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Calpurnia: L'ombra di Cesare
Calpurnia: L'ombra di Cesare
Calpurnia: L'ombra di Cesare
E-book344 pagine4 ore

Calpurnia: L'ombra di Cesare

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Info su questo ebook

Cresciuta nello stimolante ambiente della villa paterna ai piedi del Vesuvio, meta di intellettuali e artisti, all'età di diciotto anni Calpurnia viene scelta come moglie di Cesare, e deve imparare a conciliare discrezione e presenza, a essere al di sopra di ogni sospetto senza perdere se stessa. Dopo la partenza di Cesare per la Gallia, terribili prove aspettano Calpurnia, che capisce di dover agire sempre come se il marito fosse lì al suo fianco, di doverne anzi essere l’ombra a Roma: l’ombra perfetta della luce più brillante.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2018
ISBN9788863938036

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    Anteprima del libro

    Calpurnia - Sonia Morganti

     Parte I

    Capitolo 1

    Ottobre dell’anno 694 dalla fondazione di Roma (60 a.C.), consoli Cecilio Metello e Lucio Afranio, Ercolano.

    L’autunno quell’anno pareva non voler arrivare. L’estate indugiava pigramente sulle campagne fertili e sui fianchi del monte Vesuvio, ancora verdissimi e appena velati da una leggera foschia. Il soffio tiepido del vento sfiorava il mare lucente, sciogliendosi nelle sue increspature.

    Il tempo sembrava aver miracolosamente smesso la sua corsa, ma quell’immobilità dorata e innaturale faceva crescere in lei la percezione di un cambiamento imminente.

    Nella luce piena del primo pomeriggio aveva attraversato rapidamente il giardino senza soffermarsi troppo a godere dell’aria profumata che in esso si respirava, per raggiungere in fretta la terrazza semicircolare affacciata sul Tirreno.

    Il mare ha un respiro calmo e profondo, che mi conforta.

    È sempre tacito, in fondo, il mare. Invano i gabbiani gridano, chiedendogli di scoprire i tesori che cela.

    È strano che in tanti lo temano. Ci definiamo figli di Marte e di Venere, del dio che porta morte e distruzione e della dea che devasta i cuori inconsapevoli, eppure molti di noi sono timorosi e diffidenti davanti a queste acque dai confini invisibili.

    Forse ne hanno paura perché contro i suoi cambiamenti repentini nulla può la ferrea organizzazione delle legioni. O forse perché la sua vastità e la sua mutevolezza non possono essere imbrigliate negli schemi della filosofia, come la passione d’amore, o giustificate, come la guerra. Credo che lo si tema perché somiglia al destino…

    Pensando teneva la testa lievemente inclinata e offriva il viso al vento denso di salsedine.

    Era in piedi di fianco alla statua di Diana che sembrava, come lei, voler scrutare un orizzonte più in là del visibile. 

    Restò lì da sola per un po’, persa nei suoi pensieri.

    In disparte, come preferiva rimanere quando il padre invitava nella sua villa, oltre a poeti e filosofi, anche politici. 

    Si rifiutava di giustificare la loro contemporanea presenza in casa: faticava a capire cosa mai avessero in comune quelle due categorie. I loro mondi erano divisi in maniera inesorabile come l’orizzonte che aveva davanti, dove una sottile linea più scura segnava il confine tra il blu del mare e quello del cielo. 

    Da qualche tempo il padre la guardava con occhi pensosi, immaginando, giustamente, che in lei si agitassero proprio quelle domande. E lei, che d’altra parte si era accorta di quegli sguardi, taceva e trovava così conferma ai suoi dubbi.

    Ma quel pomeriggio, no… non voleva pensarci! 

    Voleva vagare lontano con la mente, perdersi in ogni onda, fondersi mentalmente con la sua spuma, diventare vento. 

    A diciott’anni avrebbe desiderato, ancora per una volta, che i suoi pensieri vagassero sospesi nell’aria come piume, liberi da angosce, perché era giusto così, perché alla sua stessa età c’erano ragazze che avevano già lasciato il mondo mortale; e lei avrebbe dovuto godere appieno della sua giovinezza anche per loro. 

