Il Don Giovanni
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Anteprima del libro
Il Don Giovanni - Matteo Cristiani
Matteo Cristiani
Il Don Giovanni
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Indice
I. Le conseguenze di una morte
1.
2.
3.
4.
5.
II. Progetti per il futuro
6.
7.
8.
9.
10.
III. La tana
11.
12.
13.
14.
15.
IV. L'idolo muto
16.
17.
18.
19.
20.
V. Il burlatore burlato
21.
22.
23.
24.
25.
[…] Il Don Giovanni trova una squisita voluttà a sfidare le opinioni che a lui stesso sembrano giuste e ragionevoli.
Stendhal, Cronache Italiane
Colui che è minacciato tende verso la radicalità […] Don Giovanni non è un rivoluzionario. Il suo nemico è la propria creazione. Don Giovanni è uno spagnolo: un anarchico.
Max Frisch, Don Giovanni o l'amore alla geometria
I. Le conseguenze di una morte
[Andante Elegiaco]
1.
Restavano ormai soltanto quei due uomini là in piedi, uno accanto all'altro, coi loro abiti scuri e le facce grige. Come per comune accordo mantenevano entrambi lo sguardo rivolto al cielo, verso il tenue fumo azzurrognolo che usciva dall'altissima ciminiera. Giovanni si riscosse, ricordandosi improvvisamente del freddo. Erano rimasti così a lungo, il mento in su, senza parlare. Si sentiva intorpidito, aveva bisogno di muoversi.
L'uomo al suo fianco volse il capo verso di lui e con un sorriso disse: «Eh sì… Tutta una vita e poi si finisce così, in una nuvoletta».
Giovanni rispose con un altro sorriso, speculare, soltanto per non mostrarsi scortese. Chi era costui?
«Sono il cugino di Marco» fece l'altro, come se l'avesse sentito.
Giovanni arrossì lievemente e strinse la mano che l'uomo porgeva.
«Piacere» disse, e lo osservò per la prima volta.
Era un signore sulla settantina, una faccia da vecchio toscano, i capelli bianchi, il nasone, le belle rughe che tagliavano le guance smagrite. Adesso che lo guardava con attenzione credette di riconoscere una certa somiglianza col professor Ulloa, anche se tutti i lineamenti risultavano involgariti: non c'era traccia della spiritualità aristocratica del professore.
L'uomo non gli mollava la mano, mentre gli occhi scrutavano la faccia di Giovanni come se sperasse scoprirci qualcosa.
«Piacere, Severi» disse infine.
«Tenorio» fece Giovanni, balbettando un po'.
Si sentiva sempre in certo modo ridicolo nelle presentazioni. E per di più quello sguardo lo metteva a disagio.
«Lei era cugino da parte di madre?» chiese inutilmente, cercando un modo per porre fine a quel momento.
«Sì sì, di mamma. La mi' mamma e la sua erano sorelle, sì» rispose il Severi, infilando le mani nelle tasche della giacca e prendendo a strascicare i piedi sulla ghiaia del vialetto.
Giovanni sospirò di sollievo, senza essere visto. I due si incamminarono verso l'uscita.
«Eh… Era tanto che non vedevo Marco, sa? Tanti, tanti anni. Da piccini si viveva insieme, poi Marco se ne andò via a studiare. È sempre stato un ragazzetto intelligente, sa?».
«Sì?» chiese Giovanni automaticamente.
«Uh!» fece il Severi.
Si era fermato e aveva alzato il braccio destro fin sopra la testa, strizzando gli occhi con espressione di fastidio, come se pretendesse mostrarsi indignato per il dubbio di Giovanni.
