseller internazionale La ragazza che sapeva troppo

Un libro straordinario, agghiacciante, originale e commovente 
Un thriller che arriverà dritto al cuore dei lettori

Hanno scritto dei libri di M.R. Carey:

«Incalzante e tenero allo stesso tempo.»
Marie Claire

«Ti tiene sulle spine.»
Elle

«Enigmatico e avvincente.»
Harper’s Bazaar

«Travolgente, intenso.»
i09.com
M.R. Carey
è nato in Inghilterra nel 1959. È autore di vari libri e di fumetti, ha lavorato per la DC Comics e la Marvel, firmando episodi acclamati dalla critica delle famose serie degli X-Men e dei Fantastici quattro. Le sue opere finiscono regolarmente nella classifica del «New York Times» dedicata alle graphic novel. È stato anche sceneggiatore di Hollywood. La ragazza che sapeva troppo, diventato in pochi mesi un successo internazionale è diventato un film con Glenn Close, Gemma Arterton e Paddy Considine.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2017
ISBN9788822704924
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    Anteprima del libro

    Fellside. La prigioniera - M.R. Carey

    tavolanarrativa_fmt.png

    1478

    Dello stesso autore:

    La ragazza che sapeva troppo


    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Nomi, luoghi e avvenimenti sono il frutto

    dell’immaginazione dell’autore,

    e qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali,

    viventi o defunte, è del tutto casuale

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Fellside

    First published in Great Britain in 2016 by Orbit,

    an imprint of Little, Brown Book Group

    Copyright © 2016 by M. R. Carey

    The moral right of the author has been asserted

    Impaginazione e traduzione dall’inglese di Sandro Ristori

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0492-4

    www.newtoncompton.com

    M.R. Carey

    Fellside

    La prigioniera

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Indice

    PARTE PRIMA. CHI MORIRÀ PER MEZZO DEL FUOCO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    PARTE SECONDA. NON C’È PERIODO PEGGIORE PER ESSERE VIVI

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    PARTE TERZA. STATE OF GRACE

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    PARTE QUARTA. CREIAMO LE COSE DI CUI ABBIAMO BISOGNO

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    A Louise. A David. A Ben.

    Neanche vivendo mille anni potrei amarvi a sufficienza.

    Parte prima

    Chi morirà per mezzo del fuoco

    1

    È strano quando ti svegli e non sai chi sei.

    Jess Moulson – anche se non pensava a se stessa con quel nome, né con nessun altro se è per questo – si ritrovò sdraiata tra lenzuola bianche in una stanza bianca, travolta da ricordi che erano soprattutto rossi, gialli e arancioni. I colori si sovrapponevano allargandosi all’infinito, vorticanti, lanciandole addosso ondate di calore, come se avesse aperto la porta di un forno troppo velocemente e la forza dell’aria bollente l’avesse investita in pieno.

    Qualcuno le aveva appena parlato, con un tono da cui traspariva una certa urgenza. Si ricordava le voci, basse, proprio davanti alla sua faccia.

    La sua faccia… ora che ci pensava la sua faccia sembrava strana. Provò a chiederne il motivo a una delle donne vestite di bianco che andavano e venivano in continuazione, ma non riusciva ad aprire bene la bocca, e anche quando lo faceva, non veniva fuori alcun suono, a parte qualche sibilo e qualche verso gutturale che le grattavano la gola e le facevano male.

    La donna si avvicinò e le parlò molto piano. Era più giovane e più bella di Jess, eppure emanava una certa aria di autorità. Per un istante Jess non riuscì a inserirla in alcun contesto. Probabilmente era un’infermiera o una dottoressa, ma nel totale disorientamento di quei minuti poteva anche essere una specie di suora. Forse la crisi che Jess stava attraversando, per quanto fosse assurdo, era una crisi di fede.

    «Non riuscirai a parlare ancora per qualche giorno», le disse la donna. «Non dovresti nemmeno provarci. I tuoi polmoni e la tua gola hanno subito parecchi danni, e non guariranno se li sforzi».

    Un’infermiera allora, non una suora. Aveva subito danni a polmoni e gola. La sua anima poteva essere ancora intatta, quindi, anche se non le sembrava.

    Fece un gesto con il braccio libero, quello in cui non era infilata la flebo, alzando la spalla. Non stava cercando di scacciare via quell’informazione, anzi, stava cercando di procurarsene altre. Ma l’infermiera non la comprese, oppure la ignorò. E se ne andò senza aggiungere niente.

    Jess rimase lì da sola, e non era solo frustrata, ma anche spaventata. L’infermiera l’aveva guardata in modo strano, con un’espressione molto particolare. C’era un po’ di compassione, ma anche qualcosa che sembrava riserbo, o forse cautela. Per caso Jess aveva qualche malattia contagiosa? Ma in quel caso, perché si era avvicinata così tanto?

    Non se ne preoccupò per molto. Qualcosa dentro di lei la stava attirando verso il sonno. E si arrese, e la stessa cosa si ripeté più volte durante la prima giornata. Aveva dei brevi momenti di coscienza. Il sonno era leggero e infestato da sussurri che sembravano appartenere a molte voci diverse. Ogni volta che si risvegliava, uscendo dall’oscurità come un sub che si riaffaccia in superficie un attimo prima che finisca l’aria, tornavano le stesse domande.

    Dove sono? Come sono finita qui? Chi è che pensa questi pensieri? Cosa c’era prima che ci fosse questo?

