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L'uomo
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E-book391 pagine6 ore

L'uomo

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Info su questo ebook

Squire Norman aspetta un erede e in lui si è formata la granitica certezza che si tratterà di un maschio: lo chiamerà Stephen, come il padre e come tutti i primogeniti della casa, e verrà educato per amministrare con saggezza, responsabilità e giustizia la vasta proprietà di famiglia. Rispettato e benvoluto come il padre, diventerà un giorno il bastone della vecchiaia dei genitori e, al momento opportuno, erediterà tutta la fortuna e il buon nome della casa. Ma il nascituro è una femmina. Morendo di parto, la madre affida la bambina alle cure del marito: che la piccola sia per lui il figlio maschio tanto desiderato, che la chiami Stephen e la cresca preparandola ad affrontare la vita con la forza di un uomo. Ma per combattere le convenzioni dell’epoca, Stephen avrà bisogno di usare tutta la sua femminilità…
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2021
ISBN9788892966468
L'uomo
Autore

Bram Stoker

Bram Stoker (1847–1912) grew up in Ireland listening to his mother's tales of blood-drinking fairies and vampires rising from their graves. He later managed the Lyceum Theatre in London and worked as a civil servant, newspaper editor, reporter, and theater critic. Dracula, his best-known work, was published in 1897 and is hailed as one of the founding pieces of Gothic literature.  

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    Anteprima del libro

    L'uomo - Bram Stoker

    GEMME

    frontespizio

    Bram Stoker

    L’uomo

    Titolo originale dell’opera:

    The Man

    Traduzione: Sara Ricci

    ISBN 978-88-9296-646-8

    © 2012 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Un primo sguardo

    «Preferirei essere un angelo, piuttosto che essere Dio!»

    La voce risuonò chiaramente attraverso il biancospino. Il giovane e la ragazza che sedevano insieme sulla bassa pietra tombale si guardarono. Avevano già sentito le voci di due bambine che parlavano, ma non avevano fatto caso a cosa dicessero: fu l’espressività di questa frase, non il suo suono, ad attirare la loro attenzione.

    La ragazza si portò l’indice alle labbra per imporre il silenzio e l’uomo annuì; rimasero seduti, immobili come topi, mentre le bambine continuavano a parlare.

    La scena avrebbe reso felice il cuore di un pittore. Un vecchio cimitero. La chiesa bassa dal campanile a pianta quadrata, con lunghe bifore e trifore, la pietra grigio ocra resa ruvida dal tempo e ammorbidita nel colore dai licheni. Attorno si raggruppavano diverse lapidi, inclinate in tutte le direzioni. Dietro la chiesa, una fila di tassi contorti e nodosi.

    Il cimitero era pieno di splendidi alberi. Su un lato, un magnifico cedro; sull’altro, un grandioso faggio rosso. Qua e là tra le tombe e le lapidi, numerose e bellissime piante in fiore crescevano tra la lunga erba verde. Il laburno brillava nella luce del sole di quel pomeriggio di giugno; il lillà, il biancospino e l’olmaria a ciuffi bordavano il limitare del pigro ruscello e mescolavano la loro intensa dolcezza in una fragranza intorpidita. Le mura grigio ocra, a tratti sbriciolate, erano verdi di lingue di cervo raggrinzite; sulla sommità crescevano garofani dei poeti, ed erano ricoperte di sempreverdi, muschio e fiori di campo sparsi, la cui dolcezza deliziosa disponeva alla quiete sonnolenta dell’estate perfetta.

    In mezzo a tutta quella massa di colore rilucente, le due giovani figure sedute sulla vecchia tomba grigia balzavano all’occhio. L’uomo indossava i classici abiti da caccia: giacca rossa, cravatta bianca, cappello nero, calzoni alla cavallerizza bianchi e stivali. La ragazza era una delle più ricche, più floride eppure delicate figure su cui l’occhio di un uomo poteva indugiare. Vestiva un abito da amazzone di tela scarlatta, e un cappello nero sbilanciato in avanti dall’abbondanza di capelli rosso-oro raccolti al di sotto. Attorno al collo portava una sciarpa di batista bianca, a mo’ di cravatta da uomo, allacciata stretta, che si immergeva in un gilet spigato, bianco come la neve e con i bottoni dorati. Mentre sedeva con la lunga gonna raccolta sul suo braccio sinistro, i suoi minuscoli stivali da cavallo neri apparivano al di sotto. I guanti erano di pelle di daino bianca, e anche il frustino era rivestito di pelle bianca, e aveva il manico d’avorio avvolto da un nastro dorato.

