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La peste scarlatta
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E-book81 pagine1 ora

La peste scarlatta

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Info su questo ebook

Un racconto post-apocalittico
Jack London è un visionario, un "creatore" di storie, un inventore che ad ogni tratto di penna riesce a dipingere un mondo a se stante: profetico, sarà l'antesignano di un genere che vedrà la sua fortuna durante tutto l'arco della storia ma, soprattutto, in questi nostri giorni dove il germe, invisibile nemico dell'uomo, si cela dietro ogni paura, continuamente affrontato dalla scienza medica ma mai del tutto sconfitto.
“La peste scarlatta”, racconto post-apocalittico, ambientato nel 2073, in un'epoca successiva all'arrivo di una grande pestilenza, detta “Morte Scarlatta”, affronta uno dei temi più cari a London, quello della lotta per la vita, nella quale sembra prevalere sempre il più forte, il più spietato, con una natura che piega e umilia l'uomo e la sua morale, mostrandogli che a vincere sono proprio coloro che sanno farsi creature selvagge e ignorare i sentimenti più nobili.
A raccontare la storia del declino della civiltà ad un gruppo di giovani barbari suoi discendenti, sulla spiaggia di una desertica San Francisco, è l'ultimo uomo a ricordare quanto accaduto, l'ormai anziano James Howard Smith, ex-insegnante universitario, sopravvissuto solo perché fra i rarissimi fortunati, solo uno su un milione, ad essere immune al terribile morbo.
Un ottimo racconto, la cui lettura è indispensabile, per capire la visione del mondo da parte di uno scrittore americano così riconosciuto come Jack London. Non solo: non sarà forse un accenno al capitalismo imperialista il gran Consiglio dei Magnati dell’Industria di cui più volte parla il protagonista?
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2019
ISBN9788833260624
Autore

Jack London

Jack London (1876-1916) was an American novelist and journalist. Born in San Francisco to Florence Wellman, a spiritualist, and William Chaney, an astrologer, London was raised by his mother and her husband, John London, in Oakland. An intelligent boy, Jack went on to study at the University of California, Berkeley before leaving school to join the Klondike Gold Rush. His experiences in the Klondike—hard labor, life in a hostile environment, and bouts of scurvy—both shaped his sociopolitical outlook and served as powerful material for such works as “To Build a Fire” (1902), The Call of the Wild (1903), and White Fang (1906). When he returned to Oakland, London embarked on a career as a professional writer, finding success with novels and short fiction. In 1904, London worked as a war correspondent covering the Russo-Japanese War and was arrested several times by Japanese authorities. Upon returning to California, he joined the famous Bohemian Club, befriending such members as Ambrose Bierce and John Muir. London married Charmian Kittredge in 1905, the same year he purchased the thousand-acre Beauty Ranch in Sonoma County, California. London, who suffered from numerous illnesses throughout his life, died on his ranch at the age of 40. A lifelong advocate for socialism and animal rights, London is recognized as a pioneer of science fiction and an important figure in twentieth century American literature.

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    Anteprima del libro

    La peste scarlatta - Jack London

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    Jack London

    La peste scarlatta

    Distopie

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Titolo originale, The Scarlet Plague, 1912

    Traduzione dall’inglese di Bruno Valli

    Prima edizione digitale: 2019

    ISBN 9788833260624

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    Table Of Contents

    LA PESTE SCARLATTA

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    LA PESTE SCARLATTA

    1

    Il sentiero correva lungo quello che un tempo era il terrapieno di una ferrovia. Ma non ci transitavano più treni ormai da molti anni. La foresta rimontava i versanti del terrapieno scavalcando il dosso, un’onda verde di alberi e di arbusti. Il tratturo era una pista di animali selvatici da seguire in fila indiana.

    A segnalare la presenza di rotaie e traversine, attraverso il tappeto di muschio spuntava qua e là un pezzo di ferro arrugginito. In un punto, una pianta dal tronco spesso venticinque centimetri, erompendo vicino a una giuntura aveva svelto l’estremità di una rotaia sollevandola in bella vista. E la rotaia si era portata dietro la traversina, trattenuta dall’arpione quanto basta per aver poi la massicciata ributtante di ghiaia e foglie marce; così adesso il legno marcio, sgretolato, si drizzava con una curiosa inclinazione. Per quanto antica, si vedeva che la ferrovia era una monorotaia.