    Tutti si comportavano con eccessiva cautela con lei, non solo quell’infermiera. Come se ci fossero delle questioni in sospeso, qualcosa di non risolto. Jess continuava a sperare che una di loro rispondesse alle domande che lei non riusciva a fare. Avrebbero dovuto insegnarlo a infermieristica. Alla prima lezione: se una paziente si sveglia di colpo dopo un grosso trauma, per cominciare dalle tutte le informazioni base. «Hai avuto un terribile incidente», oppure, «Ti hanno derubata e ti hanno lasciata mezza morta a terra davanti alla stazione della metropolitana».

    Ecco un indizio, o quasi. Un migliaio di ricordi vorticarono di fronte a quelle parole. Le stazioni della metropolitana erano state un caposaldo della sua vita, quindi probabilmente viveva a Londra. Ma non c’era niente nella sua testa che potesse confermare l’incidente o l’ipotesi del furto. C’era solo un buco. La sagoma che rimane nel foglio dopo che hai ritagliato un omino di carta, prima di bruciarlo o buttarlo via. Non era Jess, al momento. Era l’assenza sospettosa di Jess.

    Quando iniziò a ricordare fu di nuovo colpita da quel senso di confusione cieca, perché rammentava solo i suoi primi risvegli. Il primo giorno non era stato il primo giorno, quindi. Era stata lì per molto più tempo, incosciente a tratti, vivendo in un unico istante annebbiato prolungato all’infinito.

    I primi risvegli erano stati diversi da altri più recenti. Il suo disorientamento allora era stato coperto da una fame disperata e incontenibile. Era una tossicodipendente (quei ricordi le erano tornati come un sovraccarico sensoriale, come se la sua mente schiacciata dalla pressione stesse tornando alle condizioni a cui era abituata) e il bisogno di una dose era stato fortissimo. Doveva trovare sollievo, in qualche modo. Sentirsi bene. Una volta si era trascinata giù dal letto ed era quasi arrivata alla finestra, con la flebo e tutto. Voleva scavalcarla, buttarsi di sotto e correre alla ricerca di eroina. Dalla finestra si vedeva il cielo e degli edifici imponenti, e non aveva modo di sapere a quale altezza si trovasse. Ma si sentiva pronta a correre il rischio. Poi le donne in bianco glielo avevano proibito categoricamente.

    Quei ricordi le fecero tornare la voglia, ma adesso era attenuata. Controllabile. Quella fame non era così forte da impadronirsi di lei e scuoterla da dentro. Se ne stava lì ferma in un angolo della sua mente, chiedeva attenzioni, certo, ma con cortesia.

    Già solo quello era spaventoso. Con i ricordi della dipendenza ne erano arrivati altri, spinti in superficie dalla forza di qualche pressione interna. Era riuscita a smettere una volta in vita sua, ed era stato un oscuro percorso di miseria che aveva cancellato giorni e settimane intere dalla sua mente. Se era in crisi d’astinenza, lì su quel letto, allora doveva essere già passato parecchio tempo.

    Anche quella strana sensazione che provava verso la sua faccia la spaventava. Era come se la sua pelle non le appartenesse più. Come se qualcuno le avesse fatto una di quelle maschere di bellezze con i fanghi e poi si fosse dimenticato di toglierla dopo che si era indurita.

    Il terzo giorno provò a tirarsi su. Delle donne in bianco corsero verso di lei e la spinsero a letto. «Voglio uno specchio», disse in un urlo soffocato, una specie di muggito, come se fosse la peggiore suggeritrice teatrale del mondo. «Per favore, qualcuno mi porti uno specchio!».

    Le donne in bianco si scambiarono sguardi preoccupati finché una di loro non prese una decisione. Uscì e tornò con uno specchietto preso dalla borsa di qualcuno. Lo tenne fermo in mano così Jess riuscì a vedere la sua faccia che la guardava dall’alto. Fu un brutto shock, perché non la riconobbe, per niente.

    Non era un’amnesia. Sapeva come sarebbe dovuta essere la sua faccia, e quella che vedeva era diversa. Cioè, era una copia accettabile che avrebbe tratto in inganno uno sconosciuto, e quando era rilassato il volto non era così terribile. Be’, in realtà sì, lo era. Intorno agli occhi la pelle era gonfia come se qualcuno l’avesse presa a pugni per parecchie ore di seguito; in certi punti invece era tirata e lucida. Ed era pallidissima, come se avesse passato un anno o due in una caverna sul versante di una montagna come Osama bin Laden.

    Ma quando la sua faccia si mosse – quando provò a parlare – diventò l’immagine di un incubo. Il lato destro della sua bocca era inerte, insensibile, quindi il lato sinistro, più vitale, faceva orribili smorfie. La simmetria scompariva, e si capiva che in realtà non c’era mai stata.

    «Va bene?», chiese l’infermiera che reggeva lo specchio. Con gentilezza. Con tatto.

    Jess non riusciva a rispondere. Non c’era alcuna risposta che potesse spiegare come si sentiva.

    Si ricordò una parte del suo recente passato quella notte, nel sonno. Le voci che sussurravano erano ancora lì, come se nella sua testa si stessero tenendo un centinaio di conversazioni. E con loro arrivò una sensazione di vulnerabilità. Era esposta, inerme, in un luogo aperto. Non sola: era circondata da molte persone, invisibili. Così tante che non c’era abbastanza spazio perché stessero in piedi tutti: alcuni erano piegati su se stessi e su di lei come una melassa calda versata da una pentola.

