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La notte dell'equinozio
La notte dell'equinozio
La notte dell'equinozio
E-book397 pagine5 ore

La notte dell'equinozio

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Info su questo ebook

La realtà, per Elia Greco, è proprio come appare dal finestrino del treno che lo sta portando al paese natio: un susseguirsi di eventi che fluiscono sfiorandolo, per poi dissolversi nella memoria. Un'inspiegabile angoscia lo tormenta, qualcosa sembra voler emergere dalla cortina buia in cui affonda il suo passato. Le indagini di Lara Ferri - investigatrice privata - e di Riccardo Nardi - commissario di polizia che lotta contro una grave malattia - si intrecciano, e gradualmente iniziano a diradare le ombre sui misteri che si celano dietro i vuoti di memoria di Elia. Qualcuno, però, li vuole fermare. Qualcuno non vuole che si scopra la verità, perché le amnesie di Elia Greco potrebbero nascondere segreti che nessuno dovrebbe conoscere. Intanto Greg Lucas, vecchio giornalista d'assalto, è a un passo dal far luce sugli esperimenti che vengono effettuati all'interno dei laboratori di un'importante casa farmaceutica. Ed è proprio qui, nel dedalo che si aggroviglia dietro la bocca dei nuovi laboratori ai piedi delle Alpi, che tutti sembrano scivolare inesorabilmente, inghiottiti dal cuore oscuro e implacabile di una sola notte, la notte dell'equinozio.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2021
ISBN9788893331852
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    Anteprima del libro

    La notte dell'equinozio - Mauro Ignazio Alò

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    © Mauro Ignazio Alò

    © Utterson s.r.l., Viterbo, 2021

    Alter Ego Edizioni

    Collana: Spettri

    I edizione digitale: febbraio 2021

    ISBN: 978-88-9333-185-2

    Copertina di Luca Verduchi

    Progetto grafico: Luca Verduchi e Stefano Frateiacci

    License agreement made through Laura Ceccacci Agency s.r.l.

    www.alteregoedizioni.it

    A mio padre,

    un uomo saggio.

    "La mia mente era uno specchio:

    vedeva ciò che vedeva, sapeva ciò che sapeva.

    In gioventù la mia mente fu proprio uno specchio

    in un vagone che fuggiva veloce

    afferrando e perdendo squarci di paesaggio.

    Poi col tempo

    grandi graffi si incisero sopra lo specchio

    lasciando che il mondo vi entrasse

    e lasciando che vi affiorasse il mio io più segreto".

    (Edgard Lee Masters, Ernest Hyde, Antologia di Spoon River)

    "... libera scelta tra il bene e il male?

    Non esiste nulla di più seducente per l’uomo

    della libertà di coscienza,

    ma nulla è altrettanto straziante".

    (Feodor Dostoevskij, I fratelli Karamazov)

    Parte Prima

    Amnesie 26 febbraio – 7 marzo

    I

    Giorno 1

    Muretti di pietra a secco si perdevano in lontananza, proiettando ombre dai contorni frastagliati sull’erba e sugli affioramenti rocciosi. Le fronde degli ulivi si agitavano, colpite dal vento. Tetti coperti da lastre di ardesia e pozze acquitrinose riflettevano una luce grigia e fredda, spruzzata di riflessi violacei. Una strada correva per un lungo tratto parallela alla ferrovia, si allontanava e scompariva oltre il crinale di un dosso, poi all’improvviso si riaffacciava, attraversava la linea ferrata e riprendeva a correre dalla parte opposta. La sagoma nera di un castello, la cui ombra allungata si arrampicava sulle pendici di una collina, dominava la valle sottostante.

    Elia guardava ma in realtà non vedeva il paesaggio che scorreva sullo sfondo. La sua attenzione era attratta dai pali della luce: per un attimo restavano immobili di fronte a lui, prima di sfrecciare via, risucchiati da una forza impalpabile e tuttavia reale.