    Ne aveva parlato giorni prima con un intellettuale che spesso era ospite nella loro villa. Il suo nome era Tito Lucrezio Caro, uomo dal carattere complesso e dall’età indefinita. Le sembrava sempre attento nello sguardo, ma amaro nel pensiero. Insieme avevano discusso dell’indifferenza della natura per la sorte umana, del suo essere priva di sentimenti, così diversa quindi dagli uomini, i quali vivendo solo di subitanee passioni non facevano altro che ingannarsi.

    Sperava che venisse anche lui quella sera alla cena organizzata da suo padre: le piaceva sentirlo descrivere le sue idee alternando momenti di cupezza a sprazzi di luce. Lei, nel suo piccolo, gli augurava un grande futuro.

    «Mea domina, ti debbo acconciare… tra non molto arriveranno gli ospiti: è ora di prepararsi.» 

    La voce di Flora alla sue spalle la riscosse da quei pensieri; la sua ornatrix aveva conservato un fortissimo accento greco e il suo portamento, elegante e altero, la distingueva dalle altre ancelle. 

    «Arrivo subito.» Calpurnia si voltò e le sorrise.

    Flora ricambiò e insieme si avviarono all’interno della villa.

    Come si può stare chiusi in una stanza, quando tutta la casa è circondata da questo porticato così luminoso e profumato di mare? Come si può discutere di alleanze e scambi di potere, quando saggi e poeti siedono alla tua tavola? Qui… qui non ha senso. A Roma, forse. Eppure è ciò a cui dovrò assistere stasera.

    Flora, ignara di quei pensieri, seguì la padrona nella sua stanza e iniziò con gesti lenti e sicuri a dividerle i capelli in ciocche, pettinandogliele una per una con estrema cura.

    Basta rimuginare: è mio dovere esserci anche questa sera. Inutile chiedersi il perché. È una domanda che implicherebbe una serie infinita di risposte, senza alcuna possibilità di trovare quella corretta; peggio degli enigmi della Sfinge! Devo essere presente perché non ho fratelli né sorelle e mio padre non è intenzionato a prendere un’altra moglie. Immagino già dove mi porterà tutto questo.

    Sospirò e spalancò improvvisamente gli occhi, lasciando trasparire un lampo di inquietudine.

    «Mea domina, sei preoccupata?» chiese l’ancella.

    «No, Flora. È solo un po’ di nostalgia. Mi è tornato in mente all’improvviso un ricordo molto dolce… Ero piccola e la mamma era ancora viva. Metà della villa era in costruzione. Ricordo i papaveri che fiorivano disordinati e bellissimi nel giardino. Adoravo correre lì in mezzo. Ne sorridevano tutti; tolleravano con amore la mia vivacità. Fino a oggi, ogni pietra di questa casa è stata figlia di quei giorni, sai Flora?» rispose con un sospiro.

    «Pensi che mio padre rischi di tradire lo spirito di questo luogo?» le chiese poi a bruciapelo.

    «No, no!» disse l’ancella indietreggiando. Era spaventata dalla responsabilità di una risposta che il suo ruolo non le avrebbe permesso di dare; e comunque, non sarebbe stata in grado di farlo.

    «Se tu lo pensassi ti capirei, Flora!» disse la padrona girandosi verso l’ancella, ben determinata a portare avanti il discorso. «È cambiato molto rispetto a quando ero piccola e giocavo in riva al mare. Filodemo vive con noi da sempre e ricordo che anni fa, poverino, non sapeva chi avesse più bisogno di essere controllato, se il mio ansioso e distratto genitore o io. All’epoca papà si perdeva spesso nei suoi pensieri e i lavori per la villa erano sempre in ritardo… Ora mira al Consolato, è sempre più attivo in politica… ma continua a circondarsi di poeti e ad ampliare la biblioteca. Lo trovo un atteggiamento incomprensibile. Come si può amare l’acqua di fonte e poi tuffarsi nel fango?»