    Jess non sognava da quando era una bambina, ma adesso le immagini apparivano e scomparivano di continuo. Si teneva la faccia – una versione più piccola della sua faccia – tra le mani, e poi la lasciava cadere. Varie volte. Quando precipitava a volte si sentiva un rumore metallico o un frusciare da lontano, oppure nessun suono.

    Poi arrivava un fuoco che si alzava davanti a lei.

    Le entrava in bocca.

    Rimaneva lì.

    Si svegliò tremante nella calda stanza d’ospedale, raggelata dal suo stesso sudore appiccicoso. Un respiro le si bloccò in gola, come se fosse diventato solido, e fu costretta a sputarlo fuori in brevi e rapidi rantoli.

    «Cosa mi è successo?», gracidò all’infermiera che era venuta a controllarle temperatura e pressione sanguigna la mattina (l’odore della colazione ristagnava pesante nell’aria, ma Jess non poteva prendere niente per bocca, quindi l’odore era il massimo che poteva ottenere). «C’era un fuoco, vero? Dimmelo, ti prego!».

    «Dovresti…».

    «Lo so, lo so. Dovrei riposarmi ma non posso finché non saprò cos’è successo. Ti prego!».

    L’infermiera la fissò a lungo, per un attimo parve che stesse per rivelarle qualcosa. Ma alla fine tutto ciò che disse fu: «Chiedo al dottore». Le rimboccò le coperte, piegando i rigidi lenzuoli con l’efficienza brusca di una maestra di origami.

    «Per favore», sussurrò di nuovo Jess non appena l’infermiera si piegò in avanti, vicinissima al suo volto. Aveva aspettato apposta quel momento, pensava che sarebbe stato più difficile dirle di no a quella distanza.

    E a quanto pareva aveva ragione. «Sì, c’è stato un incendio», rispose con riluttanza l’infermiera, mentre lisciava le ultime pieghe del lenzuolo.

    «Dove… era…?», chiese Jess, e questa volta in gola sentì solo qualche fitta di dolore. Se si fosse limitata ai monosillabi forse sarebbe riuscita a ottenere qualcosa da quella conversazione.

    «Il tuo appartamento. Il tuo appartamento ha preso fuoco con te dentro. Quando eri… quando non eri in grado di muoverti».

    Quando ero strafatta, tradusse Jess. Ho dato fuoco al mio appartamento quando ero troppo fatta. Che razza di persona fa una cosa del genere? Solo una che è decisa a rovinare se stessa e tutti coloro che la circondano.

    La sua mente le proiettò una serie di immagini. Una statua di resina di una ballerina cinese con un flauto. Una lampada a forma di mongolfiera, con sotto due fatine che salutavano da una gondola. I CD di musica folk. I suoi libri. Gli album di fotografie. Tutto sparito?

    «Brutto…?», chiese.

    «Molto. Davvero, dovresti cercare di non pensarci. Non ti aiuterà a rimetterti in sesto».

    L’infermiera se ne andò subito. Sembrava volesse scomparire in fretta e furia per non essere costretta a rispondere ad altre domande.

    E a quel punto nella sua testa apparve un’altra immagine.

    John.

    La sua faccia, il suo nome e la vaga sensazione di cosa significassero quel nome e quella faccia. Oh, Cristo, John era morto? Fu presa dal panico, e un momento dopo la colpì un selvaggio e appena nauseante senso di speranza. Se John era morto…

    Si tirò su di impulso, senza pensare. Ma non ne aveva la forza, e ricadde nel letto, esausta e in preda alle vertigini.

    Doveva sapere. Centellinò le sue forze per poter chiedere di nuovo all’infermiera, e cercò di tenere da parte le sue ridicole energie con un rigido programma di esercizi. Riusciva a tenersi sui gomiti solo qualche secondo prima di ricadere sulle lenzuola, ma ci lavorò su a intervalli regolari durante la mattinata. Ogni volta si riprometteva di resistere per qualche secondo in più.

    Il giro delle visite era alle undici. Il dottore passò davanti alla porta di Jess senza rallentare, seguito da un’elettrica fila di studenti di medicina che, a turno, la guardavano con gli occhi spalancati, come fosse una modella in uno spettacolino erotico. Poi riprendevano la marcia, e la fila si snodava come un serpente.

    Benissimo.

    Aiutati che Dio ti aiuta. Si trascinò giù dal letto e appoggiò i piedi a terra. Riuscì a togliersi l’ago dal braccio e lo lasciò cadere. Il tubo attaccato alla flebo disegnò una striscia rossa sulle lenzuola bianche.

    Non era facile mettersi in posizione verticale, ma quando ci riuscì, fu in grado di trasformare i suoi movimenti inconsulti e ubriachi in una lenta marcia, scegliendo di volta in volta il momento giusto per mettere un piede dietro l’altro.

    Andò verso la porta al rallentatore, ci mise circa un minuto e mezzo per fare quattro metri. Uscire dalla porta fu difficile, perché per sbaglio la colpì con il gomito, attivando una specie di meccanismo a molla che la fece chiudere. Ci si dovette appoggiare sopra con tutto il suo peso per tenerla aperta mentre cercava di allargare lo spiraglio. Poi lo attraversò, la porta sbatté alle sue spalle, e per un momento si sentì libera e serena. Ma solo perché stava guardando verso destra, e l’occhio sinistro era troppo gonfio per permetterle di avere una visione periferica.

    Dal lato cieco arrivò una mano che le si appoggiò sul braccio, appena sotto la spalla, ma non bruscamente. Senza stringere, ma la bloccò comunque. Una voce disse: «Signorina Moulson, devo chiederle di rientrare».