    Ed era proprio così che lui, in quei giorni, percepiva la realtà: un susseguirsi di eventi che fluivano sfiorandolo, per poi dissolversi nella memoria. Da vaga e incerta, la convinzione di dover essere preoccupato si era tramutata in qualcosa di solido e definitivo. Lui, semplicemente, doveva essere preoccupato.

    Scosse il capo e si volse a osservare un signore di mezza età che, seduto di fronte a lui, stava leggendo un quotidiano. Finalmente si concesse un sorriso e si sporse in avanti. Nella sua mente si era formata un’idea un po’ bizzarra: avrebbe letto un articolo anticipando il movimento dei fogli.

    Sulla pagina a lui visibile campeggiavano caratteri in grassetto: Mondo scientifico scosso dalla morte di Amedeo Cordero, pioniere negli studi delle neuroscienze. Di fianco una foto sgranata con tre uomini; sotto una didascalia con i nomi. Il volto al centro sembrava fissarlo con occhi piccoli, indagatori.

    Elia distolse lo sguardo. Proseguì nella lettura e scoprì che il dottor Amedeo Cordero, direttore dei laboratori da poco trasferiti ai piedi delle Alpi e azionista di maggioranza della clinica privata Cordero a Torino – una delle più importanti del paese – era improvvisamente deceduto quando sembrava aver vinto la sua battaglia contro un epatocarcinoma multifocale. Una giornata di cure in quella clinica aveva costi esorbitanti, eppure era necessario prenotare un letto con settimane di anticipo. Era il luogo dove andavano a curarsi o a morire alcuni dei più ricchi uomini del mondo. Amedeo Cordero, in società con il fratello Livio, possedeva anche laboratori all’avanguardia nella ricerca farmaceutica; si riteneva che in realtà fossero questi alla base del suo immenso patrimonio. Andrea Cordero, figlio di Livio e nipote del deceduto, avvicinato da alcuni giornalisti, non aveva voluto rilasciare alcuna dichiarazione.

    Elia reclinò indietro il capo, sovrappensiero. Aveva già udito quei nomi, ma non ricordava né dove né quando. Si morse il labbro e si volse di nuovo verso il finestrino, osservando distrattamente la campagna che scorreva via.

    Durante quell’ultima settimana, ogni mattina era andato al lavoro, aveva elaborato progetti architettonici ed eseguito complessi calcoli di statica delle strutture. E fin lì nulla di sorprendente: quella era la sua professione. Però, quando la sera rincasava, i pensieri iniziavano ad aggrovigliarsi su loro stessi e tornava, insistente, una strana tensione che gli strizzava lo stomaco. Convinto di essere solo stanco di fare sempre le medesime cose, aveva persino modificato dieta e allenamento in palestra, ma nulla era cambiato. Allora, seguendo un istinto che sentiva del tutto avulso dalla ragione, quella stessa mattina era partito per Lavari, il paese della Liguria dove era nato e cresciuto.

    Ora però stava di nuovo montando dentro di lui un’inspiegabile angoscia, accompagnata dalla percezione di aver abbandonato un nido sicuro per addentrarsi in un luogo che aveva paura di non riconoscere più. Sospirò.

    Maledizione, stava solo tornando al suo paese…

    Quando una macchia scura comparve all’improvviso in lontananza, Elia avvicinò il viso al finestrino. Una poiana, o forse un nibbio, stava compiendo un ardito tuffo in picchiata verso un campo coltivato. Una preda stava per essere catturata. Le prime case iniziarono ad alternarsi a boschi di castagno e filari di viti, celando alla vista le evoluzioni dell’uccello rapace.

    Le ganasce serrarono la loro morsa sulle ruote, e il treno cominciò a rallentare. Il primo cartello passò troppo in fretta, sul secondo riuscì a leggere il nome della sua destinazione. Prese la borsa e scattò in piedi, traendo un profondo respiro.

    Si fermò sulla pensilina e sollevò lo sguardo. Due panchine, una costruzione bianca tagliata in due da un cornicione e, sotto il colmo del tetto, un grosso orologio con un disco che ruotava indicando l’ora in diversi paesi nel mondo. Era stato un’attrattiva per i ragazzi quando lo avevano montato ma poi, come spesso accade, l’interesse era scemato fino quasi a scomparire.

