Mare in tempesta
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Anteprima del libro
Mare in tempesta - Pietro Speranza
SATURA
FrontespizioPietro Speranza
Mare in tempesta
ISBN 978-88-6393-919-4
© 2018 Leone Editore, Milano
www.leoneeditore.it
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
A mio padre
eclettico artista
audace sognatore di libertà
Ai volontari dell’accoglienza
A chi crede in un mondo senza confini
Da quassù la Terra è bellissima,
senza frontiere né confini.
Jurij Gagarin
Capitolo 1
Finalmente
Il rombo potente dei motori miscela sollievo e apprensione, mentre la massa grigia della nave militare si accosta, minacciosa, fra ribollio di schiuma e spruzzi di gioia.
Riconosco la bandiera verde, bianca e rossa, vessillo di un grande miraggio e, forse, della mia nuova patria. Sento già di amarla. Da tempo sognavo questo momento.
Sto viaggiando da tre giorni con Alisha, e siamo ancora a largo del golfo della Sirte. Il nostro barcone è un fuscello sbatacchiato dalle onde e rischia di capovolgersi a ogni scossone. Una sensazione affannante, come l’acqua gelida che si alza lungo le fiancate e sembra volerci trascinare nel blu profondo. Per fortuna dura pochi secondi, perché soltanto alcuni di noi sarebbero in grado di tenersi a galla.
Funi possenti ci agganciano ai nostri salvatori.
Ciambelle arancioni calano dall’alto.
Gommoni ballonzolano, pronti a intervenire se qualcuno finisse in mare.
Finalmente arriva il nostro turno.
Alisha trema e mi sorride teneramente: un passerotto che ha trovato un nuovo nido.
Militari ci aiutano a salire a bordo in una confusione di parole rassicuranti e ordini perentori gracchiati da un megafono. Nelle loro mani, la tensione e il calore dell’ansia che condividono con noi naufraghi.
Gesti gentili ci accarezzano, mentre si affannano a coprirci con teli dal colore di sole e luna. Troviamo posto accanto a una paratia gelida e grigia. Non importa. Ci sediamo sul pavimento, e stringo al petto mia sorella. Insieme, piangiamo la gioia di essere salve, unite più che mai. Sarò per lei anche madre, anzi la proteggerò meglio di quanto abbia saputo fare la nostra. Chiudo gli occhi e mi sento al sicuro. Potrei anche addormentarmi, questa volta nessuno ci maltratterà. Ma mi afferra, forte e inattesa, la nostalgia della mia terra. Non riesco a riposare, ho perso l’abitudine nei lunghi mesi di viaggio dall’Eritrea fin qui.
Alisha, invece, crolla subito. Si è molto indebolita, le sue ossa premono contro le mie, aste di ferro e di vetro insieme. Eppure è bellissima, con la sua pelle di luna ambrata e i capelli ricci, morbidi sulle spalle. Occhi neri torreggiano sul viso ovale dai tratti dolci, come le labbra che sembrano disegnate da un pittore. Ha soltanto quindici anni, ma un corpo già maturo che attira l’attenzione.
Amo da sempre cultura e tradizioni del Paese che stiamo raggiungendo. Al contrario dei compagni di viaggio, io e Alisha vogliamo vivere proprio in Italia. Con gli occhi fissi alla prua, aspetto che compaia la terraferma per ubriacarmi di immagini e incantarmi davanti ai colori tenui della natura. Non so cosa sarà della nostra vita, ma sono certa che lì troveremo un futuro sereno. Ho studiato italiano a scuola e ho letto tutto ciò che mi capitava fra le mani, purché scritto in una lingua che sento libera e aperta.
Finora mi ha sorretto la meta come unico obiettivo, nel coraggio della disperazione. Adesso però afferro che il difficile sta appena iniziando. Continuo a stringere con forza Alisha, quasi a nascondere la mia angoscia nella sua inconsapevolezza e mi addormento, così, senza volere, cullata dal rumore sordo e monotono dei motori. Nessun sogno, anche il più piccolo, potrebbe indebolire la mia stanchezza.
