Roma: non si piange su una città coloniale. Note sulla politica romana
Di Walter Tocci
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Anteprima del libro
Roma - Walter Tocci
© goWare 2015, Firenze, prima edizione digitale italiana
ISBN: 978-88-6797-388-0
Redazione: Giacomo Fontani
Copertina: Lorenzo Puliti
Sviluppo ePub: Elisa Baglioni
goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing
Fateci avere i vostri commenti a: info@goware-apps.it
Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri:
mari@goware-apps.com
L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani riprodotti nel presente volume.
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Presentazione
Come è potuto accadere il malaffare di Mafia capitale
? La pubblicistica ha già fornito molte spiegazioni sui fatti e sui personaggi. Questo libro tenta un’analisi delle cause remote e dei rimedi per il futuro. L’indagine riguarda le tendenze elettorali e i processi strutturali che hanno accompagnato il fallimento della classe politica. Particolare attenzione è dedicata agli insuccessi ma anche alle opportunità delle riforme dell’amministrazione. Si discutono anche nuovi obiettivi di crescita civile ed economica e della modernizzazione dei trasporti.
Il libro comincia con un Prologo all’inferno
che propone un’interpretazione del tramonto della capitale, ma termina con l’auspicio che possano crescere nuove ambizioni collettive. Nel frattempo vale l’esortazione pasoliniana a non piangere su una città coloniale.
* * *
Walter Tocci è stato vicesindaco di Roma e assessore alla mobilità. Oggi è senatore della Repubblica. Ha accompagnato l’impegno politico con la pubblicazione di saggi sui temi politici (Sulle orme del gambero, Donzelli, 2013), sull’innovazione (Politica della scienza?, Ediesse, 2008) e sulle città, in particolare la capitale: Roma che ne facciamo (Editori Riuniti, 1993) e, con il suo maestro Italo Insolera, Avanti c’è posto (Donzelli, 2008).
Introduzione
L’abisso di corruttela scoperchiato a Roma dalla magistratura lascia attoniti e indignati. Come è potuto accadere tutto ciò? Molti amici me lo hanno chiesto nei mesi passati. Con questo lungo saggio tento di dare una risposta cercando le cause remote e i rimedi non contingenti. Come spesso capita nel dibattito pubblico, una luce abbagliante mette a fuoco la miseria del presente, ma non illumina né il passato né il futuro.
C’è una crisi capitale del governo della capitale che va al di là della grave patologia attuale e richiede un’analisi a ritroso non solo dei guasti delle giunta di destra, ma anche delle ambiguità e delle incompiute del riformismo precedente. È ineludibile un bilancio sincero ed equanime del nostro quindicennio di governo. D’altro canto le soluzioni non sono riducibili alle battute d’occasione, ma richiedono uno sguardo più lungo sul destino della città.
Di seguito si tenta questa doppia fuga temporale, all’indietro per capire che cosa è successo e in avanti per immaginare un senso nuovo della capitale. Le singole proposte hanno un valore euristico – sono certo imperfette, controverse e non esaustive – e vogliono indicare solo l’urgenza di una ricerca che richiede contributi, critiche e condivisioni più ampie.
Può sembrare quasi provocatorio – e non nascondo l’intenzione – proporre una discussione sul futuro della città quando incalzano le emergenze amministrative e il fallimento della classe politica. I problemi della vita quotidiana quasi mai si risolvono caso per caso se non si cambia il paradigma che li determina. Nasce il cambiamento solo se si prende congedo dalla contingenza per immaginare un’altra visione delle cose.
Questo colpo d’occhio
weberiano è precisamente il plusvalore che la politica deve aggiungere a una mera amministrazione. Quando esso viene a mancare, non solo si complicano i problemi quotidiani, ma la stessa funzione politica si atrofizza e deperisce, come un uccello che rinuncia a volare. Questa volontà dell’impotenza si manifesta nell’aspetto apparentemente contrario dell’arroganza del potere. La crisi della politica romana è intrinseca ai suoi compiti.
Che la degenerazione scoperchiata da Mafia capitale si possa contrastare chiudendo qualche circolo o controllando il tesseramento – senza nulla togliere a tali meritorie misure – appare francamente illusorio. E anche la distinzione tra il partito cattivo e quello buono è debole nell’analisi e inutile nella soluzione. In ogni campo della vita civile oggi in Italia si può dire qualcosa del genere, ma il problema è come invertire la dinamica che ha consentito alla parte cattiva di vincere sulla buona.
La crisi politica può essere risolta solo laddove si è generata, cioè nel venir meno della capacità progettuale e di indirizzo generale della cosa pubblica. Qui va sgombrato il campo da un vecchio equivoco che si porta dietro la parola progetto
. Non si deve intendere come un libro di sogni, né tanto meno come una fuga dalla realtà, anzi precisamente il contrario: come modello regolativo che seleziona le scelte di oggi, come quadro di coerenza concettuale che guida la pratica amministrativa, come orizzonte di governo che agisce nel presente anche se non verrà mai realizzato in futuro.
Il progetto per Roma, niente di meno che questo è il compito su cui misurare la politica. Solo in relazione agli obiettivi si seleziona e si rinnova la classe di governo, si incontrano le forze vive del cambiamento, si condensa una volontà collettiva di riforma.
A tale prospettiva sono dedicate queste pagine che iniziano con un Prologo all’inferno
e un’interpretazione del tramonto della capitale. La trattazione vera e propria si articola in tre parti. Nella prima si analizzano le mutazioni delle forme politiche. Nella seconda si esaminano i tentativi di riforma dell’amministrazione con l’auspicio di fornire una guida per non ripetere errori del passato. Infine, nella terza parte si discutono alcune politiche di crescita civile ed economica.