    «Ha bisogno di qualcosa?» giunse improvvisa una voce maschile.

    Elia si voltò di scatto. «No, grazie…» provò a rispondere, ma una specie di groppo in gola non gli permise di terminare la frase. Si schiarì la voce con un colpo di tosse. «Era tanto tempo che non tornavo…».

    L’uomo, che indossava la divisa da capostazione, lo studiò per un istante. «È di qui?».

    «Sì, sono nato qui» disse, porgendo la mano. «Mi chiamo Elia, Elia Greco».

    «Piacere di conoscerla» rispose il capostazione, ricambiando la stretta. «E ora, figliolo, devo andare. Buona permanenza». Con passo rapido si allontanò.

    Elia avrebbe voluto chiedergli che fine avesse fatto il vecchio Alfredo, che era stato capostazione per tanti anni da diventare un’istituzione. Quando era ancora bambino, Elia trascorreva interi pomeriggi con gli amici seduto sulla staccionata nei pressi dell’area di manovra dei treni, e restava ad ascoltare i racconti di quello che già allora era il vecchio Alfredo. Probabilmente era morto.

    Borsa alla mano, attraversò il cancello che si apriva su un lato della pensilina.

    Al centro della piazzola un falco in ottone con le ali spiegate aveva gli artigli affondati sulla sommità di una piccola colonna. Dal becco spalancato un filo d’acqua zampillava e ricadeva, dopo aver percorso un breve arco, in una vaschetta coperta da una rete a maglie larghe. Dall’altro lato della piazza, in parte nascosti dalla fontana, un chiosco, un bar e una farmacia.

    Elia rimase immobile, incapace di muovere un solo muscolo. Chiuse e riaprì gli occhi, respirando. Cosa mai sperava di trovare tornando a casa? Di certo non risposte: non conosceva neppure le domande.

    Quando imboccò la strada che lo aveva visto crescere, dovette fermarsi per riprendere fiato. Socchiuse gli occhi, cercando di controllare il respiro affannato. Basse recinzioni in metallo si alternavano a siepi ben curate, un vecchio abete si ergeva in fondo alla strada, alcuni giovani alberi si trovavano ai lati dei marciapiedi. La via era deserta, le case silenziose, unico suono: il sibilo di un allarme che veniva inserito.

    Elia scosse il capo prima di riprendere a camminare. Presente e ricordi si accavallavano in una continua successione di immagini, all’apparenza senza soluzione di continuità. Solo una volta, fugace, si affacciò in lui il dubbio di non saper distinguere la realtà dalla fantasia, ma subito quell’idea scivolò via, lasciando dietro di sé un senso di turbamento.

    Alla sua destra poté finalmente rivedere la sua casa, un edificio a due piani con l’intonaco scrostato in più punti e gli infissi scoloriti e scheggiati. Il giardino era incolto e le erbacce erano cresciute un po’ ovunque.

    Elia si avvicinò alla recinzione e aprì il cancello. Era ancora ben ancorato alle colonne in muratura, ma il cigolio dei cardini che ruotavano gli suggerì che da molto tempo nessuno lo aveva aperto.

    Il viottolo d’accesso era coperto da foglie secche, nel giardino alcuni rami incastrati tra il fogliame parevano croci dissotterrate in un cimitero abbandonato. La porta basculante del casotto di legno era in parte staccata dal telaio, la tettoia in lamiera era inclinata su un lato, sorretta da un solo tubolare arrugginito. Lo spazio sottostante, dove da sempre erano disposte cataste di legna, si presentava ora vuoto e desolato. Il luogo evocava un totale senso di abbandono.

    Con circospezione, richiuse dietro di sé il cancello e riprese il cammino, pensieroso. Sfiorava la cancellata scrostata con la mano, in una inconsapevole imitazione di ciò che usava fare da bambino. Si sentiva confuso, frastornato.