    Seppure avesse soltanto quattordici anni, la signorina Stephen Norman prometteva uno splendore folgorante; era una bellezza di un raro carattere composito. In lei, i diversi tratti della sua stirpe venivano alla luce. La mascella solida, con il mento più largo e quadrato di quanto non sia solito per una donna, l’ampia fronte raffinata e il naso aquilino segnalavano l’alta discendenza dai sassoni attraverso i normanni. La magnifica massa di capelli rossi, del vero colore della fiamma, mostrava il sangue di altri antichi antenati nordici e si intonava bene con le curve voluttuose delle sue labbra piene, di colore cremisi. Gli occhi neri dai riflessi viola, le sopracciglia e le ciglia corvine, la linea raffinata delle narici parlavano del sangue orientale delle spose di nascita esotica dei crociati. Era già alta per la sua età, e c’era qualcosa nel suo essere esile che segnalava lo sviluppo precoce di una figura davvero elegante. Gambe lunghe, così come il collo, dritto come una lancia, con la testa in elegante e orgoglioso equilibrio, simile a un giglio sul suo stelo.

    Stephen Norman certamente portava in sé la promessa di una splendida maturità femminile. Orgoglio, fiducia nei propri mezzi e padronanza di se stessa erano marcati in ogni tratto di lei, nel suo portamento e nei suoi movimenti, anche i più lievi.

    Con lei c’era Harold An Wolf, di circa cinque anni più grande: per quei cinque anni in più e per certe sue qualità, da lungo tempo era per lei un mentore. Alto sull’uno e novanta, aveva petto ampio, spalle larghe, fianchi snelli, braccia lunghe e mani grandi. Possedeva quella bella presenza forte, con il collo ben bilanciato e la testa a guardare avanti, tipica dell’atleta di successo.

    I due sedevano in silenzio, ascoltando. Attraverso il quieto brusio del pomeriggio giungevano le voci delle due bambine. Fuori dal cancelletto all’ingresso del cimitero, sotto l’ombra dei rami ampi del cedro, i cavalli ogni tanto davano qualche zampata a terra, quando le mosche li infastidivano. Gli staffieri erano in sella, uno teneva l’arabo grigio dagli arti delicati, l’altro il possente cavallo nero.

    «Preferirei essere un angelo, piuttosto che essere Dio!»

    La bambina che aveva fatto questa osservazione era un perfetto esempio di allieva della scuola domenicale del villaggio. Occhi azzurri, guance rosa, gambe cicciottelle, aveva i capelli castani legati in una solida crocchia con un nastro rosso ciliegia tutto spiegazzato. Una semplice occhiata alla bambina avrebbe soddisfatto anche il più scettico, riguardo alla sua buona salute. Pur senza esserne in alcun modo compiaciuta, era raggiante di soddisfazione per la sua buona condotta. Era una bambina del popolo, una di quelle tirate su presto: un aiuto per sua madre, un bell’angelo per suo padre, una piccola mamma per i suoi fratellini e sorelline. Candida nella mente e nel corpo, convinta dei propri mezzi, piena di fede, gioviale.

    L’altra bambina era più carina, ma di un tipo più cocciuto; più emotiva, meno inquadrata e infinitamente più capace di farsi valere. Capelli e occhi neri, carnagione scura, bocca grande, naso all’insù; era il tipo che impersonava l’essenza della natura sfrenata, impulsiva, emozionale, sensuale. Un occhio attento avrebbe saputo che già nei primi anni del suo essere donna avrebbe corso qualche inevitabile pericolo. Sembrava stupita dall’abnegazione che comportava l’affermazione della sua compagna; dopo una pausa, replicò: «Io no! Io vorrei essere al di sopra di ogni cosa e dare ordini agli angeli, se lo desidero. Non riesco a immaginare, Marjorie, perché preferiresti prendere ordini invece di darli».

    «Perché è così e basta, Susan. Non voglio dare ordini; piuttosto obbedisco. Dev’essere davvero tremendo dover pensare così tanto alle cose, quando vuoi che sia tutto fatto a modo tuo. E in più, non mi piacerebbe dover giudicare!»