    Flora si sforzò di restare composta e distaccata. La padrona, la sua padrona, a volte diventava impetuosa. Nei suoi pensieri Flora la rappresentava spesso come le acque fresche e limpide di un ruscello; oppure le piaceva immaginarla come una ninfa che sul dorso di un delfino cavalcava la corrente degli eventi. 

    «Non amo queste contraddizioni. Ad esempio, Flora, avrai notato quanti nel mio popolo temano il mare. Ci pensavo proprio prima che tu mi chiamassi. Non hanno paura della guerra. La affrontano con l’organizzazione dei castra e delle legioni. Ma il mare non si può trattare così! E allora lo temono…»

    «Tutte queste tue elucubrazioni sono interessanti. Ma riservale agli ospiti di questa sera, Calpurnia.»

    Quella voce la fece sobbalzare dalla sorpresa: il padre era alle sue spalle, già elegante in una toga chiara. I loro sguardi si incrociarono nello specchio opaco.

    «Papà, sei già pronto… ma è prestissimo.» 

    I capelli scuri di lei, invece, erano ancora sciolti lungo la schiena, solo in parte trattenuti da pettini.

    «Ho degli impegni prima del banchetto. È comunque presto, ma approfitto della tua lentezza per dirti che sarei molto felice se tu dedicassi al tuo abbigliamento una cura maggiore del solito. La cena di questa sera è estremamente importante e formale.»

    «C’è qualcosa in particolare che dovrei sapere?»

    Pisone incassò la domanda come un colpo, una spinta delicata ma inattesa, che lo sbilanciò. Fu questione di pochi istanti: guardò il viso serio della figlia, delicato e discreto come quello della nonna, e provò tenerezza e malinconia.

    «Solo che papà ti vuole bene. E ci tiene che tu appaia sempre al meglio al suo fianco.» 

    «Questo è certo!»

    Quando il padrone si allontanò al punto che i suoi passi erano ormai un’eco lontana, Flora prese coraggio e le chiese: «Va tutto bene, mea domina?».

    «Credo proprio di no» sussurrò Calpurnia, giocando con le sue stesse dita. «Ascolta, Flora, non voglio perdere tempo. Ho bisogno di scendere in spiaggia, di rilassarmi un po’. Facciamo qualcosa di semplicissimo: una coda alta, un nodo sulla nuca. Nulla di più, va bene? Poi, proprio prima della cena, la adorneremo un po’.»

    Flora annuì, celando in sé un pizzico di frustrazione per il dover mettere da parte la propria abilità di ornatrix.

    Capitolo 2

    Il passo di Lucio Pisone era corto e rapido, tanto che gli amici lo riconoscevano già dalla camminata quando attraversava il Foro con la testa sempre affollata di pensieri, vivaci e curiosi come scoiattoli. Lucio stesso a tratti ricordava un roditore frenetico, per la sua mania di gonfiare le guance e soffiare via l’aria nei momenti di tensione.

    E in quel momento era nervosissimo.

    L’affetto della figlia era stato per Pisone di gran conforto in quegli anni di vedovanza. Senza di lei gli sarebbe stato ancora più difficile affrontare quella solitudine, che era stata l’unica scelta possibile, per lui, dopo la morte della moglie.

    Così, ancora giovanissima, Calpurnia si era trovata a essere la prima donna della casa. E, pur essendo tanto diversa dal padre, aveva finito per somigliargli e per essere, contemporaneamente, il suo perfetto contrario.

    Il legame tra genitore e figlia era fortissimo, ma critico. Pisone le chiedeva di ricoprire ruoli indispensabili per una donna secondo le tradizioni secolari di Roma: presenziare agli eventi pubblici, mostrarsi sobria e accorta davanti agli estranei, consigliare con garbo il padre in pubblico nonostante i vivaci scambi di opinioni che avevano in privato. Ma come figlio della cultura ellenistica, le faceva tante concessioni, le accordava con immensa tenerezza privilegi e una confidenza che non tutte le figlie avevano con il proprio padre.