    Si fermò di fronte alla casa dei signori Vercelli, i loro vicini. Rimase alcuni istanti accecato dalla luce del sole, poi spostò l’attenzione sul pulsante d’ottone che sporgeva dal muro e lo premette.

    La signora Vercelli comparve quasi subito sulla soglia. Probabilmente lo stava spiando da dietro la porta, rifletté, guardandola con un certo disagio. Profonde rughe le solcavano il viso, ma lo sguardo era attento e il corpo ancora eretto non sembrava aver risentito del trascorrere degli anni.

    «Ciao Elia, vuoi entrare?».

    II

    Elia attese che la signora Vercelli lo raggiungesse al cancello. «Buongiorno, come sta?» chiese. Era sinceramente contento di rivederla.

    «Da povera vecchia, caro Elia, ma tiro avanti. Vieni, entra pure».

    Lui la seguì lungo il vialetto e varcò la soglia di casa.

    L’arredamento della stanza era identico a come lo ricordava. Un telefono di foggia antiquata e un taccuino rilegato in pelle nera per i numeri telefonici su un tavolino, alcune stampe di Lavari dell’inizio del Novecento appese alle pareti, un portaombrelli in ottone. Anche l’orribile statuina che raffigurava una ballerina polinesiana era sempre sulla credenza, ora però i seni erano pudicamente coperti da una striscia di tessuto colorato.

    «Guarda chi c’è, Paolo».

    Elia sobbalzò e rivolse lo sguardo oltre la porta che si affacciava sul salotto. Un uomo anziano richiuse il libro che teneva sulle ginocchia e lo posò sul tavolino.

    «Ciao Elia, da quanto tempo che non ci vediamo!». La voce era calda e cortese, lo sguardo trasmetteva una gioia appena velata di stupore.

    Elia gli strinse con vigore la mano. «Ha ragione, ma il lavoro mi tiene molto impegnato». Scusa banale, ma il signor Paolo parve accettarla con un sorriso.

    «Prego, accomodati, e raccontami di te. Mi hai detto del lavoro, cosa fai di preciso?».

    Elia prese posto sulla poltrona e attese che anche l’altro sedesse. «Progetto case, sia le facciate che gli ambienti interni, poi mi occupo di raccogliere gli aggiornamenti dei piani urbanistici».

    «Bene, bene. È quello che hai sempre sognato, giusto?».

    Durante la breve ora che trascorse a chiacchierare con l’anziana coppia, Elia non riuscì a reprimere la sensazione di déjà-vu. Gli pareva di assistere a ogni cosa in qualità di spettatore esterno, tanto era intensa la sensazione che fosse un’altra persona a compiere semplici gesti come sollevare una tazza di caffè e portarla alla bocca, o replicare alle garbate osservazioni della signora Vercelli.

    «È da quando sei arrivato che volevo chiederti una cosa» iniziò a dire la donna. «Vedi, il fatto è che, quando i tuoi genitori… Sì, insomma…».

    Gli occhi di Elia, dapprima opachi, riacquistarono brillantezza. Inclinò la testa di lato e si massaggiò la nuca, in attesa.

    «Ciò che vuol dire mia moglie» la soccorse il signor Paolo, «è che quando ci fu quell’incidente… Quando i tuoi genitori…».

    Elia rivide l’auto, le lamiere, la gente che accorreva. Chiuse per qualche secondo gli occhi.

    «Non voglio turbarti, ma ti abbiamo cercato tanto» riprese Paolo congiungendo le mani sotto il mento. «Anche la polizia ha chiesto di te, ma tu sembravi sparito».

    Elia riaprì gli occhi e lo fissò a lungo. Si era limitato a mandar loro un telegramma, ma niente di più. «Mi spiace, davvero» disse.

    Il signor Paolo lanciò uno sguardo di sfuggita alla moglie. «Però, Elia… non sei venuto neanche alle esequie» mormorò. Il tono della voce non esprimeva rancore o risentimento, solo tristezza e delusione.

