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La complicanza
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E-book366 pagine5 ore

La complicanza

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Info su questo ebook

Il dottor Drioli è un uomo rassegnato e sfiduciato, paga per un grave errore commesso anni prima. Eppure, in questo romanzo, in cui si intrecciano affetti, dedizione al proprio lavoro e miserie umane, non tutto è come appare. Compito del lettore sarà accompagnare il protagonista in un graduale percorso di presa di coscienza del mondo intorno a sé e di ritrovata fiducia in sé stesso e nelle proprie capacità. La storia, ambientata in una cornice ospedaliera, tra celati giochi di potere e taciti segreti da svelare, si snoda con perizia fino a trasformarsi sotto gli occhi del lettore in un’indagine investigativa, capace di muoversi con ritmo tra la ricerca della verità e il privato del protagonista. Michael Sozzi, con una scrittura attenta, non priva di ironia e freschezza, ci restituisce un protagonista vero, sfaccettato, dotato di spessore psicologico e umano, che si dibatte tra timori, ossessioni e desiderio di riscatto. La complicanza è la storia di una rinascita, umana e professionale, ed è una lettura brillante.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2022
ISBN9791222005614
La complicanza

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    Anteprima del libro

    La complicanza - Michael Sozzi

    I

    Si allontanò dalla palazzina dei poliambulatori a passi piccoli e lenti che sembravano controllati più dallo sguardo che dai muscoli. La sua sagoma lunga, incartocciata nel camice, leggermente china in avanti, con le braccia penzoloni che reggevano da una parte un fascio di carte e dall’altra un mazzo di chiavi, sembrava quella di un matto, di uno di quei poveretti che passeggiano nel cortile delle cliniche psichiatriche con lunghi camicioni che potrebbero quasi essere camici e con ciabatte che potrebbero quasi essere zoccoli sanitari. Attraversò il piazzale interno dell’ospedale e poi, con un lieve sbilanciamento, venne inghiottito dalla porta girevole della Torre medica come un frammento di cibo nello scolo di un lavandino. La velocità era quella impressa dalle persone che uscivano e lui, nella sua inerzia, non era riuscito a contrastarla.

    Poco prima di entrare, si era soffermato un attimo a guardare oltre la grande vetrata del bar che era lì vicino e aveva intravisto il giovane seduto a un tavolino con Valeria, un’infermiera del suo reparto. Sapeva che sarebbe arrivato nelle due settimane precedenti, mentre lui era in ferie, ma trovarselo davanti agli occhi in quel momento gli aveva fatto un certo effetto. Non lo vedeva da molti anni. Otto, dieci, quindici? Era difficile ricordarlo. Si trattava di un’epoca così lontana, confusa e felice, che dubitava perfino che fosse mai esistita. Quello che ricordava bene era che quel giovane era stato uno dei suoi migliori allievi e che aveva fatto una gran bella tesi con lui che era stato il suo correlatore.

    Quando fu nell’atrio esitò un attimo. D’impulso sarebbe uscito di nuovo sul piazzale per entrare nel bar a salutare il ragazzo, ma qualcosa lo trattenne. L’emozione? La paura di non essere riconosciuto? La vergogna per essere ridotto a quel modo? Non lo sapeva. Eppure, prima o poi si sarebbero incontrati, probabilmente proprio quel giorno, anche se lui solitamente andava via presto, subito dopo aver fatto il giro in reparto. Stette lì fermo, a pochi metri dalla porta girevole, davanti alla segnaletica che indicava le torri di degenza, la Radiologia, il polo cardiologico e la Gastroenterologia, il suo reparto. La gente andava e veniva accanto a lui.

    «Buongiorno, dottor Drioli» disse un infermiere che passava di là con andatura dinoccolata. «Si è perso?» Era Matteo, che lavorava pure lui in Gastroenterologia. Era il buffone del reparto e coglieva ogni occasione per fare una battuta, spesso infelice. Drioli non ci faceva più caso perché non c’era malizia in quelle battute, ma solo istrionismo.

    «Eh, sì» rispose, strizzando l’occhio, «non ricordo mai dov’è il circo. Fammi strada. Ti seguo.»