Mi sveglio di soprassalto al tocco leggero della mano di Alisha, in piedi davanti a me, mentre uno stormo di gabbiani gracchia sulle nostre teste e saluta la nave che si avvicina alla terraferma.
Non so quanto ho dormito.
«Guarda!» dice emozionata, indicando qualcosa proprio di fronte a noi, oltre la fiancata sinistra della nave.
Mi alzo di scatto, elettrizzata.
Un grande scoglio in mezzo al mare, arido e roccioso, frantuma l’attesa di una terra lussureggiante. A un certo punto quasi temo che ci abbiano riportato indietro. Nel frattempo l’isola diventa sempre più grande e un faro spunta sulla parte più orientale della costa scogliosa: una rupe a strapiombo sul mare. Poi la nave rallenta. Compare un campanile e, nella luce abbacinante di mezzogiorno, si intravedono le sagome di case rigorosamente bianche, affastellate una sull’altra come un presepe all’aperto.
Infine entriamo in porto.
Il cuore accelera; un tamburo mi batte prepotente nel petto, mentre poggio per la prima volta i piedi sul suolo italiano.
È un molo deserto, asettico, senza suoni, colori, andirivieni. In una parola, senza vita. All’improvviso il gelo mi scava le ossa e mi brucia la pelle, ma non è la temperatura. I battiti rallentano la loro corsa e ho l’impressione che il cuore si fermi. Mi impressionano le ambulanze, le numerose macchine della polizia e una fila di soldati in assetto, direi, da guerra. Stringo la mano ad Alisha fino a farle male, e un interminabile brivido mi corre lungo la schiena.
Lei si libera e mi guarda, impaurita.
Mi sforzo di sorridere.
Chi siamo per loro?
Nuovi fratelli da accogliere?
Individui da sopportare e lasciare ai margini?
Avvolti nei teli dorati che ci riparano dal freddo, sembriamo una carovana di appestati fra ali di persone indaffarate a proteggere soprattutto se stesse.
L’efficienza del personale e la precisione degli interventi sono rassicuranti, ma privi di coinvolgimento per i cadaveri delle due nigeriane che giacciono sull’asfalto sotto un lenzuolo bianco. Non le conoscevo né avevo mai avuto l’opportunità di farlo, visto che viaggiavano rinchiuse, insieme ad altri disgraziati, in un angusto spazio sottocoperta, senza aria. Chiudo un attimo gli occhi e prego per loro, ringraziando il Signore per la fortuna che ci ha riservato. Un ultimo sguardo commosso ai feretri improvvisati e riprendo la mia marcia. Anche la morte sembra essere diventata parte integrante dell’accoglienza. Soltanto scatti fotografici di pochi curiosi al di là dei cancelli di ferro che recintano la banchina del porto, quasi fossimo uno spettacolo da baraccone.
Che tristezza!
Siamo esseri umani come voi!
Vorrei gridare la mia rabbia intrisa di gratitudine, invece mi accodo agli occhi bassi che si snodano con apprensione in una lunga processione, fra urla assordanti che impartiscono ordini incomprensibili.
Alzo il viso al cielo per assorbire il calore di un nuovo sole, nel freddo di gennaio.
Mi guardo intorno.
Nessuna rovina né armi.
Finalmente appartengo a me stessa.
«Vieni, Alisha! Stammi vicino.»
Allaccio di nuovo la mia mano alla sua in una morsa forte abbastanza per infonderle il coraggio che non ho, mentre una giovane signora, capelli ramati e occhi chiari, ci accompagna verso un tendone bianco, mimando che mangeremo.
«Vedrai che qui sarà bello, e presto inizieremo una nuova vita» le sussurro piano, come una carezza.
«Ho paura» risponde.
Nei suoi occhi, lo stesso sgomento degli altri in fila accanto a noi e, nella mano, la forza di chi crede nel futuro.
«Hai paura soltanto perché ora non capisci la lingua, ma ti aiuterò a impararla presto. E comunque, non ci separeremo mai, per nessun motivo e neppure un solo giorno. È una promessa solenne.»