    Elia fu colto impreparato da quello sfogo, e un brivido gli percorse la schiena quando all’improvviso si rese conto che mai, neppure per un istante, aveva riflettuto su quanto gli era stato appena detto. Eppure ora la spiegazione gli si presentò nella mente in tutta la sua semplicità.

    «È vero, è vero» balbettò. «Non c’ero. Ma per me è stato un colpo… Davvero, un colpo… molto duro. Non volevo tornare qui, non volevo» concluse abbassando lo sguardo.

    «Capisco» assentì il signor Paolo.

    La donna sorrise e si alzò in piedi. «Vieni, devo mostrarti una cosa» disse, prendendolo per mano. Lo condusse fuori dal salone, poi salirono le due rampe di scale che conducevano alla soffitta.

    Quell’ambiente polveroso era così basso e angusto che Elia quasi si sentì schiacciato. Una vecchia cassapanca addossata a una parete, vari scatoloni e una rete arrugginita al centro, un materasso coperto da un telo di cellophane. Si passò una mano sugli occhi e scosse la testa. Le immagini sembravano susseguirsi in brevi scatti, come in una pellicola che mostrava ogni singolo fotogramma.

    «Aiutami, per favore» disse la signora. «Devo spostare questi scatoloni per poter aprire il baule».

    Elia la fissò, ma non si mosse.

    «Per favore» ripeté lei allargando le braccia. «Non ce la faccio da sola».

    Elia assentì appena prima di avvicinarsi. Doveva piegare la testa in avanti per non sbattere contro le travi che sporgevano dal soffitto. Insieme liberarono il coperchio del baule, poi la donna lo sollevò e iniziò a estrarre vecchi giocattoli. «Li conservo per non dimenticare che anch’io un tempo sono stata bambina». Alzò gli occhi verso di lui. «Hai capito, vero, cosa voglio mostrarti?».

    Elia rimase in silenzio, chiedendosi a cosa potesse alludere.

    «Eccola!» esclamò infine lei. «Guardala. Il vestito è un po’ sgualcito ma ancora in buono stato. Tienila».

    Due grandi occhi tondi spiccavano sulla paffuta faccia di porcellana e lo guardavano indifferenti, quasi a volerlo sfidare.

    Elia si sforzò di sorridere. «Bella».

    «È tutto quello che sai dire?» replicò la signora, visibilmente delusa. «Ma te la ricordi o no?».

    Elia si strinse nelle spalle. «Più o meno…».

    «Ma come!» sbuffò la signora. «Dicevi che era per te la sorellina che desideravi. Però volevi che restasse un segreto tra noi, te ne vergognavi. Non voglio fare la figura della femminuccia che gioca con le bambole, mi dicevi di solito».

    «Certo, ora ricordo» mentì Elia. «Ma lei, piuttosto, come fa a ricordare?».

    La donna si illuminò in volto. «Come avrei potuto dimenticare, vorrai dire. Se vuoi, ora la puoi tenere. Non credo avrai ancora timore di essere preso in giro».

    Elia rimase immobile, in attesa.

    «Allora, la bambola?».

    Lui scosse il capo. «Grazie, ma proprio non saprei come trasportarla senza correre il rischio di romperla durante il viaggio. Magari un’altra volta, okay?».

    Un po’ a malincuore, la bambola venne riposta nel baule. Tornati nel salotto, Elia decise di congedarsi. Aveva bisogno di aria, doveva uscire.

    «Non ti invito a restare qui con noi questa sera, vedo che sei di fretta. C’è però un’ultima cosa che voglio chiederti» disse il signor Paolo fermo sulla porta d’ingresso. «Dopo la morte dei tuoi, forse non te l’ho ancora detto, ma sono venuti alcuni signori a fare domande…».

    Elia aggrottò la fronte. «Alcuni signori?».

    L’uomo annuì. «Sì, hanno detto di essere funzionari di polizia. Ci hanno fatto un sacco di domande, anche su di te».