    Matteo rise. Era abituato al sarcasmo del medico. «Non adesso. Sono in pausa tra uno spettacolo e l’altro…» Mise l’indice e il medio davanti alla bocca come se tenesse una sigaretta. Drioli fece un sorrisetto. Poi si mise in movimento e prese, senza pensarci più di tanto, la direzione del bar.

    A quell’ora – era l’una e mezza – il bar era affollato. Tra la gente (parenti di ricoverati, pazienti ambulatoriali, persone di ritorno dal CUP) spiccavano le divise verdi e i camici bianchi degli infermieri e dei medici che, isolati o in piccoli gruppi, rosicchiavano un panino o un toast sugli alti sgabelli dei tavolini al centro della sala. Altri mangiavano più tranquillamente un primo o un’insalata sulle sedie di metallo dei tavolini disposti lungo la vetrata. Davanti al bancone erano accalcate tre file di persone che sventolavano lo scontrino del caffè; davanti alla vetrina delle vivande si era formata una corta serpentina, composta quasi esclusivamente da dipendenti ospedalieri e da studenti che attendevano pazientemente il loro panino riscaldato sulla piastra o il loro primo scongelato al microonde. Fuori, oltre la vetrata, il sole d’aprile ritagliava figure geometriche sul lastricato del piazzale.

    Drioli era passato dall’ingresso interno, quello che collegava il bar al cosiddetto giardino d’inverno, un grande atrio con al centro alcune piante in idrocoltura e una fontana su cui si affacciavano, oltre alla pizzeria, gli sportelli del CUP, il centro prelievi, l’edicola, il parrucchiere e l’URP (ufficio relazioni con il pubblico). Non voleva trovarsi subito di faccia al suo ex allievo. Preferiva attendere e si mise in fila per prendere il caffè. Spettava al ragazzo venirgli incontro, ma chissà se lo avrebbe riconosciuto?

    Dieci anni prima, al tempo in cui Marco – così si chiamava il ragazzo – era impegnato con la tesi, lui era un altro uomo. Camminava con passo sicuro, a testa alta e aveva sempre un bel sorriso aperto e bonario quando salutava le persone che incontrava. Gli studenti lo adoravano per le sue lezioni chiare e appassionate e per la sua grande disponibilità in qualsiasi momento, non solo in aula, ma anche nei corridoi o al bar. Erano proverbiali le sue trovate per semplificare e rendere comprensibili argomenti complessi. Una volta, per spiegare la differenza tra una molecola sintetizzata con le biotecnologie e una fatta in modo tradizionale, aveva proiettato prima alcune fotografie di semi, piante e alberi e poi il foglietto di istruzioni per il montaggio di un mobile Ikea. Gli studenti si erano divertiti e avevano capito subito. Era considerato un grande.

    Ora invece… ora se ne stava sempre per conto suo. Sorrideva raramente ed erano sorrisetti appena abbozzati, ironici, amari, che sembravano di scherno e che lo rendevano poco simpatico. Quando non guardava in basso – cosa che succedeva spesso – lanciava occhiate furtive e sospettose, che facevano pensare che tramasse qualcosa o che diffidasse di tutti come un paranoico. Altre volte il suo sguardo era disincantato, vuoto, come se vivesse in un altro mondo, come se in questo nulla potesse più riguardarlo.

    Dalla posizione in cui si trovava, in terza fila davanti al bancone, vedeva i due in modo intermittente per via della gente che entrava e usciva dall’ingresso sul piazzale. Il ragazzo era di spalle e gesticolava animatamente mentre parlava. Rispetto ai tempi della tesi aveva i capelli un po’ più corti, portava la barba e si era leggermente irrobustito. Non aveva, però, perso i suoi atteggiamenti istrioneschi. Si capiva che voleva fare colpo su Valeria: si avvicinava a lei, le sfiorava il braccio, si adagiava sullo schienale della sedia allargando le mani come per sottolineare certe verità che aveva appena detto, poi inclinava di nuovo il busto verso il tavolino ed evidentemente diceva qualche spiritosaggine perché lei scoppiava a ridere. Drioli la poteva vedere bene perché era di lato, accanto alla vetrata, con lo sguardo quasi costantemente rivolto verso Marco o verso il piazzale. Era giovane (intorno ai trent’anni) e aveva un bel viso dolce e affilato. Quando sorrideva gli zigomi e il mento sporgevano, e sulle guance si formavano due fossette. Gli occhi, che erano scuri, vispi e attenti, si stringevano e luccicavano, moltiplicando il sorriso. Sembravano gli occhi di uno scoiattolo. Se Drioli fosse stato più giovane ci avrebbe fatto più che un pensierino, ma alla sua età e nelle sue condizioni… Fece un sospiro e abbassò lo sguardo.