    «Perché no?» La voce era aggressiva, sebbene fosse anche pensierosa.

    «Oh, Susan. Pensa soltanto al dover punire; perché la giustizia ha ovviamente bisogno della punizione quanto della lode. Ora, un angelo ha una vita così bella: aiuta la gente, la conforta, e porta il sole dov’è buio. Fa cadere la rugiada fresca ogni mattina; fa crescere i fiori, porta i bambini e li custodisce finché le loro mamme non li trovano. Certo, Dio è molto buono, molto dolce e molto misericordioso, ma, oh, dev’essere anche davvero terribile.»

    «Fa lo stesso, io preferirei essere Dio e poter fare tutto!»

    Poi le bambine si spostarono e finirono fuori dalla portata delle loro orecchie. I due seduti sulla tomba continuarono a guardarle. La prima a parlare fu la ragazza, che disse: «Tutto questo è molto dolce e buono, da parte di Marjorie; ma sai, Harold, mi piace di più l’idea di Susie».

    «Che idea era, Stephen?»

    «Come, non hai sentito che diceva: vorrei essere Dio e poter fare tutto?»

    «Sì» disse dopo averci riflettuto un momento. «È una buona idea, in astratto; ma dubito che sia un’idea così felice nella pratica, a lungo andare.»

    «Dubiti che sia un’idea felice? Andiamo! Cosa potrebbe esserci di meglio, dopotutto? Non è abbastanza bello essere Dio? Cosa vuoi di più?»

    Il tono della ragazza era scherzoso, ma i suoi grandi occhi neri brillarono con un pensiero di sincerità dietro il divertimento. Il giovane scosse la testa con un sorriso di gentile tolleranza mentre rispondeva.

    «Non è questo – di sicuro tu dovresti saperlo. Sono abbastanza ambizioso, è cosa nota; ma ci sono limiti nel soddisfare perfino me. Comunque, non sono sicuro che quella brava piccina non avesse ragione. Sembra che in qualche modo abbia trovato una verità più grossa di quanto lei sospettasse: Pensa soltanto a dover giudicare

    «Non ci vedo niente di difficile in questo. Chiunque può dare giudizi imparziali!»

    «Perdonami» rispose lui «forse non c’è niente di difficile se si tratta di un uomo.»

    C’era un’aperta aria di sfida negli occhi della ragazza quando chiese: «Un uomo! Perché un uomo? Non può essere imparziale anche una donna?».

    «Be’, suppongo che dovrebbe essere così, in teoria. In pratica, però, no.»

    «E perché no, di grazia?»

    Il semplice suggerire una qualche inferiorità della donna come tale suscitò un immediato antagonismo. Il suo compagno mascherò un sorriso, mentre rispose deliberatamente: «Perché, mia cara Stephen, l’Onnipotente ha stabilito che la giustizia non sia una virtù che le donne possono praticare. Ascolta, non sto dicendo che le donne siano ingiuste. Al contrario, quando non sono in ballo interessi a loro cari, riescono a esercitare una giustizia così imparziale che per un uomo è agghiacciante. Ma la giustizia in astratto non è una virtù qualunque: dev’essere piena di riguardo, ma severa, e dev’essere superiore agli interessi di qualunque tipo e di qualunque persona…».

    La ragazza lo interruppe eccitata: «Non sono per niente d’accordo con te. Non sei in grado di fare un esempio in cui le donne siano ingiuste. Non intendo, certo, singoli esempi individuali, ma classi di casi per cui l’ingiustizia è un’abitudine».

    Il sorriso che finora era stato represso affiorò adesso inconsapevolmente sulle labbra dell’uomo, in un modo che aggravò e rese più intensa l’indignazione della ragazza.

    «Te ne faccio un po’» disse lui. «Hai mai sentito di una madre imparziale verso un ragazzino che ha battuto il figlio a scuola?»

    La ragazza replicò quietamente: «I maltrattamenti e le prepotenze sono materia per le punizioni, non per la giustizia».

    «Oh, non intendevo battere nel senso di fare a pugni. Intendevo vincere i premi per cui anche il figlio gareggia; essere più bravo di lui in classe; mostrare più capacità nella corsa o nel cricket o nel nuoto, o in una qualsiasi altra forma di competizione in cui gareggiano i ragazzini.»