    «Non saprei» disse Elia stringendosi nelle spalle. Ancora quella sensazione di non essere lui a parlare. Scosse la testa, inalando aria che gli raschiò la gola. «Si è poi scoperta la causa dell’incidente?».

    Il signor Paolo sgranò gli occhi. «Ma come, i giornali non li hai letti?».

    «No, io no» balbettò Elia. «Non ce l’ho fatta, allora. Non me la sono sentita, l’incidente… Non me la sono sentita di leggere i giornali, mi spiace».

    Il signor Paolo lo fissò a lungo, alla fine sbatté le palpebre e riprese in tono conciliante: «Capisco, non ti preoccupare, non volevo risvegliare ricordi dolorosi. Solo un’ultima cosa, dove sei andato dopo l’incidente? Immagino che tu sia tornato a Torino».

    Quella domanda, buttata lì come per caso, colse di sorpresa Elia. «Sì, a Torino… avevo bisogno di restare solo».

    «Lascialo andare» intervenne la signora Loretta. «Non vedi che è stanco?».

    «D’accordo» convenne il marito. «Non voglio farti perdere altro tempo. Speriamo che tu possa tornare presto a trovarci».

    Elia si volse e li salutò con un cenno del capo. Dovette compiere uno sforzo notevole per coprire con passo fermo il breve tragitto che lo divideva dal cancello. Una sola certezza: lui doveva essere preoccupato.

    Camminò a lungo senza una meta precisa. La tensione provata al suo arrivo si era tramutata in qualcosa di diverso, una specie di disagio legato a un senso di smarrimento. Da cosa dipendeva? Dalle domande che gli aveva posto il signor Paolo, ma non solo. Le sue risposte erano state sincere? Sì, forse, ma non del tutto. Sbuffò e calciò un sasso che rotolò sul marciapiede, una bambina lo indicò e la madre la trascinò via.

    Costeggiò un tratto delle vecchie mura e svoltò in una piazza. Odore di calce e pietra, profumo di antico e di casa. Un vecchio seduto su un gradino lanciò un’imprecazione in dialetto sui giovani, Elia non capì le singole parole ma ne comprese il senso. Sorrise e proseguì oltre.

    Imboccò una via in salita. Mentre superava il giardino botanico, le case iniziarono a diradarsi, e con esse il peso dei ricordi che lo avevano accompagnato fino a quel momento.

    Sedette su un basso pilone ai lati della strada e posò in terra la borsa. Si passò una mano tra i capelli e chiuse gli occhi.

    Gli sembrava di provare sentimenti contrastanti. Rivedere i luoghi della sua fanciullezza aveva risvegliato un senso di nostalgia. Allo stesso tempo, però, percepiva una costante tensione che gli attanagliava lo stomaco.

    Cercò inutilmente di scacciare quest’ultimo sentimento: doveva svuotare la mente e godersi il momento. L’aria che portava con sé un vago sentore di salsedine, gli odori così diversi da quelli a cui si era abituato negli ultimi anni. Il silenzio. Per un attimo quasi ci riuscì, ma poi, sconfitto, si alzò e riprese a camminare. Forse non era stata una grande idea quella di tornare al suo paese…

    Elia si fermò di fronte alla pensione Il Tiglio, dove una volta aveva soggiornato un amico. Entrando nell’atrio, fu lieto di non trovare il vecchio padrone dietro il bancone. Non provava alcun desiderio di rispondere a domande relative a quanto era accaduto tre anni prima. Al suo posto c’era una ragazza graziosa, di circa vent’anni, che non aveva mai visto in precedenza.

    «C’è una stanza libera per questa notte?» chiese.

    Con eccessiva e studiata lentezza, la ragazza consultò il registro. «Sì, la ventidue». Poi, alzando lo sguardo, aggiunse: «Si deve pagare in anticipo».

    «D’accordo» replicò Elia, tirando fuori il portafogli. «È ancora possibile mangiare qualcosa?».

    «A quest’ora? Ma sono quasi le undici».