    Quand’ebbe bevuto il caffè si voltò e vide Marco e Valeria che si alzavano dal tavolino per dirigersi verso l’uscita che dava sul piazzale. Marco diede la precedenza a Valeria tenendole la mano sulla spalla. Poco prima di uscire si voltò e rivolse lo sguardo verso Drioli, ma non lo riconobbe. Poi proseguì. L’uomo fece un sorrisetto amaro, alzò le spalle e andò nella direzione opposta, quella della torre chirurgica.

    Dopo aver consegnato le impegnative al segretario in accettazione e aver appeso le chiavi dell’ambulatorio nella bacheca del cucinotto si chiuse nel proprio studio, sospirò e si lasciò andare sulla sedia della scrivania. Il più era fatto. Gli mancava solo il giro in reparto e poi a casa, la sua tana.

    Poco dopo però ricevette una telefonata. Era il primario che gli chiedeva se potesse andare da lui. Voleva farlo incontrare con Marco. Sapeva che si conoscevano e il ragazzo era ansioso di rivedere il suo vecchio professore. Drioli storse la bocca e alzò gli occhi. Non era per niente pronto per quell’incontro ma non poteva evitarlo. E poi lo desiderava.

    Andò in bagno e si guardò allo specchio. Fece una smorfia. Poi si sciacquò il viso e la bocca e si passò la mano sui capelli. Si guardò di nuovo allo specchio prima di uscire, ma non notò grandi cambiamenti. Ringhiò e diede una zampata all’aria. Poi fece spallucce e uscì.

    Lo studio del primario, al quale non si accedeva direttamente dal corridoio ma solo attraverso la segreteria, non era particolarmente grande ma era ben arredato. Subito dopo la sua nomina lui aveva sostituito i vecchi mobili di legno impiallacciato con altri di legno massello e vetro. Aveva fatto anche mettere un climatizzatore a pompa di calore perché il riscaldamento e l’aria condizionata aziendali non lo soddisfacevano. Entrando nel suo studio si notava subito la spia verde del climatizzatore in alto, alle sue spalle, e si aveva l’impressione di essere monitorati o di accedere a un ambiente speciale, come la sala di un museo nella quale è custodita un’opera preziosa che necessita di umidità e temperatura costanti. Ai lati della finestra, che stava alle sue spalle e che lo inquadrava in controluce, c’erano due belle piante, una chenzia e un ficus, di cui si prendeva cura Marisa, la segretaria del primario che era nota per avere il pollice verde. Al centro dello studio c’era una grande scrivania, che sembrava la plancia di comando di una nave, e dietro alla scrivania una poltrona ergonomica a inclinazione regolabile con braccioli di legno, poggiatesta e imbottitura di pelle nera opaca. Alle pareti erano disposti quadri e stampe antiche della città di Trieste con il suo porto e del litorale adriatico con l’Istria e la Dalmazia. Entrando, sulla parete sinistra, c’era un quadro raffigurante un paesaggio carsico, un bel quadro che trasmetteva la sensazione tattile della levigatezza della pietra calcarea, della ruvidità della corteccia di roverella, della consistenza cartacea delle foglie di sommacco. Era di un pittore locale che si era guadagnato una certa fama anche nel resto d’Italia, nonché in Slovenia dove era nato ai tempi in cui il confine era al di là del suo paese.

    Quando Drioli bussò il primario stava spiegando a Marco che quel quadro glielo aveva regalato l’autore stesso, un suo paziente. Con la penna che aveva in mano dava dei colpetti sul bracciolo di legno della poltrona, mentre Marco sedeva rispettosamente con il busto eretto sull’orlo di una delle due sedie di plastica nera e tessuto blu che stavano davanti alla scrivania, uguali a quelle di tutti gli altri medici senza funzioni direttive. Aveva le mani sulle ginocchia come una statua egizia e si sforzava di guardare in faccia il primario al di là delle alte pile di scartoffie che, assieme a un’elegante lampada led nera da tavolo, un portapenne di cuoio e un portafotografie d’argento, erano allineate come le mura di una fortezza sul legno massiccio della grande plancia primariale.