    La ragazza ci pensò su, poi disse: «Be’, potresti aver ragione. Non ti do completamente ragione, ma ammetto che questo punto non è a mio favore. Comunque hai potuto farmi l’esempio di un unico caso».

    «Un caso piuttosto comune. Pensi che quel giudice di Galway, quello che in mancanza di un boia impiccò suo figlio con le proprie mani, avrebbe fatto lo stesso se fosse stato una donna?»

    La ragazza rispose immediatamente: «Francamente, no. Non credo che sia ancora nata la madre che possa fare una cosa del genere. Ma questo non è un caso comune, non trovi? Non ne hai altri?».

    L’uomo fece una pausa, poi disse: «Ce n’è un altro, ma non credo che potrei entrare nei dettagli con te».

    «Perché no?»

    «Be’, dopotutto, Stephen, sei ancora una ragazzina e non dovresti saperle certe cose.» La ragazza rise.

    «Ah! Allora, se è qualcosa sulle donne, di sicuro una ragazza, anche se giovane come me, ne sa qualcosa di più o perlomeno indovina più cose di quante possa indovinarne un qualsiasi giovane uomo. Comunque, di’ quel che pensi e io ti dirò chiaramente se sono d’accordo – cioè se una donna può essere giusta in una materia del genere.»

    «Per farla breve, il punto è questo: è possibile per una donna essere giusta verso un’altra donna, o verso un uomo, quando siano coinvolti o il suo sentimento o una colpa dell’altra persona?»

    «Non vedo perché no. Nel primo caso, sicuramente l’orgoglio dovrebbe assicurare che ci sia giustizia, mentre nel secondo lo farà la consapevolezza di essere superiori.»

    Il giovane scosse la testa: «Orgoglio e consapevolezza di superiorità! Non direi che sono la stessa cosa. Ma che lo siano o no, se ci si dovesse basare su uno di questi, ho paura che le bilance della giustizia andrebbero regolate, e la sua spada dovrebbe essere spuntata, nel caso la punta dovesse rivolgersi contro di lei. Penso che l’orgoglio, sebbene possa essere un valido principio guida con te, sarebbe nella media un fallimento. Comunque, dato che in ogni caso sarebbe una regola soggetta a molte eccezioni, lascio perdere».

    Harold guardò il suo orologio e si alzò. Stephen lo seguì; trasferendo il frustino nella mano che sosteneva la gonna, prese il braccio di lui con la mano destra, in quel modo carino in cui una giovane va a braccetto con quelli più grandi di lei. Insieme uscirono dal cancelletto. Lo staffiere avanzò con i cavalli. Stephen accarezzò la sua cavalla e le diede una zolletta di zucchero. Poi mise il piede nella mano che Harold aveva già prontamente teso e saltò in sella con leggerezza. Harold si mise in sella da solo con la destrezza di un cavaliere consumato.

    Mentre i due cavalcavano sulla strada, mantenendosi dal lato ombroso sotto gli alberi, Stephen disse piano, quasi tra sé, come se la frase si fosse impressa nella sua mente: «Essere Dio e poter fare tutto!».

    Harold continuò a cavalcare in silenzio. Il brivido di una vaga paura si impadronì di lui.

    Capitolo

    1

    Stephen

    Stephen Norman di Normanstand era rimasto scapolo fino alla mezza età, quando si rese improvvisamente conto che mancava un erede diretto per la sua grande proprietà. Dunque, con la sua risolutezza solita, si mise a cercar moglie.

    Era amico intimo del loro vicino, squire Rowly, fin dal tempo del college. Erano stati spesso ospiti in casa l’uno dell’altro, com’è ovvio, e la sorella più giovane di Rowly – quasi una generazione più giovane di lui, e il solo frutto del secondo matrimonio del padre – era stata come una sorellina anche per lui. Nei vent’anni che erano trascorsi, lei era cresciuta ed era diventata una giovane donna dolce e molto bella. Ma in tutti questi anni, seppure con la costante opportunità che una stretta amicizia dava di frequentarsi, il sentimento di lui per lei non era mutato. Squire Norman sarebbe rimasto sorpreso se gli avessero chiesto di descrivere Margaret Rowly: si sarebbe trovato costretto a presentare il ritratto di una donna, non più di una bambina.