«Uh! Quanti libri! E fin da piccino. Ne leggeva un monte. Eh, era bravo Marco. Ha studiato tanto, tanto. Poi per l'epoca, sa, noi non si veniva mica da una famiglia accomodata. Però lui era così bravo…». Spalancò gli occhi ciondolando la testa in cerca di un'iperbole che non trovò. «Via, bravo! E allora lo stato l'aiutò, ha capito?». Adesso gli teneva la mano sul braccio. «Eh, erano altri tempi… Poi anche la su' moglie l'aiutò. Lei veniva da una famiglia bene, insomma, c'aveva tanti soldi. E allora l'aiutò. Ha capito?».
Giovanni annuiva. Cercava a tutti i costi di non far trasparire i suoi sentimenti, di non mostrare all'altro quanto fosse spazientito. Avrebbe voluto tornare subito in dipartimento, ma non gli sembrava educato andarsene così.
Ripresero a camminare, mentre il Severi continuava col suo racconto sconnesso e Giovanni ora assentiva, ora interveniva con saltuarie domande di circostanza. Qualche passante col capo chino, gazze ladre cicaleggiando tra gli arbusti; Giovanni alzò lo sguardo e vide finalmente il cancello che segnava il confine del cimitero. Sorrise.
«Ma lei era un collega?» chiese improvvisamente il Severi facendolo trasalire.
Questi si era fermato di nuovo e lo scrutava ragionando tra sé. Quel giovanotto (Quanti anni avrà? Trenta? Quaranta?) gli sembrava una persona ammodo, parecchio educata; quelle mani affusolate non avevano di certo mai toccato una vanga e poi era così palliduccio: di sicuro anche lui aveva studiato tanto.
«Sì,» fece Giovanni «sono stato studente del professor Ulloa e da qualche anno lavoravo per lui».
«Ah! Studente, eh?». Il Severi ora ridacchiava con gli occhietti vispi, contento d'aver indovinato.
E poi gli pareva comico che quel giovanotto fosse stato studente del suo Marco.
«Sì, sono stato suo studente,» ripeté Giovanni macchinalmente, contenendo l'irritazione «ma adesso lavoravo con lui» sottolineò.
Il vecchio lo guardò ancora con aria ironica. Si fece d'un tratto serio e riprese a camminare.
«Eh, povero Marco… Così, d'un colpo. E poi era ancora giovane! Diamine, sessanta due… no, sessanta tre anni, ma si rende conto?».
Giovanni non l'ascoltava più. Pensava solo ad uscire da quel luogo e tornare all'università, entrare in un posto caldo, lontano da quel vecchio molesto. La volontà di trasmettere una certa immagine di sé l'aveva ormai abbandonato.
«Senta, mi dispiace ma devo andare».
«Diobono, si figuri! Vada vada, non si preoccupi. Di sicuro c'avrà tante cose da fare. Eh, voi scienziati: teste matte!» rise.
Giovanni sorrise teso, più per essersi finalmente liberato di lui che per cortesia. Fece una specie d'inchino, evitando cedere nuovamente la mano all'altro, e se ne andò verso l'uscita, quasi correndo, mentre il Severi, le mani allacciate dietro la schiena, guardava placido come arrivasse fino al cancello per scomparire oltre il muro del camposanto.
2.
Il sibilo emesso dalla carcassa del monocromatore lo riportò in sé. Lo strumento aveva finito la sua scansione. Luca osservò brevemente il grafico che apparve sullo schermo, torcendo la bocca, e lo inviò a stampare. Attese pazientemente che uscisse il foglio. Lo ritagliò seguendo con cura i contorni degli assi. Infine lo incollò sul quaderno di laboratorio con del nastro adesivo e aggiunse qualche nota a margine.
Gli piaceva riempire con costanza e metodo i fogli quadrettati di tabelle, appunti, schemi. Gli dava la sensazione che stesse concludendo qualcosa, che il lavoro progredisse. Nei momenti di pausa, quando attendeva che gli apparecchi terminassero il loro compito, sfogliava a ritroso le pagine del suo blocco con la scusa di rivedere certi dati, per confrontarli coi nuovi risultati. Accarezzava con la mano i fogli fitti di parole e numeri, sondando coi polpastrelli le increspature lasciate dalla penna sulla carta e provando la soddisfazione del lavoro compiuto. Non era il contenuto di quegli appunti a trasmettergli quel sentimento, ma la stesura in sé, come se il suo compito non fosse stato quello di far ricerca, bensì di compilare quel quaderno seguendo un certo criterio estetico chiaro solo a lui.