    Jess si voltò. Ci vollero parecchi, piccoli movimenti dei piedi. La donna che la stava guardando non era vestita di bianco, ma di blu notte, con un soprabito giallo acceso. Era una poliziotta, non più alta di Jess, ma più tarchiata, più solida, e presumibilmente non così debole. Una leggera brezza sarebbe stata sufficiente a buttare Jess a terra. Si arrese. Scacco matto in una sola mossa.

    Ed era di nuovo confusa e scioccata. Perché c’era una poliziotta? La stavano tenendo sotto controllo? E se sì, lo facevano per proteggerla o per sorvegliarla?

    Una domanda gigantesca e profonda come un abisso, che per un attimo eclissò il mistero di cosa fosse successo a John.

    «Perché?», gracchiò. Un po’ vago, ma se lo sarebbe fatto bastare.

    La poliziotta alzò le sopracciglia. Aveva la pelle scura e piena di lentiggini, e Jess ripensò alla sua faccia nello specchio, il suo pallore innaturale, come di un qualche animale che viveva sotto una roccia.

    «Lei è in stato di arresto. Non lo sapeva?».

    No, ma adesso sì. Un progresso, in fin dei conti. Riuscì a tirare fuori un altro «Perché?».

    L’espressione sul volto dell’altra donna cambiò, ma solo per un istante. Un velo di dubbio o preoccupazione che sparì veloce come era arrivato. «Omicidio, signora Moulson», disse. «Lei è accusata di omicidio».

    Si avvicinò a Jess, come se volesse forzarla a entrare nella stanza. Lei rimase immobile, più perplessa che decisa a resistere. Omicidio? Omicidio di chi? Chi avrei mai…?

    «Deve rientrare», disse la poliziotta. «In teoria, mi sarebbe proibito parlarle. Il mio compito è proprio vigilare affinché lei non parli con nessuno».

    «Chi…?», ansimò Jess. Il corridoio si stava inclinando come una nave in mare. Non riusciva a muoversi, anche se avrebbe potuto fare un’eccezione, sì, certo, per cadere a terra.

    La mano della donna si strinse di nuovo sul suo braccio. Fece un passo e aprì la porta, senza sforzi, con una mano sola. Jess avrebbe potuto anche buttarsi in avanti con tutto il peso del corpo e quella fragile, debole molla sarebbe stata comunque un avversario troppo duro per lei. «Per favore, signora Moulson», disse la poliziotta. «Rientri subito dentro. Dirò al suo avvocato che si è svegliata, la prossima volta che chiama».

    Ma Jess era arrivata fino a lì e non aveva intenzione di demordere. «Chi?», sussurrò di nuovo. «Chi… morto? John? John… morto?»

    «Il suo avvocato le dirà tutto», promise la poliziotta. Ma quando vide che Jess non si decideva a spostarsi, fece un profondo sospiro e alzò le spalle: «Un ragazzino», disse. «Un bambino di dieci anni. Potrebbe essere stato un incidente, ma io non ci credo, se le interessa la mia opinione. Lei ha dato inizio all’incendio, e l’accusa è, a quanto ho capito, di omicidio».

    Aveva entrambe le mani sul braccio di Jess, una sopra e una sotto il gomito, e stava cercando di farla girare. Ma il corpo di Jess in quel momento era composto di parti che non comunicavano tra loro. Il busto si mosse, le anche si agitarono, le gambe rimasero immobili.

    Lei conosceva solo un bambino di dieci anni, e nemmeno bene. Le apparve dal nulla il suo nome, le sue labbra lo pronunciarono senza emettere alcun suono.

    Alex.

    Alex Beech.

    Si rese conto che stava cadendo. Ma il pavimento si ritrasse sotto di lei, come se non volesse neppure sfiorarla.

    2

    Alex Beech era il ragazzino che viveva di sopra.

    Sopra dove, esattamente? Una risposta iniziò a formarsi nella mente di Jess, in pezzi disconnessi e coagulati.

    Il primo pezzo era questo: una sera sul tardi, tornava dalla libreria in cui lavorava al suo appartamento di Muswell Hill, si era trovata davanti questo ragazzino magro seduto sulle scale. Per la precisione, sulla rampa che portava dal pianerottolo dell’appartamento di Jess a quello del bambino. Era in canottiera e mutande. I piedi nudi nel freddo di novembre, su scale di pietra che erano fresche anche in estate. I suoi capelli biondi erano più scuri sotto, come se se li fosse ossigenati. E la faccia sembrava troppo piccola per tenere su quella matassa indomabile.

    «Tutto bene?», chiese Jess.

    Il ragazzo annuì senza parlare.

    Da sopra venivano urla di due voci differenti, un basso e una soprano. La porta dell’appartamento di sopra era chiusa, ma la frase «è sempre stato questo il tuo cazzo di problema», arrivò in un urlo in falsetto fino a lì. Quella era la madre. E poi: «Non cominciare! Non cominciare, cazzo!», del padre.

    Jess esitò. Non puoi mica invitare il figlio di qualcun altro a casa tua, no? Certamente non senza prima avvertire i genitori.

    Per quanto le sue motivazioni fossero innocenti, non era giusto. E quasi si autoconvinse, ma poi non ne ebbe il coraggio. Fece invece della cioccolata calda e gliela portò. Con scaglie di cioccolato e marshmallow. Roba buona.

    Quando si riaffacciò di nuovo, il piccoletto era sparito. Era rimasta solo la tazza, sul settimo scalino. Vuota.

    Quel primo incontro segnò la strada per tutti quelli dopo. Erano alleati, in un certo senso, ma si incontravano solo nella terra di nessuno. Sulle scale. E parlavano solo di cose banali.