«Giuralo!» sospira la piccola; poi si apre in un sorriso e i denti smaglianti le illuminano il volto. «Ho fame» aggiunge inaspettatamente con la sfacciataggine propria della sua età, toccandosi lo stomaco. Se potesse, accelererebbe il passo o inizierebbe a correre per superare gli altri avanti a noi.
Le lancette dell’orologio attaccato al muro della camerata, proprio di fronte al nostro letto a castello, sembrano ferme. Il tempo scorre lento fra reti insuperabili e cancelli sbarrati di un carcere sovraffollato, ove vigono regole ferree mal sopportate da tutti.
Ogni camerata di questo Centro di prima accoglienza ospita, in pochi metri quadrati, una grande promiscuità di etnie: gente di ogni età, colore e religione. L’assenza di una pur minima privacy è totale e insopportabile.
Abbiamo cibo a sufficienza, letti e lenzuola di carta, ma nulla per la cura della persona. Manca soprattutto un luogo appartato in cui potersi rifugiare nei momenti di maggiore disperazione. Per fortuna, noi donne siamo almeno separate dagli uomini, rinchiusi nella gabbia. Alcune si lamentano di essere divise da padri e mariti; io e Alisha invece ringraziamo Dio. Abbiamo semplicemente bisogno di tempo per dimenticare la terra da cui siamo fuggite, e restiamo in disparte. Le altre ospiti ci guardano con diffidenza: non portiamo al-amira o hijab e non partecipiamo alle pur giuste ma violente manifestazioni contro l’impensabile abolizione dei nostri diritti civili.
Purtroppo, l’inizio di questa nuova esistenza non è come la sognavamo e, in condizioni di inedia forzata, perfino i ripetuti interrogatori della polizia diventano un diversivo.
Quando otteniamo il sospirato status di rifugiato politico, siamo trasferite in un’altra struttura, dove le condizioni di vita sono più umane e condividiamo una stanzetta soltanto con altre due profughe. Finalmente ci accordano anche brevi permessi per uscire e visitare l’isola che ci ospita.
Lacrime di felicità solcano il viso e irrigano i nuovi germogli di futuro.
Mani sudate si stringono con forza mentre ci avviamo per la prima volta sulla strada polverosa. I passi, non più incerti come quelli nel recinto, sono elastici, addirittura avventurosi, quasi in fuga.
Camminiamo entusiaste della semilibertà guadagnata.
Che emozione divorare spazi aperti!
«È un paradiso, questo luogo. Non mi muoverò più di qui!» dice Alisha, rapita da scorci incantevoli e dal turchese del mare che esalta il bianco degli scogli.
Scorrono i mesi, ormai è quasi giugno.
I turisti cominciano a rivitalizzare il paese dopo i lunghi mesi invernali.
Le passeggiate giornaliere allentano la tensione.
A volte scendiamo al porto per assistere ai nuovi sbarchi, nel cuore la speranza di un volto amico.
Senza lavoro e senza un impegno, ci sembra di vivere in una specie di limbo.
Aspettiamo, semplicemente.
La gente per strada ci riconosce, ha sorrisi di incoraggiamento e risponde, gentile, alle nostre domande; a volte offre perfino cibo e abiti gradevoli che mia sorella ammira affascinata, ma interdetta se accettarli o meno. Teme di essere comprata.
L’Italia, quella di Roma e dei tesori artistici, è sempre lontana.
Capitolo 2
Sentirsi a casa
«È meraviglioso camminare senza una meta precisa!» dice Alisha, inseguendo con lo sguardo incantato un coniglio selvatico che corre a nascondersi dietro un macigno. Ma forse non sta scappando da noi, quanto dal verso stridulo del falco che volteggia, in alto, sopra le nostre teste.
«Hai parlato in italiano!» rispondo, stupefatta dai suoi progressi. Lei ride, contenta di sorprendermi, e la natura intorno sembra risvegliarsi al gorgoglio forte e squillante della sua risata. Marangoni dal ciuffo, calandrelle e strillozzi si alzano in volo e fuggono a ripararsi nella steppa rada che circonda la strada.