Da un po' di tempo aveva perduto il senso di quel che stava facendo. Non ti preoccupare, è normale quando ti trovi a metà del dottorato – È una fase, passerà – Devi avere pazienza, gli ripetevano gli amici e pure il dottor Tenorio. Ma egli non si sentiva affatto più tranquillo. Soprattutto ora che il professor Ulloa era morto.
Negli ultimi giorni non aveva smesso di chiedersi quali conseguenze avrebbe prodotto la scomparsa del professore. I dubbi alimentavano incessantemente il suo disagio e la sua insicurezza. Nei rari momenti di ottimismo si tranquillizzava trattando di convincersi che niente sarebbe cambiato: alla fine dei conti Ulloa non metteva mai piede in laboratorio, era il dottor Tenorio ad occuparsi di tutto.
Da quando era lì aveva visto il professore in contate occasioni: il primo giorno, due anni fa ormai; quando discussero le correzioni alla bozza dell'unico articolo che avevano pubblicato; quando chiese licenza per le ferie estive; e poco più. Il professore se ne stava sempre chiuso nel suo ufficio, dietro la scrivania ingombra di libri vecchi, articoli impilati in alte colonne pericolanti, fogli sparsi ovunque. Che cosa facesse poi, non l'aveva mai capito.
Da quando aveva iniziato il dottorato aveva lavorato spalla a spalla soltanto col dottor Tenorio, che era l'unico altro membro di quel gruppo così esiguo. Il dottore trascorreva le sue giornate in laboratorio, sempre occupato a prendere dati, a riparare gli innumerevoli guasti che affliggevano i vetusti apparati o a spiegare a Luca quale fosse la fisica dietro i fenomeni che osservavano. Tutto ciò che Luca sapeva lo doveva al dottore, per il quale nutriva una sincera ammirazione. Poco importava quel che di lui dicessero in dipartimento: che era solo un idiota di talento, un giovane dotato che però non aveva mai combinato niente.
Con gli anni e la frequentazione assidua, se da una parte aveva rafforzato la stima nei suoi confronti, aveva pure cominciato a comprendere le ragioni di quello che gli altri definivano impietosamente un fallimento: timido per natura, schivo, il dottore aveva preferito restare con il professor Ulloa invece di andarsene all'estero a far carriera, finendo col sacrificare le sue aspirazioni alla tanto confortante tranquillità di quella realtà.
Il dottor Tenorio non aveva molti amici all'università, parlava poco e con pochi: niente a che vedere con gli altri colleghi, sempre così attivi tra una conferenza ed un seminario, tra una visita e un workshop. Il dottore amava vivere nell'ombra, cercando di essere ignorato, felice solo nella solitudine del suo laboratorio.
Luca stimava la sua purezza e non mancava di difenderlo quando gli altri studenti se ne prendevano gioco: lo facevano più per l'irritazione così comica che sapevano di suscitare nel loro compagno che per un vero accanimento nei confronti del dottor Tenorio, che non mancavano però di considerare come una specie di bestia rara ma innocua.
Luca aveva piena fiducia nelle capacità del suo maestro e non dubitava che egli potesse portare ancora avanti il lavoro del gruppo ormai orfano. Però sapeva che le cose non sarebbero andate così, che non sarebbe stato così facile. Come dottorando navigato cominciava ad intuire che la sua logica non aveva niente a che fare con quella accademica, che gli risultava sempre più inesplicabile.