    Comunque, ora che i suoi pensieri erano orientati a cercare una donna perché fosse sua moglie, realizzò che Margaret rientrava nella categoria di quello che cercava. Il suo consueto carattere deciso fece il suo corso. Il sentimento da fratello lasciò il posto a qualcosa di più forte e forse più egoista. Ancora prima di rendersene conto, si era perdutamente innamorato della sua bella vicina.

    Norman era un bell’uomo, solido e piacevole; i suoi quarant’anni li portava in maniera così leggera che la sua età non era mai stata un problema per le donne. A Margaret era sempre piaciuto e lei aveva sempre riposto fiducia in lui; era il fratello maggiore che non aveva l’obbligo di dover fare rimproveri. La presenza di lui era sempre stata una gioia; e la femminilità della giovane Margaret, prima inconsapevolmente, poi consciamente, aveva risposto alle aperture dell’uomo e il suo consenso fu presto ottenuto.

    Quando a tempo debito si seppe che era in arrivo un erede, squire Norman considerò scontato che sarebbe nato un maschio, e si aggrappò all’idea così tenacemente che la moglie, che lo amava profondamente, lasciò perdere gli avvertimenti e le proteste, dopo che una volta aveva tentato di metterlo in guardia dal riporre troppa fiducia in una speranza che poteva essere infondata. Aveva visto come sarebbe stato amaramente deluso se fosse nata una bambina. Lui, del resto, era talmente convinto della sua idea che lei decise di non parlarne più. Dopotutto, poteva pure nascere un maschietto: le probabilità erano identiche. Lo squire non avrebbe dato ascolto nemmeno a qualcun altro; così, mentre il tempo passava, lui andava sempre più convincendosi fermamente della cosa. Le sue decisioni le prendeva basandosi sul fatto che avrebbe avuto un figlio maschio. Il nome, chiaramente, era stato deciso. Stephen era stato il nome di tutti gli squire di Normanstand per generazioni – tanto indietro nel tempo fino a dove arrivavano i registri; e ovviamente anche il nuovo erede si sarebbe chiamato Stephen.

    Come tutti gli uomini di mezza età con mogli giovani, Stephen si faceva sempre più ansioso mentre il tempo del parto si avvicinava. Preda di quest’ansia per la moglie, smise di pensare attivamente alla sua fiducia in un figlio maschio, e questa finì passivamente nelle certezze. Infatti, l’idea di avere un maschio era così radicata nella sua mente che non era disturbata neppure dall’ansia per la moglie che amava come un idolo.

    Quando invece di un maschio nacque una femmina, il medico e l’infermiera, che erano a conoscenza del modo in cui lui vedeva la faccenda, tennero per un po’ nascosto alla madre il sesso del bambino. Lady Norman era così debole che il medico temeva che le avrebbe fatto male caricarla anche dell’angoscia di pensare a come il marito avrebbe sopportato la delusione. Così, il dottore andò a cercare lo squire nel suo studio e andò direttamente al punto.

    «Bene, squire, congratulazioni per la nascita dell’erede!»

    Norman fu colpito dall’uso della parola erede, ma la causa principale della sua agitazione si manifestò nella sua prima domanda.

    «E mia moglie come sta, dottore? Sta bene?»

    Il nuovo nato, dopotutto, era di secondaria importanza! Il dottore respirò più liberamente; quella domanda aveva reso più lieve il suo compito. Ci fu quindi più sicurezza nella sua voce quando rispose: «Il peggio per tua moglie è passato, ma sono ancora molto preoccupato. È davvero debole. Ho paura che qualsiasi cosa possa sconvolgerla».

    La voce dello squire arrivò veloce e decisa: «Non dovrà essere sconvolta da nulla! E ora, dimmi di mio figlio…». Pronunciò quell’ultima parola con orgoglio, quasi timidamente.

    «Tuo figlio è una bambina!»

    Ci fu un silenzio così lungo che il dottore iniziò a preoccuparsi. Squire Norman restava seduto fermo; la mano destra che era poggiata sulla scrivania davanti a lui si chiuse in un pugno così stretto che le nocche divennero bianche e le vene rosse. Dopo un lungo, lento respiro, disse: «E lei, mia figlia, sta bene?».

    Il dottore rispose con gioviale prontezza: «Splendidamente! Non ho mai visto una bambina più sana in tutta la mia vita. Sarà una gioia e un onore per voi!».