    Così, in quel momento, Pisone soffriva: aveva progetti per lei, di nuovo ne aveva bisogno; si chiedeva come avrebbe fatto a parlarle, forse per la prima volta, come un padre romano a una figlia romana. In quel frangente non ci sarebbe stata possibilità di discussione, ma solo una decisione presa e imposta, come il costume degli avi comandava.

    Gli sarebbe mancata.

    Giunse un primo carro, ma nessuno fu annunciato: l’uomo che ne scese si diresse a passo deciso verso l’ingresso, senza guardarsi intorno. Camminava con energia, a testa bassa, avvolto in un mantello di fattura chiaramente pregiata. Aveva l’aria di chi non voleva farsi notare, ma che nel caso fosse accaduto voleva apparire in grande stile. 

    Uno schiavo, cui erano state fornite specifiche istruzioni, lo guidò verso gli studi privati del padrone.

    Pisone era già nella sua stanza ad attenderlo, leggendo distrattamente un volumen e sbuffando come suo solito, per stemperare il nervoso. Ogni tanto gettava un’occhiata oltre la soglia e tendeva le orecchie in cerca di un segno.

    L’uomo dal passo rapido e dal mantello elegante arrivò in breve e riempì la cornice della porta senza attendere che lo schiavo gli facesse strada. 

    «Salve, Lucio. Eccomi arrivato.»

    Pisone, pur attendendolo, fu percorso da una scossa di turbamento prima di rispondere al saluto.

    «Gaio Cesare, puntuale come sempre…»

    «Ho acquistato una nuova coppia di cavalli, di recente. Vere e proprie eccellenze.»

    «Accomodati.»

    «Sì, abbiamo molto da dirci e da fare.» 

    Con un gesto asciutto, Cesare si sedette e riprese: «Anche oggi ho perso tempo a discutere del nuovo accordo di cui ti accennavo».

    «Immagino che tu abbia accettato il mio invito a cena per rendermi partecipe dei progressi e valutare i margini del mio aiuto.» 

    Pisone aveva messo tutto il suo coraggio in quell’esordio così esplicito, ma dopo qualche istante anche i discorsi più ardimentosi gli sembrarono naturali. 

    «Sì e no. Ossia, per me essere tuo ospite in quest’isola di pace è sempre un piacere, tanto che fiaccherei i migliori cavalli di cui dispongo per arrivare» rispose Cesare. Il canto di una fontana in giardino sembrava volergli dare ragione. «Ma vorrei soprattutto parlarti, godendo dell’assoluta discrezione del luogo, di nuovi affari che si profilano all’orizzonte.»

    Inizia la danza, pensò Pisone. Un passo io, un passo tu. Conosciamo la musica, ormai.

    Scoprirsi così platealmente era per Cesare un invito all’interlocutore perché fosse lui a fare la prima mossa. Voleva che l’altro reagisse svelando la misura del suo interesse e del suo coraggio. Era già un esame, il cui oggetto era noto solo all’esaminatore. Con gli amici stretti, e il dubbio quasi retorico riguardava la possibilità di averne, in Senato, Cesare mostrava il suo lato più ludico, eppure Pisone avrebbe giurato sulla reale natura del suo carattere: come un gladio non è meno tagliente se avvolto in un elegante drappo di porpora, così un uomo non è meno duro se sfoggia un mantello sgargiante e il più divertito dei sorrisi.

    «Ti immaginavo amareggiato dopo quello che è accaduto al tuo ritorno dalla Spagna» commentò Lucio.

    «Ho fatto la mia scelta. In una situazione normale, avendo a che fare con persone di buon senso, non sarebbe stato necessario.» Mentre parlava, Cesare disegnava con le dita piccoli cerchi immaginari sul legno del tavolo. 

    «Non solo hai amministrato magistralmente la provincia, ma l’hai anche espansa!» riprese Pisone ammirato. «Meritavi di ricevere il Trionfo. Impedirtelo, obbligandoti a deporre la carica e le armi, è stato ignobile.»