    Elia sollevò la testa, sorpreso. Non si era accorto che il tempo fosse trascorso così in fretta. «Non chiedo una cena completa, mi accontento di un panino».

    La ragazza rispose con un sospiro. «D’accordo, vedrò quello che posso fare». Un attimo dopo si volse e aprì la porta a soffietto che si affacciava sul retro.

    Elia ruotò lo sguardo ed ebbe modo di constatare la precisione con la quale ricordava ogni particolare. Le due poltrone sulla destra della porta d’ingresso, il tavolino in noce sul cui ripiano inferiore erano riposte alcune riviste, stampe raffiguranti vecchi edifici e strade di Lavari appese alle pareti.

    «Ottima memoria» disse ad alta voce.

    «Sarà» commentò la ragazza il cui viso era comparso sulla soglia. «Comunque si è dimenticato di dirmi cosa vuole nel panino».

    «Quello che c’è va bene» rispose lui, serrando le mascelle. Non riusciva a capire se il modo di fare di quella ragazza lo irritasse o lo divertisse.

    Dopo pochi minuti, la giovane ritornò con un sacchetto di carta in una mano e una lattina di birra nell’altra.

    «Ho pensato che mangiando potesse venirle sete» disse con malcelata ironia. «Va bene la birra? È gelata». Appoggiò i gomiti sul bancone, le mani a coppa che sorreggevano il mento.

    Elia annuì e, prima di pagare, si concesse il piacere di osservare il viso sbarazzino di lei.

    «Non si vedono spesso bei tipi da queste parti. Sei solo?» concluse la ragazza allontanandosi dal bancone e riponendo i soldi nella cassa. Ora lei lo fissava dritto negli occhi. Le lunghe ciglia sbatterono ammiccanti e lo sguardo si fece intenso.

    All’improvviso i fotogrammi ripresero a scorrere a scatti. Il volto sorridente della ragazza, un attimo di vuoto, una mano che si solleva, ancora un vuoto, le palpebre che si abbassano. «Grazie per la birra e il panino» disse Elia senza riuscire a focalizzare lo sguardo di fronte a sé. «Buonanotte».

    Solo nella stanza, dopo aver mangiato, si spogliò e si distese sul letto. Cercò di chiudere la mente, di scacciare ogni pensiero, e per un po’ quasi ci riuscì. Ma poi, lentamente, iniziò a rilassarsi, e immagini ed emozioni ripresero il loro corso naturale.

    Senza volerlo, comprese che durante gli ultimi tre anni aveva vissuto quasi evitando le grosse emozioni. Forse la morte dei genitori lo aveva sconvolto più di quanto lui stesso fosse disposto ad ammettere. Eppure, doveva esserci qualcos’altro che ancora gli sfuggiva.

    Si agitò a lungo nel letto prima di addormentarsi, vinto dalla stanchezza.

    III

    Giorno 1, Torino

    L’estremo inferiore del vetro brillava per un sottile strato ghiacciato che, rifrangendo la luce esterna, generava l’illusione di un microscopico arcobaleno.

    Guardando fuori dalla finestra, Lara Ferri poteva vedere il viavai di persone che percorrevano a passo svelto la strada che terminava in piazza San Carlo, e più in là la cioccolateria dove talvolta amava fermarsi per comprare i suoi amati gianduiotti. Ma quel giorno neppure il pensiero di quel sapore riusciva ad alleviare il suo malumore.

    Sebbene fosse mezzogiorno e il sole splendesse nel cielo, le luci del locale erano accese e le applique appese alle pareti proiettavano stretti coni che illuminavano il legno dei tavolini. Lara si appoggiò allo schienale, sospirando.

    «Nient’altro, signora?» chiese il cameriere che le aveva posato sul tavolino il secondo caffè. O era il terzo? Non se lo ricordava neppure.

    «No, basta così».