Oggi ci siamo allontanate verso la parte stretta dell’isola, meno abitata e più selvaggia, costeggiando rari campi coltivati fra terrazze di roccia calcarea. Il mare, proprio sotto il costone a strapiombo, varia di continuo fra il turchese e l’azzurro intenso, creando un forte contrasto con le rovine di vecchie costruzioni di pietra, sparse nella campagna brulla e polverosa. Vita e morte. Non ci sono spiagge su questo tratto e non c’è ansia nelle poche persone che incontriamo né paura nei loro occhi.
«Sto proprio bene qui! Avverto quasi il profumo della nostra Africa.»
Le passo una mano protettiva sulle spalle.
«Che bello sentirsi a casa! Quest’isola, in effetti, è l’unico territorio italiano fuori dall’Europa. Fa parte del continente africano.»
«Davvero?» si illumina come di fronte alla scoperta più strabiliante del mondo. Poi inizia a tirare calci a piccoli sassi, al pari di quando portava al pascolo pecore e capre. «Ieri, ho visto i ragazzi che uscivano da scuola. Voglio andarci anch’io e recuperare gli anni di studio perduti. Credi che sarà possibile?».
«Certo» rispondo con sicurezza.
Sono spiazzata, invece, da una richiesta che non mi aspettavo. Purtroppo dobbiamo pensare innanzitutto a un lavoro per sopravvivere. Adesso, poter studiare sarà un bel problema da risolvere. In Eritrea, io mi ero appena iscritta all’università e Alisha frequentava la scuola primaria, quando siamo state costrette ad abbandonare la capitale e rifugiarci verso il confine con il Sudan. Non so neppure se il mio diploma liceale abbia valore in Italia, se mai riuscissi a recuperarlo.
Intanto, mia sorella accelera il passo. La sua determinazione è di gran lunga superiore alla mia, e io non faccio nulla per impedirle di inseguire i sogni che l’hanno sorretta in questi lunghissimi mesi. Procediamo così, sfalsate di una ventina di metri, entrambe assorte a imprigionare le nuove immagini della nostra libertà. Poi lei si ferma ad aspettarmi.
«Le pietre di queste costruzioni così strane hanno lo stesso colore giallastro delle nostre montagne» dice, soggiogata da quanto ci circonda.
«Si chiamano dammusi e sono costruzioni tipiche di Pantelleria, un’altra isola del Mediterraneo. Alcuni dei suoi abitanti devono essersi stabiliti qui, nei secoli passati» spiego, ricordando la locandina pubblicitaria trovata per caso nella sala dove a volte ci riuniscono gli assistenti sociali.
«Bellissimi… Queste vecchie pietre corrose sembrano assorbire il profumo di mare» commenta subito con semplicità.
Abbiamo imboccato, da qualche minuto, una stradina stretta e polverosa che conduce a una macchia di verde, soprattutto pini d’Aleppo e cedri. Un cancelletto aperto di legno scuro con borchie di metallo attira la nostra attenzione e, seppure involontariamente, sbirciamo all’interno del giardinetto, restando attratte dalla forma particolare di questo dammuso perfettamente rotondeggiante. Soltanto dopo qualche secondo ci accorgiamo di un uomo nascosto per metà da un muretto di pietra: sta di spalle e, con una grazia inaspettata, muove la testa lentamente, ora a destra ora a sinistra, come a scrutare qualcosa.
Alisha, incuriosita, si spinge oltre l’ingresso per sbirciare meglio.
E io la seguo, più intimorita.
Non è giovanissimo, ma ha un fisico atletico con gambe arcuate da cavallerizzo. Metto una mano davanti alla bocca per frenare un risolino e faccio segno a mia sorella di rimanere in silenzio. L’uomo continua a piegare di lato la testa dai capelli nero corvino, e io mi sento più intrigata.
Azzardo altri due passi, prima di scoprire una tela con qualche scarabocchio colorato.
Provo tenerezza.
Ricordo bene le mie ore davanti a un foglio di carta che non riesce a prender vita.
Lui probabilmente