    «Come è andata oggi?»

    «Bene».

    «Vuoi delle cioccolata calda?»

    «Sì, grazie».

    A parte questo, seguiva le avventure di Alex a distanza. Sentiva la madre e il padre che gli urlavano contro, ogni volta che smettevano per un istante di urlare l’uno contro l’altra. Sapeva che si chiamava Beech perché ogni tanto sbirciava la posta sul tavolo comune nell’atrio. E aveva capito che il nome era Alex grazie alle urla e ai rimproveri.

    «Ti sei fatta un animaletto domestico», fu il commento di John la prima volta che vide il ragazzino. «Ti ha seguito fino a casa?»

    «John, non è divertente».

    «Non sto ridendo. Davvero, Jess! Penso sia una cosa carina. Cosa mangia?».

    Doveva ammettere che non conosceva la risposta a questa domanda. Ma la volta successiva, gli portò un panino oltre alla solita cioccolata calda. «È con il formaggio», disse. «Non so se ti piace, ma è qui se vuoi».

    A quanto pareva il formaggio andava bene. Mangiò il panino, lasciando la crosta. E il loro rapporto entrò in una nuova fase. La fase del conforto e delle provviste.

    Però continuavano a non parlare. Solo «Come stai», «Bene». Pensò che poteva anche sedersi accanto a lui, iniziare una conversazione vera. Come va la scuola? Ti piace qualche sport in particolare? Hai un migliore amico? I tuoi genitori urlano e basta o ti picchiano anche?

    «È meglio se mantieni le distanze», l’avvertì John. «Davvero, Jess. Meglio non immischiarsi in certi guai. Se ti dice che lo picchiano, cosa fai? Chiami la polizia? Inizieranno a farci domande, investigare, e scopriranno che ci facciamo. Andremo in prigione».

    John continuava a chiamarlo animaletto domestico, ma non rideva più ormai, e c’era un che di maligno nei suoi commenti. Pensava che la cosa fosse andata un po’ troppo oltre.

    Jess però continuò ed ebbe comunque quella conversazione con Alex. John Street non era la sua coscienza. Anzi, era proprio il contrario del Grillo Parlante, e la trascinava sempre verso le cose più oscure e pazze. Quella volta decise di far finta di avere un angelo custode un po’ migliore.

    «Solo una volta», rispose Alex quando Jess gli chiese se suo padre lo avesse mai punito fisicamente. Jess non sapeva proprio cosa fare. Per come la vedeva lei, gli schiaffi e i pugni portavano sempre ad altri schiaffi e pugni, fino ad arrivare a una quantità N, dove N è un numero non definito ma comunque grande. Ma non aveva nessuna prova. Niente che giustificasse una telefonata anonima ai servizi sociali, oppure un confronto diretto al piano di sopra. E le sue energie erano fiacche, da ogni punto di vista. Se ci fosse stato uno scontro, avrebbe sicuramente perso.

    Diede ad Alex il suo numero e glielo fece salvare nel cellulare. «Se ne hai bisogno», gli disse, «mi puoi chiamare. Oppure puoi venire da me, bussare alla mia porta. Di solito sono a casa».

    Non successe mai. E dopo un po’ si dimenticò di quella promessa. Come se non l’avesse mai fatta. La tossicodipendenza in quel periodo era il chiodo fisso del suo cervello, e peggiorava ogni giorno. Alex fu una delle ultime cose a sparire, ma poi si annebbiò insieme al resto del mondo. Se ne andò, partendo per un’isola lontana, piena di sole e di burrasche. Un’isola che aveva solo tre abitanti: lei, John Street e l’eroina.

    All’inizio i ricordi di Jess non si spingevano più in là. Ma continuò a scavare in quel profondo pozzo nero alla ricerca di altri dettagli. Quando gli psichiatri del tribunale le chiesero cosa rammentasse, cercò di dire la verità, ma la verità cambiava da una seduta all’altra. E loro pensavano che stesse facendo finta, che simulasse un’amnesia, glielo leggeva negli occhi.

    Poi il suo avvocato (anche lui nominato dal tribunale, un altro coniglio dal cilindro della difesa d’ufficio) arrivò come una volpe in un pollaio e allontanò gli psichiatri. Si chiamava Brian Pritchard. Era alto esattamente come Jess, quindi piuttosto basso per un uomo. Aveva i capelli grigi, anche se di sicuro non aveva più di quarantacinque anni. La sua capigliatura era come una dichiarazione di serietà e rettitudine morale. «La mia cliente non è pronta a parlare di questi accadimenti traumatici», disse agli strizzacervelli con un contegno grave e distaccato. «E per Dio, spero proprio che non abbiate intenzione di usare queste perizie mediche in tribunale se non avete un permesso scritto!».

    Ma ce l’avevano, il permesso. Perché Jess firmava ogni cosa che le veniva messa davanti. Voleva aiutare la macchina della legge, collaborava in ogni modo possibile. Le persone innocenti facevano così, e lei sapeva nel profondo del suo cuore di essere innocente.

    Pritchard non era d’accordo. «L’hanno arrestata e accusata di omicidio», le disse con astio. «In un mondo ideale la polizia sarebbe ancora impegnata a condurre attente indagini, ma non viviamo in un mondo ideale, signorina Moulson. Se lei si offre così su un vassoio d’argento, la prenderanno e la faranno a pezzi, apparecchieranno ben bene le prove per metterla dentro. E nel frattempo non prenderanno in esame nessun’altra possibilità, perché è faticoso. Quindi mi faccia un favore, tratti tutti a parte me come mortali nemici fino alla fine del processo».