    «Non parliamone più» chiuse il discorso Cesare. «Ho comunque ottenuto dei vantaggi: anche la scelta di deporre il comando delle legioni per dedicarmi alla politica è stata figlia della mia intuizione. Allontanarmi da Roma mi ha permesso di vedere più nitidamente molte dinamiche nelle loro vere dimensioni e correlazioni. Il Senato è marcio ormai da lungo tempo, e questo è il momento perfetto perché la mia azione si faccia più incisiva.» 

    «Il tuo periodo spagnolo non ti ha cambiato…» commentò Lucio.

    «Invece sì, sotto un certo punto di vista… Ha reso più nette, ai miei occhi, le sfumature della realtà che mi circonda. Forse è ciò che ha provato Icaro, guardando il mondo dall’alto… con la differenza che io so fin dove posso spingermi per non bruciarmi.» 

    Cesare rise della propria osservazione, scivolando così fuori da una concentrazione assorta. Cambiava spesso tono e sguardo, come se oltre che con Pisone, stesse parlando anche a se stesso. 

    «Ho avuto modo di confrontarmi di frequente con Pompeo, dal mio ritorno a Roma… aveva proprio bisogno di qualcuno con cui sfogarsi!» Alzò le sopracciglia, ammiccando.

    Lucio si schiarì la gola e si alzò, andando a riporre il volumen che aveva richiuso all’arrivo di Cesare. «È comprensibilissimo. I veterani l’hanno seguito, si sono fatti ammazzare per Roma, per la vittoria e per l’onore del loro comandante… e poi, pavidamente, il Senato li priva del diritto alla distribuzione delle terre. Frustrante per chiunque» disse.

    «Vedi, Pisone, perché mi piace parlare con te? Hai usato due espressioni che, da sole, riassumono il senso del discorso: il Senato è pavido. Manda avanti dei campioni e, al momento del loro ritorno, cerca di accollarsene i meriti frustrando le loro legittime aspettative. Come romani, certo noi agiremmo così anche senza la promessa di una ricompensa, solo per il bene della città. Non è il Senato a creare tali campioni e a poterli, quindi, disfare. Sono tali di per sé.»

    Lucio Pisone, incuriosito dalla piega presa dal discorso, si sporse verso Cesare: «Non mi sembrava che tu andassi d’amore e d’accordo con Pompeo, qualche tempo fa…».

    «Se è per questo, credo che non lo farò mai del tutto, ma in questo frangente ha la mia umana comprensione. In fondo, ci compensiamo… è strano come le caratteristiche del perfetto princeps ricadano sulla Terra come pioggia, dividendosi tra le persone… Per esempio, Pompeo ha la gloria militare. Crasso ha quella economica. Io ho il sostegno del popolo e lo spirito d’iniziativa che loro non hanno. Fossimo una sola persona…»

    «… Sarebbe rinato Alessandro.»

    «Più semplicemente, Roma avrebbe una degna guida; una spinta in più.» 

    Cesare rimase un attimo in silenzio. Fissò Pisone, serissimo e tagliente. Quando guardava così, i suoi occhi sembravano voler carpire qualcosa dal prossimo, fosse una reazione o l’anima stessa. «Strano che tu non mi chieda nulla» commentò. «Comunque, ti dirò perché sono venuto da te. Sei tra i primi a esserne informato, sono certo che saprai dimostrarmi di meritare il privilegio che ti ho accordato…»

    Uscire dallo studio di Pisone dopo quel lungo discorso fu, per Cesare, come rinascere. L’aria che si respirava in quel luogo era inimitabile. Lucio aveva scelto un posto meraviglioso per costruire la sua villa. Il profumo del mare e quello delle campagne circostanti si mescolavano secondo i capricci del vento, donando un conforto sempre diverso agli spiriti inquieti.

    Si era fatto indicare la strada e, lungo il percorso, poté apprezzare i progressi nei lavori di arredo. Un lato del peristilio era già decorato con statue di fattura notevole: era curioso di vederne l’effetto scenografico alla fine della ristrutturazione.