Le tre parti sono molto diverse non solo per gli argomenti trattati, ma soprattutto per gli strumenti analitici utilizzati e di conseguenza può risultarne discontinua la lettura. D’altronde, possono anche essere lette separatamente oppure selezionate in base a diversi interessi del lettore.
La prima appendice propone alcuni sviluppi relativi alla cura del ferro, sulla base di una riflessione circa la mia esperienza nel settore. La seconda appendice descrive le tendenze elettorali ed è curata da Federico Tomassi, un valente ricercatore che da diversi anni mi accompagna in questi ragionamenti sulla città.
Prologo all’inferno
Perché si chiama Cooperativa 29 giugno? Ricordo bene quel giorno del 1984, quando da giovane presidente convocai formalmente, con i timbri e i verbali, il consiglio della quinta circoscrizione all’interno del carcere di Rebibbia invitando centinaia di persone tra esperti, rappresentanti di associazioni e giornalisti. Partecipò al completo la commissione parlamentare, annunciando proprio in quel luogo l’accordo raggiunto tra i partiti per approvare la riforma Gozzini sul reinserimento sociale dei detenuti. Fu un grande evento culturale e politico. Nel carcere simbolo degli anni di piombo iniziò il disgelo della legislazione di emergenza e si aprì alla pena come occasione di riscatto della persona. Fu possibile realizzare l’iniziativa per merito soprattutto dei lavoratori e degli agenti del carcere guidati da due persone eccezionali, il direttore Luigi Turco e la vicedirettrice Maria Pia Frangeamore[1]. Furono loro a proporre che gli stessi detenuti fossero protagonisti del convegno e non subissero la passerella dei politici e degli addetti ai lavori. E fu proprio Salvatore Buzzi a tenere la relazione introduttiva, a nome di un gruppo di detenuti che aveva elaborato un pacchetto di proposte sulla base della propria esperienza e di approfondite letture. Quegli stessi detenuti nei mesi successivi si organizzarono in cooperativa, con il supporto tecnico degli uffici della circoscrizione. Alla cooperativa, allora di soli 15 lavoratori, furono affidati dalla Provincia di Roma i lavori di manutenzione delle strade e dei giardini, applicando le norme della legge Gozzini che nel frattempo era stata approvata dal Parlamento. I detenuti uscivano la mattina per lavorare e tornavano la sera in carcere.
Negli anni successivi, chi scontava la pena tornava in libertà avendo già avuto la possibilità di prepararsi al reinserimento sociale. Una buona legge trovò subito un laboratorio di attuazione.
Intorno alla cooperativa si realizzò un movimento di volontariato e di partecipazione ispirato all’opera di don Luigi Di Liegro, guida morale della città in quegli anni. I comitati di quartiere e le associazioni invasero il carcere con le loro iniziative. Tanti volontari, coordinati da Laura Ingrao, animarono il doposcuola per aiutare i detenuti a prendere un titolo di studio. Un’ex deputata, Leda Colombini, appena terminato il suo mandato si dedicò a organizzare un gruppo che accompagnava al vicino asilo nido i bambini delle madri che si trovavano in carcere. E furono molti gli intellettuali che varcarono i cancelli di ferro per mettere a disposizione le proprie competenze, soprattutto in campo artistico e teatrale, inaugurando un filone di ricerca culturale dietro le sbarre che è arrivato fino al recente successo dei fratelli Taviani al Festival di Berlino, con il film Cesare deve morire.
Anche per me fu un’esperienza intensa. Partecipai a quelle lunghe discussioni con i detenuti nei mesi precedenti il convegno, conoscendo da vicino la condizione carceraria. Salvatore Buzzi mi raccontò la sua storia e mi spiegò come quell’iniziativa rappresentasse il riscatto morale della sua vita. Credo che allora fosse sincero. Poi forse il lato oscuro ha preso il sopravvento. Così una bella favola finisce all’inferno. La Cooperativa 29 giugno è nata incontrando la politica che si occupava di solidarietà e cultura, ed è morta nell’abbraccio della politica che si occupa di appalti e preferenze.
Un cammino disperato, non solo il suo. Er cecato – Massimo Carminati che fu il trait d’union tra i NAR e la banda della Magliana – è il volto inquietante che riconduce anche Alemanno alle indicibili relazioni giovanili, sprecando la grande occasione di affermare la destra come forza di governo della capitale d’Italia.
La vittoria del 2008 poteva essere per loro l’inizio di un ciclo, erano state costruite tutte le condizioni favorevoli. Nel post-Tangentopoli si era formato infatti un inedito blocco sociale della destra che univa il vecchio insediamento del ceto medio corporativo nei quartieri semicentrali con la parte estrema delle borgate soprattutto di origine abusiva. Nella dura lotta di opposizione alle giunte di sinistra era cresciuta soprattutto nei municipi una generazione di giovani quadri. A tutto ciò sembrava poter dare una credibilità di governo la figura del nuovo sindaco che veniva da un’esperienza di governo come ministro dell’Agricoltura. Era un progetto ambizioso anche a livello nazionale. Nasceva una sedicente componente sociale e antiliberista del centrodestra, che sembrava poter risolvere anche una carenza di Berlusconi, il quale non è mai riuscito ad ammaliare l’elettorato romano, forse dotato di atavici anticorpi che lo rendono immune alle favole mirabolanti del potere.
La nuova destra romana rispondeva a esigenze ben radicate. Allora perché ha fallito Alemanno? Oggi riconosce solo che ha sbagliato nella scelta