    «Avanti» disse il primario e Drioli entrò. Si rivolse subito a Marco.

    «Bentornato!» Abbozzò una specie di sorriso e gli occhi gli brillarono come non succedeva da tempo.

    Marco ebbe un attimo di esitazione. Lo osservò con imbarazzo, poi, spalancando la bocca e gli occhi, balzò in piedi. «Ben trovato, professore!» disse, sorridendo di gioia e tendendogli la mano. «Sono proprio felice di rivederla.»

    Lui gli strinse la mano e gli diede una pacca sulla spalla. Lo guardò bene e disse: «Sbaglio o hai preso qualche chilo?»

    Il ragazzo, che era sempre stato magrissimo, aveva messo su un po’ di pancia, una pancetta buffa, appuntita, ma una cosa minima, che si vedeva appena.

    «Eh, sì» rispose, stringendo le labbra e facendo oscillare la testa, «mangio un sacco di schifezze: panini, hamburger, patatine e salsine di tutti i tipi.»

    Drioli annuiva e lo guardava con un sorrisetto storto. «Sta’ attento a non diventare come Cergol!» Ridacchiò con voce roca.

    Anche Marco rise. Si ricordarono entrambi di quel ciccione del professor Cergol, noto per i suoi stravizi alimentari, oltre che per la sua pavidità. Il giorno della tesi era stato Drioli a difendere il ragazzo dagli attacchi del preside di facoltà dopo che questi si era messo a criticare il suo lavoro. Cergol invece, pur essendo relatore, non aveva aperto bocca. Si era limitato a sorridere imbarazzato.

    «Che personaggio!» esclamò Marco ridendo. «Spero proprio di non fare la sua fine!»

    «Difficile» disse Drioli, sedendosi. Anche Marco si sedette.

    «E lei, professore, come sta?»

    Non era solo una domanda di circostanza. Drioli aveva effettivamente un aspetto ben poco rassicurante. Si poteva dargli dai sessantacinque ai settant’anni ma ne aveva solo cinquantacinque. I capelli erano grigi, stopposi, arruffati e davano l’impressione di incontrare raramente un pettine o forse, se lo incontravano, lo dimenticavano presto al passaggio di quattro polpastrelli ingialliti dal fumo. La pelle del viso era un lenzuolo sgualcito che pendeva ai lati del naso, un bel naso leggermente ricurvo, signorile ed evocativo come lo stemma araldico di un antico palazzo. Gli occhi e le occhiaie erano rispettivamente i vetri opachi e i balconcini barocchi di quel palazzo che, pur essendo in rovina, conservava ancora tracce della nobiltà di un tempo.

    «Bene, grazie, ma smettila con ‘sto lei. Siamo colleghi, no? E poi non chiamarmi professore. Non lo sono più. Quella volta avevo un contratto con l’università. Ora non più. Ora ce l’ha il nostro primario il contratto. È lui il professore.» Si voltò verso di lui con un sorriso sottile e ossequioso. Lui rispose a sua volta con un sorriso.

    «Mah, mi ci hanno costretto. È un bell’impegno, per fortuna posso contare su alcuni di voi. Ogni anno distribuisco le lezioni in base alle competenze specifiche di ciascuno. È un’opportunità che cerco di darvi. Trovo giusto che siate coinvolti anche nella didattica. Qui si fa un lavoro di squadra.»

    Drioli inarcò le sopracciglia e lanciò un’occhiata significativa al primario, che in quel momento sorrideva affabilmente a Marco. Ma cosa stai dicendo! pensò.

    Marco lo guardò perplesso. Poi si girò di nuovo verso il primario e gli sorrise con entusiasmo. Drioli lo poteva capire. Anche lui alla sua età si sarebbe entusiasmato di fronte a una dichiarazione simile. Peccato che… mah, era meglio lasciar perdere. Guardò a terra, con espressione rassegnata e indifferente. In fondo, cosa gliene importava? Gli dispiaceva solo per Marco. Si sarebbe guastato. Ma cosa ci poteva fare? Non era neanche più professore lui… Chissà che effetto aveva fatto questa notizia al ragazzo.