    Jess lanciò un’occhiata all’uomo che aveva accompagnato Pritchard. Un tipo ombroso, un avvocato o un assistente. Il suo ruolo era passare dei fogli di carta al suo capo al momento opportuno, non parlava quasi mai. Quando Jess lo guardò negli occhi lui arrossì e si voltò.

    «Ah, non mi riferisco certo al signor Levine», disse Pritchard. «Lo consideri pure come una parte del mobilio».

    In quella prima visita Pritchard raccolse la dichiarazione di Jess sulla notte dell’incendio senza fare commenti o domande. Alla seconda visita, il giorno dopo, le portò degli articoli di giornale e dei post di blog per – così disse – farle avere un’idea più chiara di quello che avrebbe dovuto affrontare.

    La Killer dell’Inferno: «Non so niente!».

    La donna al centro della tragica morte di Alex Beech, un ragazzo di dieci anni, è in cura all’ospedale Whittington di Londra, per lesioni fisiche e perdita di memoria. Eppure i dottori non hanno ancora prove che dimostrino la presenza di danni a livello neurologico o di traumi psicologici.

    Sembrava che Pritchard volesse provocarla, tirarle fuori una qualche reazione, ma Jess non poteva dargli nulla a parte stanchezza e disperazione, e a volte piccoli momenti di assenza e vuoto.

    «Perché mai fanno tanti giri di parole? Potrebbero darmi dell’assassina e via!».

    «Sarebbero molto contenti di farlo», disse Pritchard. «Ma conoscono le regole. Molti di loro usano il termine presunto con grande generosità. Presunto assassino. Presunto colpevole. La parolina magica delle accuse senza prove. E qualcuno ha iniziato a chiamarla la Killer dell’Inferno. Hanno un testimone chiave. Si faccia forza, perché non sarà piacevole».

    «Chi? Che testimone?». Ma in realtà lo sapeva già.

    John. John Street. Ovviamente.

    «Non si faccia prendere dal panico», le suggerì Pritchard. «A essere sincero penso che quello sia il loro punto debole. Sono molto contento che comincino con lui. Sono certo che arriveremo alla verità. Ora rivediamo le sue dichiarazioni, signorina, e individueremo le parti che ci possono essere utili».

    A quanto pare non erano troppe. L’avvocato la rimproverò varie volte per aver accettato come verità quelle che erano delle semplici supposizioni. «Signorina, per gran parte della serata non è stata affatto presente a se stessa, o sbaglio? Quindi la prego di non lanciarsi in ipotesi su ciò che non ha visto o non ha sentito. Il suo ruolo è quello di dichiarare ciò che le è successo. Si attenga ai fatti. Lasci che mi preoccupi io della verità».

    «La verità e i fatti sono la stessa cosa!», protestò Jess, ma Pritchard scosse la testa.

    «I fatti sono nel mondo esterno. Si possono accertare con i sensi o con delle prove oggettive. La verità è una cosa che la gente si costruisce nella propria testa, usando i fatti come materiali grezzi. E a volte i materiali si piegano o si rompono».

    «Non ho intenzione di mentire», disse Jess.

    «Lei mi fraintende. Non glielo sto chiedendo. Quello che le chiedo è elencare i fatti, senza lanciarsi in pericolose ricostruzioni. La smetta di tuffarsi alla cieca verso scenari confusi e lontani che secondo lei rappresentano la verità. È un viaggio pericoloso, non sarebbe saggio farlo da sola».

    Jess non protestò, ma solo perché non ne aveva la forza. In quel momento non era in grado di far molto. Lì nel reparto di ricostruzione facciale dell’ospedale Whittington a Highgate, circondata da persone che mantenevano un atteggiamento professionale e imperturbabile, si sentiva come rinchiusa in una torre costruita dalle parole degli altri. Alex era morto. Quel ragazzino che non aveva mai avuto un briciolo di fortuna in vita sua era morto. E tutti dicevano che era stata lei.

    Non poteva nemmeno sbandierare la sua innocenza. Non aver fatto una cosa è un conto; non ricordarsi di averlo fatto è molto diverso. Nella sua mente era sicura che doveva essere successo qualcos’altro. Le possibilità erano milioni. Alex era caduto per le scale. I suoi genitori lo avevano ucciso e poi avevano cercato un capro espiatorio. Si era ammazzato. Jess vagò nella sua mente, perdendosi in un labirinto di possibilità senza trovarne nessuna in cui credere. Perché nella sua testa Alex Beech era ancora vivo. Ancora lì sulle scale, nella sua eterna veglia. Tutto il resto era assurdo.

    Jess era umorale, imprevedibile (non lo sono forse tutti i tossicodipendenti?) ma quasi sempre, quando si arrabbiava, si arrabbiava con se stessa. Perché era codarda, passiva, non aveva spina dorsale. Perché purtroppo non aveva quella che sua zia Brenda (oh, Brenda, avrei proprio bisogno di te adesso!) chiamava perseveranza. Vero, aveva odiato John negli ultimi tempi, e le era capitato di desiderare la sua morte. Però lei era proprio il tipo di persona che vuole una cosa ma non fa nulla per ottenerla. E non è che si diventa dei killer così, senza nemmeno rendersene conto, no? Forse si può cancellare il momento fatale per via del trauma o della pazzia, ma non si può cancellare l’intenzione omicida. Se c’è stata una volta, rimane dentro di te, nella tua testa o nel tuo cuore. Cercando, cercando bene, prima o poi la trovi.