    Lo squire rispose di nuovo: «Cosa ne pensa sua madre? Immagino sia molto orgogliosa di lei».

    «Non sa ancora che è una bambina. Ho pensato fosse meglio non dirglielo prima di averlo detto a te.»

    «Perché?»

    «Perché… perché… Norman, vecchio amico mio, tu lo sai perché! Eri determinato ad avere un figlio maschio; e so quanto potrebbe addolorarsi quella giovane, dolcissima moglie e madre a sentire la tua delusione. Voglio che la notizia le arrivi per prima dalle tue labbra, così potrai assicurarle che sei felice che vi sia nata una bambina.»

    Lo squire allungò la sua grande mano e la poggiò sulla spalla dell’altro. La sua voce era quasi incrinata quando disse: «Grazie, vecchio mio, per aver pensato a questo. Sei davvero un amico. Quando posso vederla?».

    «A dire la verità, non sarebbe ancora il momento. Però considerato che sa quello che ti aspettavi, potrebbe essere inquieta fino a che non le diamo la notizia certa. Quindi, penso sia meglio andare subito.»

    Tutta la forza e l’amore di Norman si allearono per questo compito. Chinandosi a baciare la sua giovane moglie, c’era vero calore nella sua voce mentre diceva: «Dov’è la mia cara bambina, così che possa prenderla in braccio?».

    Per un istante ci fu un brivido nel cuore della madre perché le sue speranze erano state completamente deluse; ma poi arrivò la gioia, nel vedere che suo marito, il padre della sua bambina, era contento. Il suo volto pallido si tinse di rosso come un’alba celestiale, quando avvicinò a sé la testa del marito per baciarlo.

    «Oh caro» disse «sono così felice che tu sia contento!» L’infermiera prese con delicatezza la mano della madre e la portò verso la bambina, mentre la accomodava tra le braccia del padre.

    Lui strinse la mano della madre e baciò la fronte della bambina.

    Il dottore lo toccò gentilmente sul braccio e gli fece cenno di venir via. Lasciò la stanza con passi cauti, guardando indietro mentre camminava.

    Dopo cena parlò di varie cose con il dottore, ma poi chiese: «Credo, dottore, che non ci sia nessuna regola per cui il primo figlio stabilisce il sesso dei successivi nati in famiglia, vero?».

    «No, certo che no. Altrimenti come potremmo vedere bambini e bambine insieme in una stessa famiglia, come quasi sempre avviene? Ma, amico mio» proseguì «non devi portare troppo avanti le speranze. Devo dirti che tua moglie è ben lontana dall’essere una donna forte. Perfino adesso non sta così bene come vorrei, e già potrebbe esserci un qualche peggioramento…»

    Lo squire balzò impetuosamente in piedi e disse subito: «E allora cosa stiamo ad aspettare qui? Non c’è nulla che si può fare? Facciamo in modo di avere l’aiuto migliore, il miglior parere del mondo».

    Il dottore alzò una mano.

    «Ora come ora non si può fare nulla. Ho soltanto paura.»

    «E allora teniamoci pronti nel caso le tue paure dovessero essere giustificate! Chi sono i migliori a Londra per aiutarci in un caso come questo?» Il dottore menzionò un paio di nomi; e in pochi minuti un messaggero a cavallo galoppava verso Norcester, dove c’era il telegrafo più vicino. Il messaggero serviva per richiedere un treno speciale, se necessario. Poco dopo, il dottore tornò a visitare la sua paziente. Dopo una lunga assenza ritornò, pallido e agitato. Norman si sentì sprofondare il cuore quando lo vide e proruppe in un gemito quando il dottore disse: «Sta molto peggio! Temo davvero che potrebbe lasciarci prima di domattina!».

    La voce di solito forte dello squire si era velata. Fu con un rauco sussurro che disse: «Posso vederla?».

    «Non ancora, in questo momento dorme. Potrebbe star meglio quando si sveglierà: in quel caso la potrai vedere. Ma se non sarà così…»

    «Se non sarà così?» La voce non era più la sua.

    «Allora ti manderò a chiamare immediatamente!»

    Il dottore ritornò alla sua veglia. Lo squire, solo, si lasciò cadere in ginocchio, la faccia tra le mani: l’intensità del suo dolore gli scuoteva le grandi spalle.