Il dottore in questo non aveva mai saputo aiutarlo. Di politica non capisco niente, soleva rispondere ogni qual volta Luca lo interpellava al riguardo. Sembrava disinteressarsi completamente alla vita universitaria: non sapeva mai chi fossero i nuovi venuti o chi stesse in procinto di andarsene, quali concorsi venissero banditi o che borse di studio venissero assegnate. Evitava di parlare di certi argomenti e, se vi veniva costretto dalle circostanze, mostrava sempre una smorfia di disgusto appena accennata e sviava lo sguardo, come se temesse che qualcuno potesse indovinare i suoi sentimenti.
Non si interessava alla carriera degli altri così come alla propria: il dottore viveva grazie ad uno stipendio ottenuto da certi fondi dell'Ulloa, stipendio magro ma sicuro. Avendo rinunciato a qualsiasi ambizione si sentiva comodo in quella situazione. Ma adesso che il professore era morto tutto era destinato a cambiare.
Prese a rosicchiarsi le unghie. Sapeva che qualsiasi risoluzione in merito l'avrebbe influenzato direttamente: Ulloa era pur sempre il suo relatore di tesi. Che sarebbe successo? Il dottor Tenorio non poteva certo prendere il posto del professore così, in automatico. Ma che avrebbe fatto allora il dottore? Avrebbe cercato un posto in un'altra università, presumibilmente. E in questo caso, l'avrebbe egli seguito? Avrebbe avuto il coraggio di continuare il dottorato in un altra città, in un altro paese, forse, soltanto per restare a fianco di quell'uomo? Oppure avrebbe deciso di restare lì, nonostante tutto, di separarsi dal dottor Tenorio e terminare il dottorato in un altro gruppo? Già, ma in quale? Non sapeva che fare, che decisione prendere. Ad affliggerlo di più, però, concorreva la consapevolezza del fatto che il suo futuro dipendeva ora come non mai dalle imperscrutabili scelte altrui: del dottore, del direttore, del consiglio di dipartimento.
Il suo pessimismo cresceva assieme ad un certo disagio presto convertito in irritazione, quasi rabbia. Da qualche tempo ce l'aveva col dottore, anche se non osava confessarlo. Sì, d'accordo, la purezza, il rigore, il far le cose con calma; ma alla fine dei conti tutto questo che aveva prodotto? Da quell'unico e ormai remoto articoletto l'esperimento sembrava ristagnare. Leporelli, ci vuole pazienza, diceva il dottore, Stiamo cominciando un nuovo studio e le cose al principio vanno sempre a rilento. Quando Luca osava lamentarsi timidamente del tempo a suo avviso sprecato in certe calibrazioni lunghissime, ripetute innumerevoli volte, Tenorio diceva: Bisogna fare le cose per bene, precise. Ci vuole precisione, Leporelli. Ma mentre prima prendeva queste ed altre frasi come massime moralizzanti, adesso ne restava deluso. Avrebbe voluto che il dottore fosse un po' più intraprendente, aggressivo, dinamico. Meno etica e più sostanza, si diceva.
Si morse il labbro inferiore, quasi un castigo per quella critica anche se solo immaginata. Nel fondo era soltanto irritato da tutta quella situazione, torturato dall'incertezza. Guardò l'orologio: le sette. Il funerale doveva essere finito ormai: perché Tenorio non aveva ancora fatto ritorno?
Arrossì ricordando come aveva evitato di partecipare alla funzione: quattro parole sbilenche, silenzi imbarazzati. Non gli piacevano i cimiteri, non sapeva che avrebbe potuto dire o fare per l'occasione. Ma c'era pure un'altra ragione, meno confessabile: la morte del professor Ulloa lo lasciava del tutto indifferente.
Se ne rese conto fin dal primo momento in cui ne aveva avuto notizia, non senza per questo non provare una certa vergogna. Appena lo conoscevo, si giustificava con sé stesso; ma non poteva fare a meno di sentirsi meschino. Non aveva mai stabilito un vero contatto col professore: quell'uomo mingherlino e un po' curvo, col suo sorriso vago e onnipresente, gli pareva una creatura incomprensibile. Si stupiva quando Tenorio parlava di lui con