    Il primario, professor Arturo Bortoli, aveva grosso modo la stessa età di Drioli, ma portava molto meglio i propri anni. Era magro, asciutto, abbronzato, con capelli tagliati molto corti e un pizzetto geometrico, ben curato, di colore grigio-azzurrognolo che spiccava sull’abbronzatura. Gli occhi erano di un azzurro glaciale. Quando sorrideva con le sue labbra sottili, il pizzetto sporgeva a punta e gli occhi diventavano due strette fessure. Ai lati degli occhi si formavano delle profonde rughe. L’espressione bonaria e suadente che indossava abitualmente come un abito da cerimonia contrastava con lo sguardo astuto e penetrante. Sembrava voler mettere costantemente a fuoco qualcosa che era dietro all’interlocutore, il quale perciò aveva la sensazione di doversi guardare sempre alle spalle.

    Drioli alzò gli occhi stanchi e cerchiati e, stringendoli un poco in uno sforzo di concentrazione, chiese a Marco: «E Alessia… mi pare che si chiamasse così… come sta?»

    «Che memoria, professore! Anzi no… dottore» esclamò Marco.

    «Franco. Mi chiamo Franco.»

    «Okay, Franco. Mi viene difficile darle… darti del tu.»

    «Vedrai che ti ci abituerai presto.»

    «Come fa… cioè… come fai a ricordarti di Alessia?»

    «Me l’hai presentata tu alla tua festa di laurea. Abbiamo fatto una bella chiacchierata in tedesco. Lo parlava benissimo.»

    Drioli emanava un forte odore di fumo, che lo circondava come una calotta e che faceva da barriera ai raggi cosmici, profumati al cumino e agli agrumi, che si irradiavano dalla faccia ben curata del primario. Aveva anche le dita e la pelle del viso un po’ ingiallite come succede ai forti fumatori. Lo sguardo era spento, la voce roca, la parlata lenta, sospirante, interrotta di tanto in tanto da un colpo di tosse o da una pausa di meditazione. A vederlo si poteva pensare tanto a un vecchio saggio quanto a un inveterato consumatore di sostanze psicoattive, o forse a tutte e due le cose assieme.

    «È vero. Ora mi ricordo. Anche lei… anche tu parli bene il tedesco.»

    «Già, la mia famiglia da parte di madre era austriaca.»

    «Comunque, Alessia e io non stiamo più assieme.»

    Drioli, che era un po’ chino in avanti con gli avambracci poggiati sulle cosce e gli occhi rivolti al pavimento, si girò con un piccolo scatto e guardò Marco inarcando le sopracciglia. Poi fece un sospiro e fissò di nuovo il pavimento passando le dita tra i capelli. Prese a massaggiarsi l’anulare della mano sinistra, un’abitudine che gli era rimasta da quando si era tolto la fede.

    Marco, che aveva appena pronunciato le parole «E sua…?», si interruppe.

    Ai tempi dell’università Drioli parlava spesso di sua moglie, una donna molto bella e di quindici anni più giovane di lui. Quando si facevano apprezzamenti su qualche bella infermiera o dottoressa incontrate in corsia lui sollevava la mano e, ostentando la fede, dichiarava scherzosamente di essere felicemente incastrato.

    Marco cambiò domanda: «E la bambina? Beh, ormai non sarà più una bambina. Non ricordo come si chiama.»

    «Sofia.»

    «Già, Sofia. Sarà grande ormai.»

    «Eh sì, ha sedici anni.» Sollevò un poco la testa e abbozzò un sorriso di soddisfazione guardando avanti e annuendo. «È molto

    brava sia a scuola sia nello sport.»

    «Che scuola fa?»

    «Il terzo anno del Galilei.» Il Galilei era un liceo scientifico.

    «E come sport?»

    «Nuoto sincronizzato.» Si girò verso Marco, alzando le sopracciglia quasi a volersi scusare del proprio orgoglio paterno, e disse: «È ben qualificata sia in regione sia a livello nazionale.»