    Un vecchio e un ragazzo avanzavano lungo quella pista. Procedevano a rilento perché il vecchio era vecchissimo, un principio di paralisi ne rendeva tremuli i movimenti, e si appoggiava con tutto il peso al bastone. A proteggerlo dal sole aveva un rudimentale zuccotto di pelle di capra. Da sotto ricadevano rade ciocche di capelli di un bianchiccio maculato. Una visiera, ingegnosamente ricavata da una larga foglia, riparava gli occhi e da lì sotto il vecchio controllava dove mettere i piedi sul sentiero, La barba, che avrebbe dovuto essere candida e che invece, come i capelli, era consunta dalle intemperie e macchiata dal fuoco degli accampamenti, gli scendeva fin quasi alla vita in ima grande matassa ingarbugliata. A coprirgli il petto e le spalle aveva come unico capo una rognosa pelle di capra. Aduste e scarnificate, le braccia e le gambe tradivano un’estrema vecchiezza, come le cicatrici, le escoriazioni e le bruciature sulla pelle denunciavano anni e anni di esposizione agli elementi.

    Il ragazzo, che camminava in testa, regolando l’impazienza dei suoi muscoli sull’incedere lento dell’anziano, indossava anche lui soltanto un capo: una pelle d’orso sbrindellata agli orli con un buco in mezzo dove infilare la testa. Avrà avuto non più di dodici anni.

    Acconciato con civetteria sopra l’orecchio esibiva un codino di maiale di fresco mozzato.

    Impugnava un arco di media grandezza e una freccia. In spalla aveva una faretra carica di frecce. Da un fodero appeso al collo con una cinghia spuntava il manico rovinato di un coltello da caccia. Il ragazzo era nero come il carbone e camminava con passo felpato, per non dire felino. In netto contrasto con la pelle cotta dal sole erano gli occhi: di un azzurro profondo, turchino, ma accorti e aguzzi come succhielli. Con fare consumato sembravano penetrare tutto quello che lo circondava. Nel procedere, il ragazzo captava anche gli odori: le narici frementi, dilatate, inviavano al cervello una sfilza ininterrotta di messaggi dal mondo esterno. Altrettanto acuto era l’udito e a tal segno esercitato da entrare in funzione automaticamente. Senza mostra di sforzo il ragazzo percepiva ogni minimo rumore nella calma regnante - percepiva e distingueva e classificava quei rumori - fosse il vento a stormire tra le foglie, il ronzio delle api e delle zanzare, il rombo lontano del mare che gli perveniva soltanto nelle pause di ristagno, o un citello che, proprio sotto i suoi piedi, spingeva una saccocciata di terra dentro l’imboccatura della tana.

    Quand’eccolo sul chi vive. Udito, vista e olfatto lo avevano simultaneamente messo in guardia. Allungando una mano all’indietro toccò il vecchio; i due si impietrirono. Di fronte, quasi in capo a un versante del terrapieno, si levò uno scricchiolio: lo sguardo del ragazzo era puntato sulla cima dei cespugli smossi. Poi un gigantesco orso grigio proruppe e, alla vista degli umani, a sua volta si arrestò di botto. Non gli piacevano, e ringhiò con disappunto.

    Il ragazzo incoccò la freccia lentamente e lentamente tese la corda. Senza mai staccare gli occhi dalla belva. Il vecchio sbirciava da sotto la foglia verde il pericolo e, come il ragazzo, mantenne la calma. La reciproca disamina durò qualche secondo; poi, ai segnali di crescente irritazione dell’orso, con un cenno della testa il ragazzo invitò il vecchio a ritrarsi dal sentiero e a discendere la scarpata. A sua volta arretrò sui propri passi, l’arco sempre teso e pronto a scoccare. Aspettarono fino a che uno schianto fra la vegetazione sul lato opposto del terrapieno li avvertì che l’orso si era rimesso in moto. Riportandosi sul sentiero, il ragazzo ghignò.

    « Bello grosso, eh Nonno? » disse gongolando.

    Il vecchio scosse il capo.

    « Ogni giorno che passa si fanno più massicci » si lagnò con un improbabile, flebile falsetto. « Oggi come oggi, se uno vuole andare a Cliff House lo fa a suo rischio e pericolo. Chi l’avrebbe mai detto ai miei tempi. Quando ero giovane io, Edwin, uomini, donne e bambini, decine e decine di migliaia, col bèl tempo venivano qui da San Francisco. E allora non c’era traccia di orsi, Anzi, erano una rarità e la gente, per vederli in gabbia, sborsava denaro ».

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