    E Jess stava cercando, ma non trovò niente e andò al processo ancora piena di fiducia in se stessa.

    In due settimane quella fiducia fu inesorabilmente distrutta.

    3

    Questi erano i fatti, e l’accusa li aveva elencati in modo sbrigativo e pragmatico. C’era stato un incendio. Nell’appartamento di Jess, al civico 16 di Orchard Court, in Colney Hatch Lane, a Muswell Hill. Era successo una sera in cui nell’appartamento c’erano solo due persone: Jess e il suo ragazzo, John Street.

    Jess si era trovata proprio nel cuore dell’incendio (bastava guardarle la faccia). Era rimasta lì sdraiata finché non erano arrivati i pompieri. Probabilmente sarebbe morta per il fumo, ma la droga l’aveva messa al tappeto, tanto che respirava a malapena.

    Anche Street aveva riportato delle ferite, e gli avevano trapiantato brani di pelle nelle mani bruciate. Aveva cercato di spegnere le fiamme, di placare l’incendio sul nascere.

    Il fuoco non aveva avuto un’origine naturale o fortuita. Era stato appiccato di proposito. Gli agenti erano arrivati sulla scena del crimine quando le ceneri erano ancora calde e avevano concluso che le fiamme si erano propagate da un cestino della spazzatura di metallo. Un esperto aveva preso la parola in tribunale. Era giovane, di bell’aspetto, sembrava uscito da una serie TV poliziesca. «Qualcuno ha riempito il cestino con della carta, ha versato dell’alcol e ha lasciato cadere un fiammifero», disse. Descriveva ogni azione gesticolando sapientemente. «E poi il cestino è stato rovesciato».

    «In modo che l’incendio si scatenasse più violentemente e più velocemente?.

    «Obiezione», intervenne Brian Pritchard. «Queste non sono che interpretazioni».

    «Accolta», rispose il giudice.

    Il pubblico ministero non sembrava preoccupato. «Il mio stimato collega», disse, «non vuole che si escluda la possibilità che l’incendio abbia avuto un’origine accidentale. Secondo lei, è un’ipotesi credibile?».

    L’esperto della scientifica scosse la testa. «Assolutamente no».

    «E perché?»

    «Siamo riusciti a rintracciare i residui chimici, e abbiamo individuato gli schizzi dell’alcol. È stato versato con ampi movimenti ad arco sopra il cestino, raggiungendo anche una distanza di un metro e mezzo in ogni direzione. Quindi chiunque abbia appiccato l’incendio non voleva che si limitasse al cestino. L’obiettivo era dare fuoco a tutto l’appartamento».

    Jess visse il primo vertiginoso momento di dubbio. Ricordò se stessa, seduta sul pavimento con il cestino della carta stretto tra le ginocchia. Un cerchio indistinto e vacillante ai suoi occhi, e lei ci stava buttando dentro… cosa? Qualcosa di scivoloso e freddo che aveva cercato di strappare ma non c’era riuscita, quindi si era limitata ad accartocciarlo e a piegarlo.

    «Fotografie», disse John Street quando arrivò il suo turno di salire al banco dei testimoni. «Jess stava strappando delle fotografie di noi due».

    «E per quale motivo?», gli chiese il pubblico ministero, fingendosi sorpreso.

    «Stavamo litigando per… be’, in realtà niente. Niente di particolare. C’eravamo fatti presto quella sera».

    «Avevate preso dell’eroina?»

    «Sì».

    «Siete entrambi tossicodipendenti?»

    «Sì. E la roba non era… be’, non era molta, e Jess è impazzita. Voleva che andassi a cercarne altra, ma non avevamo soldi…».

    Alcune di quelle parole facevano squillare un campanello nella mente di Jess. Non la litigata – ce n’erano state così tante che era difficile concentrarsi su una sola. E nemmeno il desiderio di un’altra dose. Anche quella era una cosa che succedeva di continuo, man mano che il bisogno cresceva e la capacità di soddisfarlo diminuiva. Ma la dose di quella sera le era sembrata grande come l’oceano.

    Si ricordava delle fotografie. Il suo sogno (non un sogno, lei non sognava, solo un’immagine, un pensiero) si cristallizzò in un vero ricordo. Si teneva la testa tra le mani. E la puzza dell’alcol, la sensazione di appiccicaticcio sulle dita. Il dubbio che prima aveva percepito si trasformò in qualcosa molto simile al terrore. Voleva negare ciò che stavano dicendo su di lei, ma i ricordi la intrappolarono, la confinarono in uno spazio ancora più ristretto del banco degli imputati in cui era seduta. Era come se parallelamente al vero processo se ne celebrasse un altro, in cui lei era la testimone e l’imputato e il giudice. Si stava accusando da sola, e la sua difesa non reggeva, proprio per niente.

    «Il signor Street ha testimoniato che lei ha acceso un fuoco nel suo appartamento nella notte in questione. Nel cestino della carta. Lo nega?»

    «No, io… no… no».

    «E il signor Street ha ragione circa gli oggetti che ha dato alle fiamme?»

    «Sì».

    «Fotografie di voi due insieme».

    «Sì».

    La verità. Senza equivoci. L’unico modo per capire cosa fosse davvero successo era seguire il processo fino alla fine. Mentendo, confondendo le acque, forse l’avrebbero dichiarata innocente. Ma essere innocente è un’altra cosa. L’unica cosa che le importasse.

    «Quindi il suo rapporto con il suo ragazzo, con il signor Street, non stava andando bene?»