    Il primario, che fino a quel momento si era limitato a ostentare un sorrisetto di circostanza giocherellando con la punta della penna contro il bracciolo del suo trono, si tirò su, poggiò i gomiti sulla scrivania e con le mani incrociate davanti al mento disse:

    «Bene, mi fa piacere che vi siate ritrovati.» Una nuvoletta di dopobarba al cumino e agli agrumi raggiunse Drioli. «Siamo tutti contenti che tu sia qui con noi e faremo in modo che tu abbia il tempo di ambientarti. Il fatto che tu conosca già il dottor Drioli faciliterà senz’altro la tua integrazione. Vero, Franco?»

    «Certo» rispose Drioli.

    «Molto bene» continuò Bortoli, «ci tengo che voi facciate gruppo. Quello che conta è il lavoro di squadra.» Gli piaceva quell’espressione e la usava spesso. «Ovviamente tu dovrai fare sempre riferimento a me. Da questo punto di vista sono a tua completa disposizione per qualsiasi dubbio, per qualsiasi necessità. Ma di questo abbiamo già parlato la scorsa settimana.» Si rivolse a Drioli:

    «E allora, Franco, dove sistemiamo questo ragazzo? Gli altri studi sono occupati e tu sei da solo. Saresti d’accordo se Marco venisse in studio con te?»

    «Ovviamente» rispose Drioli. Si girò verso Marco, che aveva gli occhi spalancati dalla gioia: «Domani ti libererò un po’ di spazio negli armadi. Ora vado in reparto a vedere i ricoverati.» Alzandosi ebbe un lieve sbandamento. Marco protese le braccia per sorreggerlo ma lui si appoggiò alla scrivania e con la mano libera fece segno di stare calmi, che era tutto a posto. «Solo un calo di pressione» mormorò con voce roca dopo aver deglutito. Il primario non si scompose. Evidentemente non era la prima volta che succedeva. Infatti, Drioli si riprese subito e, raggiungendo a piccoli passi la porta, disse con voce calma: «Vado.»

    Marco fece cenno di alzarsi per seguire Drioli, ma il primario lo fermò. «Non ti preoccupare, si è alzato troppo bruscamente. Gli capita qualche volta. È per via degli antipertensivi.»

    «Ah!» esclamò Marco, «è iperteso?» Poi aggiunse: «Forse la terapia è eccessiva.»

    «Può darsi» rispose Bortoli, allargando le braccia e annuendo con espressione di rammarico. «D’altra parte, se la deve vedere lui con i farmaci…» sospirò e cambiò discorso. Gli disse che già dal giorno successivo avrebbe potuto prendere posto nello studio di Drioli ma che, per il momento, avrebbe continuato ad essere affiancato, per quel che riguardava l’attività endoscopica, alla dottoressa Colautti, come era successo nelle settimane precedenti.

    Prima di andare a fare il giro in reparto Drioli uscì per fumarsi una sigaretta. Mentre passava davanti alla sala due incontrò di nuovo Matteo.

    «Lo spettacolo è ricominciato, dottore!» disse ridendo. «E sapesse che spettacolo…»

    Drioli lo guardò con aria interrogativa.

    L’infermiere allargò le braccia. «Eh, sì, c’è una brutta colon, Bearzi è in difficoltà. Ha bisogno di aiuto.» Paolo Bearzi era un giovane medico, il più giovane del reparto dopo Marco. Era lì da due anni e ogni tanto aveva bisogno di una mano. «Sa se c’è ancora il primario?»

    «Sì» rispose Drioli, «è nel suo studio.»

    «Bene! Corro a chiamarlo allora… prima che scappi via.» Fece un sorriso ammiccante. Era chiara l’allusione alle fughe quotidiane del dottor Bortoli nel proprio ambulatorio privato.

    Drioli non disse niente e proseguì verso il punto blu per i fumatori. Mentre si accendeva la sigaretta pensò che fosse proprio un peccato che il ragazzo non potesse avere un’adeguata formazione. Era già finito sotto le grinfie della Colautti. D’altra parte, lui l’endoscopia non gliela poteva più insegnare.