    In un angolo a destra del porticato si apriva una piccola porta che conduceva a scale strette, ricavate con estrema cura dalla roccia; una sorta di uscita riservata. Cesare si intenerì perché poteva immaginare chiaramente un Pisone più giovane, intento a commissionare i lavori, preoccupato della sicurezza di quei gradini che avrebbe lasciato percorrere alla sua unica figlia. E certo solo per amore di lei il padrone di casa aveva incluso nella proprietà quella minuscola spiaggia nascosta tra gli scogli; Pisone di certo non ci trovava nulla di affascinante… l’amore di un genitore non ha confini! L’avrebbe fatto lui per Giulia? Sì, per sua figlia avrebbe fatto placcare d’oro ogni gradino. Guai a Pompeo, pensò, se non l’avesse trattata con la stessa cura.

    Il vento si era alzato e il rumore delle onde gli riempì l’anima, togliendo spazio ai suoi pensieri.

    Cesare decise di non scendere: si sedette su uno dei gradini più in alto e si rilassò.

    In piedi, davanti all’acqua, c’era Calpurnia che guardava una barca lontana e seguiva con gli occhi il percorso del sole, sempre più basso. I suoi capelli erano acconciati con estrema semplicità ed era sola: segni di padronanza, di serena saggezza. 

    Anche Cesare rivolse lo sguardo verso quell’orizzonte dove, in parte, entrava anche lei.

    Capitolo 3

    Al declinare del sole gli schiavi accesero torce e lucerne all’interno e all’esterno della villa. 

    Il vento sembrava essere cambiato all’improvviso, foriero di note umide e temporalesche ancora distanti.

    Nel giardino, tra satiri di bronzo e siepi profumate, occhieggiava il mare violetto. Forse sarebbe stato proprio quello l’attimo in cui l’estate avrebbe dato il suo struggente e intensissimo addio.

    La musica aveva iniziato a risuonare. Il ronzatore, con i suoi schiocchi dolci e improvvisi, dominava la melodia di sottofondo.

    Calpurnia era vicina al padre, ma non parlava con lui. Della cena, come al solito, avrebbero discusso in seguito. Preferiva ascoltare Filodemo, filosofo che abitava ormai da anni nella villa e che aveva trovato in suo padre un protettore e un degno ospite; accanto a lui sedeva Lucrezio, che era giunto da Roma una settimana prima. La giovane, ogni tanto, lanciava uno sguardo a Pisone, che però sembrava impegnatissimo a ignorarla. Ciò le parve molto strano. Inoltre non riusciva a identificare uno degli ospiti: aveva i capelli neri perfettamente acconciati, un abbigliamento curato e una lieve abbronzatura che svelava rughe sottili. Non le era sconosciuto, ma non ricordava chi fosse, e questo la indispettiva. Gli occhi scurissimi dell’uomo dedicavano a tutti lampi di viva attenzione. Ogni tanto sembrava distrarsi, ammirato dall’affresco alle sue spalle che occupava tutta la parete del triclinio e che contendeva persino al mare l’ammirazione degli ospiti. 

    Proprio voltandosi e fissando per l’ennesima volta quell’affresco Cesare decise che avrebbe decorato di nuovo il suo studio a casa della madre Aurelia. Un’isola di pace cui anelava, un rifugio non così segreto ma estremamente discreto, il cui aspetto poteva essere ulteriormente migliorato. Sarebbe stato un modo piacevole per riabituarsi alla vita in città. Era stato assente a lungo, a sufficienza per trovare Roma profondamente cambiata. Forse l’Urbe, nel suo rapido piroettare, un giorno si sarebbe schiantata contro qualche ostacolo abbastanza piccolo e agile da non poter essere schivato.

    Filodemo intanto illustrava pacatamente, soppesando come sempre le parole, il senso del suo ultimo componimento d’amore, e discuteva con Lucrezio sul legame tra tale sentimento e la poesia. Calpurnia adorava seguire il filo dorato e involuto dei loro discorsi, vederli accapigliarsi per ore riguardo a un solo argomento. Erano meravigliosi: non uomini, ma creature di un mondo ideale. 