    Passò un’ora, forse più, prima che sentisse passi frettolosi avvicinarsi. Balzò alla porta.

    «Allora?»

    «È meglio che tu venga subito.»

    «Sta meglio?»

    «Ahimè, no. Ho paura che i suoi minuti siano contati. Fatti coraggio, caro amico mio! Il Signore vi sosterrà in questo momento così amaro. Adesso, tutto ciò che puoi fare è rendere felici i suoi ultimi istanti.»

    «Lo so! Lo so» rispose con una voce così calma che il dottore ne rimase stupito.

    Nel momento in cui entrarono nella stanza, Margaret era assopita. Quando i suoi occhi si aprirono e trovò suo marito accanto al letto, un sorriso le illuminò il volto: ma, purtroppo, si mutò subito in un’espressione di dolore. Gli fece cenno di accostarsi di più. Lui si inginocchiò e poggiò la testa sul cuscino accanto a lei; la cinse con le braccia come se la sua devozione e la sua forza potessero proteggerla da ogni male, come un’armatura. La voce di lei arrivò in un singulto fioco: stava chiamando a raccolta tutte le sue forze per poter parlare.

    «Oh caro, caro marito mio, sono così triste di doverti lasciare! Mi hai sempre reso così felice… Ti amo così tanto! Perdonami, amore, per il dolore che ti darò partendo. Oh Stephen, io so che ti prenderai cura della nostra piccolina – tua e mia – quando non ci sarò più. Non avrà una madre: dovrai essere per lei padre e madre.»

    «La porterò sempre nel profondo del mio cuore, tesoro mio, insieme a te.» Riusciva a stento a parlare dall’emozione.

    Margaret proseguì: «E… oh, mio caro, non soffrirai per il fatto che non sarà un maschio a portare avanti il tuo nome?». E a un tratto nei suoi occhi sfolgorò una luce improvvisa; la sua voce, seppure debole, esultò mentre diceva: «Lei sarà la tua unica figlia; fa’ che sia anche tuo figlio! Chiamala con il nome che entrambi amiamo!».

    Lui le rispose alzandosi e appoggiando la mano molto teneramente sulla bambina: «Dolce moglie mia, questa cara creatura che porta in petto la tua anima, sarà mio figlio, il solo figlio che io mai avrò. Che Dio onnipotente mi aiuti, possa io amarla tutta la vita tanto quanto tu e io ci amiamo!».

    Margaret posò la sua mano su quella, accarezzando allo stesso tempo suo marito e sua figlia. Poi sollevò l’altro braccio, debole, e cinse il collo del suo uomo. Le loro labbra si incontrarono. L’anima le volò via con quest’ultimo bacio.

    Capitolo

    2

    Il cuore di un bambino

    Per alcune settimane, dopo la morte della moglie, squire Norman fu sopraffatto dal dolore. Compì un enorme sforzo, tuttavia, per tornare con coraggio alla routine della sua vita; ci riuscì a tal punto che esteriormente sembrava sopportare la grave perdita con rassegnazione. Ma, dentro di sè, aveva solo il vuoto.

    La piccola Stephen aveva trovato il modo ideale di mettere radici profonde nel cuore di suo padre. Quel piccolo fascio di nervi che lui prendeva in braccio doveva aver compreso che in tutto ciò che vedeva, sentiva e toccava non c’era altro che amore, sostegno e protezione. A poco a poco, alla fiducia seguirono le aspettative: se per caso il padre tardava ad arrivare nella nursery, la bimba diventava sempre più impaziente e lanciava occhiate intense e frementi alla porta. All’arrivo di lui, la gioia era piena.