    Nel frattempo, in sala due, quella delle urgenze e dei turni pomeridiani, Bearzi si era alzato all’ingresso del primario, che era seguito da Marco, e con espressione desolata aveva detto che non riusciva ad andare avanti con la colonscopia. Ci aveva provato in tutti i modi ma il paziente aveva un colon troppo angolato e si lamentava per i dolori nonostante la sedazione. «Basta, basta» diceva, «non ne posso più.» Aveva la voce impastata dai sedativi.

    «Tranquillo» gli rispondeva l’infermiera che era seduta sullo sgabello accanto a lui e che aiutava Bearzi a fare l’esame. «Ora è arrivato il primario.»

    Bearzi, uno spilungone con una folta capigliatura riccia, due occhi spiritati e un grosso naso a patata, aveva l’aria esausta. Con le braccia che pendevano inerti lungo i fianchi e la divisa verde chiazzata di sudore al centro del petto e sotto le ascelle, disse:

    «Può continuare lei, professore?»

    Bortoli si infilò i guanti e afferrò l’endoscopio. «Vai avanti!» disse all’infermiera dopo aver preso in mano lo strumento.

    Lei spinse l’endoscopio ma poi si fermò perché il paziente si lamentava.

    «Vai, ti ho detto!»

    «Il paziente ha male» disse lei.

    «Non ti preoccupare. Vai!»

    Lei spinse di nuovo lo strumento e il paziente cominciò a urlare: «Basta, basta, vi prego, tirate fuori!»

    «Non urli così» disse il primario, «abbiamo subito finito. Un po’ di pazienza!» Poi, rivolto all’infermiera, che si chiamava Vesna: «Fai ancora un po’ di midazolam.» «Quanto, primario?» chiese Vesna.

    «Due milligrammi.»

    Nonostante la somministrazione del sedativo il paziente continuò a lamentarsi e Bortoli dovette rimproverarlo più volte.

    L’esame fu completato in dieci minuti e, mentre Vesna e l’altra infermiera che era in sala cercavano di tranquillizzare il paziente dicendogli che era tutto fatto e che non avrebbe avuto più male, il primario uscì portandosi dietro Marco e Bearzi. Quest’ultimo lo ringraziò e si scusò, confessando che da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Poi rientrò in sala per scrivere il referto. Marco seguì il primario che si stava affrettando per raggiungere lo studio. Doveva cambiarsi e correre via. «Ora devo andare» disse a metà strada. «Ci vediamo domani.»

    Al rientro dal giro in reparto Drioli si sentiva molto stanco e aveva bisogno di un attimo di relax prima di tornare a casa. La sigaretta del dopo-giro l’aveva già fumata.

    Dopo aver chiuso con cura la porta dello studio si lasciò cadere con un sospiro sulla sedia girevole di plastica nera e di stoffa blu che era davanti alla scrivania. Sotto il suo peso la sedia indietreggiò e andò a sbattere rumorosamente contro l’armadio che era dietro. «Ma vaffan...!» esclamò stizzito. Poi allungò le gambe e stette lì inerte, le mani incrociate sopra la pancia e i piedi accavallati. Venne assorbito dai suoi soliti pensieri. Guardava fuori dalla finestra e stringeva di tanto in tanto gli occhi come per una fitta di dolore o per un brutto pensiero che gli traversava la mente. Poi gli occhi si rilassavano e assumevano l’espressione rassegnata e indifferente di chi guarda il mondo da una lontananza siderale.

    Ritornò a una mattina d’agosto di sei anni prima. Faceva un gran caldo perfino in sala due dove non batteva mai il sole. Matteo era particolarmente allegro perché doveva partire per le ferie.

    «Siamo pronti, dottor Drioli, anzi prontissimi! Il paziente è steso per benino…»

    «Ma l’avete già sedato?»

    «Sì, cinque milligrammi di midazolam.»

    «E chi ve l’ha detto, scusa? Potevate aspettarmi!»

    «La dottoressa. Ha detto che lei stava arrivando.»

    La Colautti lo aveva chiamato per chiedergli se potesse sostituirla in sala due. Lui non ricordava bene le sue parole, ma in sostanza gli aveva detto che aveva un’urgenza in Pronto soccorso e che non poteva fare l’ultima gastroscopia. Si trattava fra l’altro di un paziente che voleva a tutti i costi essere sedato.

    «Beh, comunque sapete che prima di ogni esame voglio fare un po’ d’anamnesi. Non è una novità. Sappiamo qualcosa di questo signore?»