    «No, non molto. Litigavamo di continuo. E ci… picchiavamo. Sì. Voglio dire, lui… John… mi picchiava».

    «La picchiava? Fisicamente? Ha mai raccontato di queste violenze a qualcuno? A degli amici, alla famiglia?»

    «No». Non avevamo amici. E non avrei potuto rendere Brenda ancora più infelice.

    «Ma è andata da un dottore, o all’ospedale? Al pronto soccorso? Le sue ferite sono state documentate in qualche modo?»

    «No». Non mi ci faceva andare. Non voleva che nessuno vedesse cosa succedeva. E sapeva dove colpirmi per non lasciare tracce.

    «Bene, allora limitiamoci alle litigate verbali. Tutti sono concordi nel dire che avvenivano realmente. Litigavate per la droga?»

    «E per altre cose». Per tutto, in realtà. Bastava poco per scatenare il risentimento reciproco. Ogni parola poteva essere una dichiarazione di guerra. La gran parte delle volte non era colpa della droga. E non era amore. Non era nemmeno: Mi picchi, John. Dovresti amarmi e invece mi picchi! Più che altro era: Non hai tirato l’acqua, l’ultima barretta Mars era mia, che cos’è questo tono sarcastico, è il tuo turno di andare a far la spesa, questo posto è una discarica, puoi almeno aprire la finestra? Perché è così che funziona quando stai correndo contro un muro ma continui a pestare forte sull’acceleratore. Ti attacchi a tutto. Le cose veramente importanti non si possono dire, e del resto non ce n’è bisogno. Se ne stanno lì, appena sotto il pelo dell’acqua, come scogli coperti dagli spruzzi e dalla schiuma di tutte le parole che invece pronunci. Anzi, che urli e gridi e sbraiti.

    «E cosa provava la sera dell’incendio?»

    «Cosa provavo…?»

    «Nei confronti del signor Smith. Sul vostro rapporto. Che cosa provava?»

    «Difficile dirlo».

    «Cerchi di riassumerlo in poche parole. Anche solo una».

    «Mi sentivo… intrappolata». Non era una novità. Ma era stato faticoso quella sera. Più del solito. Il desiderio di tirarsi fuori da un rapporto che era diventato violento, pericoloso e disperato. Buttare John fuori dalla sua vita, essere di nuovo se stessa. Quando si era messa a strappare le foto aveva agito d’impulso. Foto di lei e John insieme. Stava cercando di strapparlo via da lei, come se potesse trasformare il simbolo in realtà tramite chissà quale rito voodoo.

    Vide Pritchard seduto al tavolo della difesa, fissava i suoi fogli e scuoteva lentamente la testa. Ma ormai l’aveva detto e non si pentiva. Era la verità. La verità era il suo rifugio. Se avesse detto la verità, tutto sarebbe finito bene.

    Ma non andò così. Le cose peggiorarono.

    Il nono giorno del processo fu il più duro. I genitori di Alex vennero a testimoniare. Lavoravano entrambi, il padre era autista di autobus, la madre lavorava al bar del cinema Muswell Hill Odeon. Due o tre sere alla settimana, in base ai turni, Alex tornava a casa, in un appartamento vuoto, si scaldava la cena nel microonde e si metteva a dormire. La notte dell’incendio era stata una di quelle.

    «Quindi Alex era da solo quella notte?»

    «Sì». Il volto contratto della signora Breech era coperto di lacrime. «Non me lo perdonerò mai. Mai».

    Da solo. E probabilmente dormiva quando il fumo aveva iniziato a filtrare tra le assi del pavimento. Quando si era svegliato stava già soffocando. Forse ce l’avrebbe fatta a lasciare l’appartamento, ma non era riuscito a trovare la strada in quella nuvola soffocante, oppure era troppo indebolito dal fumo per muoversi. Si era infilato nella sua casetta di plastica, che teneva nella sua stanza anche se era troppo grande per giocarci. Era morto raggomitolato a terra, la plastica incandescente era colata sulla carne viva.

    L’accusa si fermò lì, più o meno. La difesa fece del suo meglio, ma Jess ormai giocava contro se stessa. I suoi ricordi dell’incendio combaciavano perfettamente con lo scenario ricostruito dal pubblico ministero in modo tanto dettagliato e convincente. Jess disse la verità e si condannò.

    L’avevano spostata dal Whittington ormai, ed era in custodia preventiva alla prigione di Stato Winstanley. La sua cella era grande la metà della stanza all’ospedale, ma Jess la preferiva. Nessuno le si avvicinava. Nessuno la vedeva. Stava sprofondando in se stessa, come in uno di quei vecchi film con le sabbie mobili che risucchiano le persone. E non voleva essere interrotta. Be’, forse avrebbe fatto eccezione per un’interruzione. Ma Brenda era malata. Era stata portata all’ospedale una settimana prima di Jess, per ernie multiple del disco. Ed era ancora lì. Ancora più o meno incapace di muoversi. Non poteva partecipare al processo, e non poteva andare a trovarla, ma le aveva scritto una decina di lettere per dirle di farsi coraggio, di avere fiducia in se stessa. Quella era la ricetta universale di zia Brenda, e Jess l’amava per quello. Almeno le diceva che c’era pur sempre qualcosa dentro di lei in cui avere fiducia.

    Jess era sotto sorveglianza anti-suicidio. Guardie impassibili la controllavano sempre, come preti, pronti a scattare al primo segnale di disperazione.

    E in effetti ci aveva pensato, al suicidio. Ci aveva pensato moltissime volte, con il distacco di chi prende in esame tutte le opzioni a sua

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