    Le labbra ripresero la loro posizione naturale, con le estremità rivolte verso il basso. Io sono io, sembravano voler dire, voi sempre e comunque qualcosa di meno. Non era ciò che provava in quel momento. Si passò una mano tra i capelli tagliati corti da quando, un paio di anni prima, aveva scoperto che si stavano diradando. Nel giro di pochi mesi avevano ripreso a crescere sani e robusti, e da allora non aveva più rinunciato a portarli corti. Le raddolcivano i lineamenti del viso – le avevano confessato un po’ tutti – e lei teneva molto al proprio aspetto. Forse si trattava di vanità, ma non le importava: avrebbe provato le stesse attitudini anche se fosse stata l’ultima donna rimasta sulla terra.

    Sorseggiò il caffè dalla tazzina ormai vuota senza smettere di rimproverarsi di esserci cascata di nuovo. Dopo l’ultima volta che si era trovata in una situazione simile, aveva giurato a se stessa che non si sarebbe più lasciata travolgere dai sentimenti. E invece rieccola lì, a spasimare per un uomo che non la voleva più. Cosa c’era in lei che non andava? Era una bella donna, intelligente e indipendente. Non ricca, forse, ma benestante, e andava orgogliosa di queste sue caratteristiche. Ma proprio sul più bello, quando ormai si sentiva sicura che nulla avrebbe potuto incrinare le sue certezze, si ritrovava da sola. E, ciò che era peggio, non riusciva mai a intravedere i sintomi che anticipavano la fine dei suoi rapporti.

    «Dio» imprecò a denti stretti.

    «Beh, in effetti non sono ancora così importante».

    Lara sollevò lo sguardo. Era lui, ed era lì. Il cuore iniziò a martellarle nel petto. «Mi fa piacere vedere che sei ancora vivo!» disse, sforzandosi di abbozzare un sorriso. Sospirò e distolse lo sguardo, infastidita da se stessa: dunque era così sciocca da volergli ancora piacere!

    Andrea Cordero, psichiatra, era un bell’uomo sulla quarantina, appena brizzolato sulle tempie ed eternamente abbronzato. Quando si sedette, incrociò le mani sul tavolino. Non disse nulla, limitandosi a guardarla.

    «È una settimana che ti cerco. Ti ho lasciato messaggi in segreteria, ho parlato con la tua segretaria…». Lara cercò di dare vigore alla voce. Non voleva apparire alla sua mercé, anche se era proprio così che si sentiva.

    «Ho avuto molto da fare» disse lui, un lieve sorriso stampato sulla faccia. Slacciò il cappotto senza sfilarlo.

    «Neanche il tempo di una telefonata» commentò lei, secca.

    Ecco, proprio questo era il suo problema. Non capire quando era il momento di mandare qualcuno a quel paese, oppure cercare di riconquistarlo con paroline dolci. Lei, e il suo istinto, sceglievano l’unica via da evitare: provocarlo fino a portarlo al punto di rottura.

    «Be’, sì, sono molto impegnato in questo periodo». Andrea si strinse nelle spalle, gettando uno sguardo al resto del locale. «E poi, vedi, non so come dire, ma… ho bisogno di stare un po’ da solo, adesso. Dopo la morte di mio zio, alcune cose stanno cambiando nella mia vita, sto cercando di prepararmi. Ora che c’è mio padre a capo di tutto, le mie responsabilità aumenteranno molto. Non è colpa tua, anzi, è che ho proprio bisogno di restare tranquillo». Andrea sollevò le spalle e allargò appena le mani. Poi, con studiata lentezza, congiunse la punta delle dita e abbassò lo sguardo. «Probabilmente avrò così tanto da fare che…».

    Lo stronzo ha bisogno di restare da solo, lo stronzo ha bisogno di restare tranquillo. Lo stronzo.

    Dio, aveva voglia di piangere. Reclinò appena il capo e lasciò che lo sguardo vagasse alla sua destra. Due donne a un tavolino, una colonna, scaffali con lunghe file di bottiglie, un uomo aggrappato al bancone.

    Dio, aveva voglia di urlare. Riportò l’attenzione su Andrea, ma l’immagine dell’uomo era sfocata. Percepì una lieve pressione sulla mano posata sul tavolo, e una

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