    Il tempo passava veloce, e Norman si rendeva conto del suo scorrere soltanto osservando crescere la sua creatura. La semina e il raccolto, le molte fasi del ciclo della natura erano un fatto talmente comune per lui, e lo erano state per così tanti anni, che non provava nessuna sorpresa nel confrontare tra loro i mutamenti delle stagioni. Ma la bambina era la sola che avesse mai avuto. Ogni cambiamento in lei non soltanto era una nuova esperienza in sé e per sé, ma gli veniva naturale confrontarlo con ciò che c’era prima. I cambiamenti che iniziavano a segnalare la differenza di sesso erano autentici shock per lui, perché giungevano inaspettati. Alla prima alba dell’infanzia, l’abito non ha particolare importanza; per i suoi occhi di uomo il sesso era perso nella giovane età. Ma, a poco a poco, giunsero i minuscoli cambiamenti che le convenzioni avevano stabilito. E, con ogni cambiamento, squire Norman si rendeva conto sempre più che la sua creatura era una donna. Una minuscola donna, questo è vero, che richiedeva più cura e protezione di una grande; ma pur sempre una donna. Le piccole tenere mosse, le carezze entusiaste, l’aggrapparsi e il tenersi delle mani infantili, i sorrisini furbetti e i sospiri e le moine non erano altro che un ripetersi in piccolo della storia d’amore di molti anni prima. Il padre, dopotutto, leggeva quello stesso libro in cui, da innamorato, aveva trovato la conoscenza.

    Dapprima, nell’amore per la sua bambina trovava spazio un certo risentimento per il fatto che fosse femmina. La sua vecchia speranza di avere un maschio era radicata troppo profondamente in lui perché potesse sbarazzarsene facilmente. Ma a mano a mano che si rendeva evidente il dato di fatto, e cresceva l’abitudine nel prenderne atto, arrivò anche una certa rassegnazione, che è la prima tappa verso la soddisfazione. Ma non abbandonò mai del tutto, né allora né più tardi, l’antico credo secondo cui Stephen fosse in realtà un figlio maschio. Se anche gli fosse venuto in mente di dubitarne, il ricordo degli occhi di sua moglie, della sua voce flebile, della sua speranza e della sua fede mentre gli dava in braccio la creatura, non avrebbero permesso al dubbio di attecchire.

    Questo credo dipinse tutta la sua vita dopo la nascita di Stephen e plasmò la sua linea di condotta nel crescere la bambina. Se l’avesse cresciuta come suo figlio e sua figlia allo stesso tempo, doveva essere da subito educata sia alle buone maniere maschili che a quelle femminili. Questo, visto che lei era figlia unica, non fu una cosa difficile da ottenere. Avesse avuto fratelli e sorelle, le questioni della differenza di sesso si sarebbero subito poste a un livello evidente.

    Ci fu una persona che obiettò fortemente a ogni deviazione dalle regole consuete per l’educazione di una ragazza. Si trattava della signorina Laetitia Rowly, che con il tempo aveva preso, per quanto un ruolo del genere possa essere preso da altri, il posto della madre della bambina. Laetitia Rowly era una giovane zia dello squire Rowly di Norwood: di circa sedici anni più grande di lui, era la sorella più giovane del padre. Quando la seconda moglie del vecchio squire morì, Laetitia, allora una vera e propria zitella di trentasei anni, prese in carico la giovane Margaret. Quando Margaret aveva sposato squire Norman, la signorina Rowly ne fu ben soddisfatta, dato che conosceva Stephen Norman da una vita. Anche se avrebbe preferito uno sposo più giovane per la sua nipote preferita, sapeva che sarebbe stato difficile trovare un uomo migliore o uno di posizione più appetibile. Inoltre, sapeva che Margaret lo amava: la donna che non ha mai trovato nella propria vita la felicità di un amore ricambiato trova piacere nel fascino idilliaco del vero amore, anche quando il corteggiatore è un uomo di mezza età. Si trovava in viaggio in Estremo Oriente, quando la notizia della morte di Margaret la raggiunse in ritardo. Tornata a casa, annunciò la sua intenzione di prendersi cura della figlia di Margaret esattamente come si sarebbe presa cura di Margaret stessa. Per varie ragioni, questo non fu possibile. Lei non era abbastanza anziana per andare a vivere a Normandstand senza suscitare pettegolezzi e lo squire rifiutava nella maniera più assoluta l’idea che sua figlia vivesse in un posto diverso dalla propria casa. La supervisione sull’educazione della bambina, esercitata a una tale distanza e così sporadicamente, non poté quindi essere né completa né accurata.

    Anche se Stephen era una bambina dolce, era anche caparbia e molto presto manifestò un carattere dominante. Questo era un segreto piacere per il padre che, mai perdendo di vista la sua vecchia idea per cui Stephen dovesse essere sia figlio che figlia, traeva godimento e orgoglio da ogni manifestazione della sua volontà imperiosa. L’istinto acuto dell’infanzia, che

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