    In quella villa, d’altronde, tutto era diverso: regnava la parola di Epicuro e anche coloro che nella vita pubblica deprecavano i nuovi costumi, smessa la maschera di fieri difensori del mos maiorum, aprivano le loro menti al piacere del dialogo. Pisone era fiero di aver reso la sua villa un cenacolo culturale, dove protetti e protettori, politici e intellettuali, si scambiavano alla pari arte e pensiero. 

    «Amiamo il bello, ma con moderazione» dicevano ad Atene. Lì a Ercolano, invece, si accontentavano di amare il piacere con naturalezza; la loro legge si riassumeva in una parola sola: «serenità».

    Ma Lucio Pisone, quella sera, sereno non lo era affatto. Si distraeva spesso, pensando al suo discorso con Cesare. Aveva bevuto l’essenza di ogni sua parola e ne era rimasto stordito.

    «Crasso, Pompeo e io vogliamo agire come una sola persona» gli aveva detto. «Abbiamo stretto un accordo, un patto che porterà benefici a Roma. Ma come unico soggetto, pur avendo un corpo forte, abbiamo bisogno di giunture e arti. Sto contattando te per questo. So che non mi deluderai; se collaborerai con la moderazione che ti distingue e con la cultura che puoi diffondere, tra due anni mi succederai al consolato.»

    Pisone si voltò alla sua destra, dove era seduta Calpurnia. Era stordito da tanta novità, estasiato e spaventato per qualcosa di incredibile: il potere e la gloria di Roma avevano toccato proprio lui. Lucio Calpurnio Pisone si era sempre reputato un uomo normale, senz’altra ambizione se non quella di vivere tranquillo, immerso nelle sue passioni. La carriera pubblica, per lui, era più un obbligo sociale che una vocazione. C’era chi ancora gli rimproverava le origini cisalpine di sua madre. Ma il padre di Lucio era fatto della sua stessa pasta: un uomo pacifico e poco interessato alle chiacchiere. Si trovava per affari a Placentia, nella Gallia Cisalpina, quando aveva conosciuto Calventia, figlia di un ricco mercante della zona. E non si era certo chiesto se figli, nipoti e bisnipoti avrebbero avuto gli occhi chiari e la pelle pallida e se, a distanza di decenni, qualcuno avrebbe ancora perso tempo a pensarci. E così l’ascendenza dei Calpurnii da Numa Pompilio era passata quasi in secondo piano rispetto agli occhi azzurri di Lucio, che si scottava facilmente nonostante i capelli neri e aveva passato i periodi più felici della sua infanzia attaccato alle vesti della sua adorata madre, bellissima e malinconica. E se qualcuno gli rinfacciava le linee di sangue della sua gens, lui gli mostrava altre linee: quelle del sorriso. 

    Ora, all’improvviso, tutto sarebbe cambiato. E lui era troppo confuso, eccitato e turbato per parlarne con la figlia, che nel frattempo si era voltata e, sorridendo, gli aveva chiesto se desiderava qualcosa. Lei non sapeva ancora quanto, di quel cambiamento, sarebbe stata parte.

    «Vogliamo che questo accordo sia saldo, Pisone… che sia un unico corpo fedele come lo è la famiglia romana. Vorrei sicurezza per un lungo periodo. Ho bisogno di persone forti e affidabili per questo.»

    Non era stato difficile arrivare a una conclusione.

    «Gaio Giulio, per me la fedeltà è qualcosa da mostrati con ogni mezzo: hai progetti a riguardo o posso farti io una proposta?»

    «Forse l’ho deluso» sussurrò Calpurnia a Filodemo, guardando di sottecchi il genitore al suo fianco.

    «Come avresti potuto? Sai che tuo padre ti adora» le rispose lui con un sorriso che aggiungeva candore alla barba già precocemente bianca, come

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