    «Provi a vedere sul foglio di lavoro, dottor Drioli. Forse c’è scritto qualcosa» aveva detto l’altra infermiera, che si chiamava Laura, indicando il bancone.

    Matteo le aveva fatto un sorrisetto come per dire Figuriamoci! Sul foglio di lavoro, nella parte che spettava al medico (in questo caso alla dottoressa Colautti) non c’era scritto quasi niente, solo che il paziente aveva disfagia. Non erano neanche riportati gli esami. Drioli era andato al computer per cercarli in G2, il sistema informatico dell’ospedale, ma il sistema era bloccato.

    «Ah, sì, dimenticavo» aveva detto Matteo, «stanno facendo dei lavori. È bloccato fino alle tre. Comunque, la dottoressa ha detto che è tutto a posto, che il signore può fare l’esame. Cosa dice, cominciamo?» Aveva fatto un sorrisetto ammiccante. Il suo turno stava per finire e doveva ancora pranzare.

    Al ricordo di quel sorriso Drioli ebbe una vampata di calore e le mani gli sudarono. Si raddrizzò sulla sedia e strinse i pugni poggiandoli con forza sulla scrivania. Se solo si fosse fermato in quel momento! Se avesse preteso di vedere tutto con i suoi occhi!

    Guardò oltre la finestra la sagoma bianca dei poliambulatori che risaltava netta come un festone sul blu profondo del cielo d’aprile. Poi aprì con la chiave un cassetto, ne estrasse un flacone e lo rovesciò sul palmo sudato e tremante della mano sinistra. Prese un certo numero di compresse e le mise in bocca. Deglutì senza neanche aver bisogno di un po’ d’acqua. Ci era abituato.

    Quando uscì non pensava più a niente. Stava bene. Attraversò il piazzale in direzione della portineria con addosso un giubbotto scamosciato un po’ fuori moda e dei pantaloni blu, larghi, anche questi démodé. Aveva la testa china in avanti e con la mano reggeva una cartella di cuoio chiaro, consunto, che pendeva inerte come una zavorra necessaria a stabilizzare la sua andatura lenta e incerta.

    Attraverso la vetrata del bar lo videro due giovani dottoresse e un dottore barbuto che prendevano il caffè con il loro direttore, un uomo basso, corpulento, con la pappagorgia. Le dottoresse sussurrarono qualcosa al direttore. Lui si voltò a guardare Drioli e si rigirò verso di loro annuendo. Poi scosse la testa con aria sprezzante e la pappagorgia oscillò come un budino. Il dottore barbuto disse qualcosa e il direttore gli rispose con un sorrisetto allusivo. Tutti si misero a ridacchiare.

    II

    Il mattino dopo la primavera fece uno dei suoi colpi di mano: venne giù una pioggia torrenziale. Drioli fu sorpreso nel parcheggio e dovette fare una buffa corsetta a piccoli passi con il rennino tirato sulla testa e la borsa di cuoio stretta sotto il braccio, per riparare almeno un po’ i documenti che vi erano contenuti (referti, articoli, protocolli). Quando arrivò in reparto, il suo giubbotto color senape, tutto chiazzato, gli dava l’aspetto di un rospo.

    «Che bella lavata!» esclamò la caposala, incontrandolo in corridoio.

    «Già» rispose lui. «E pensare che quando sono partito da casa era bello.»

    «Anche quando sono arrivata in ospedale io.» Gli infermieri cominciavano prima dei medici e finivano alle due e tre quarti. «Eh, tempo matto…» Si fermò un attimo a riflettere. Poi si batté la mano sulla fronte. «Ah, ecco, mi sono ricordata… Può venire un attimo con me, dottor Drioli?»

    Lui la seguì nel suo ufficio, che era lì vicino. Lei prese dalla scrivania un paio di chiavi inanellate a un cartellino di plastica blu con su scritto Dottor Drioli e glielo porse. «Mi ha detto il primario che Marco sarà in studio con lei. Gliele può dare?»

    «Va bene» rispose Drioli, «ma non mi fermo. Mi cambio e vado in ambulatorio.»

    «Non gliele può lasciare sulla scrivania?»

    «Di solito chiudo quando esco. Comunque dia

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