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Il mito della cospirazione ebraica: Nel laboratorio di Urbain Gohier
Il mito della cospirazione ebraica: Nel laboratorio di Urbain Gohier
Il mito della cospirazione ebraica: Nel laboratorio di Urbain Gohier
E-book720 pagine4 ore

Il mito della cospirazione ebraica: Nel laboratorio di Urbain Gohier

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Fra Ottocento e Novecento, la pubblicistica antisemita si è caratterizza per la folta presenza di pseudonimi, noms de plumes e, infine, di falsi. I Protocolli dei Savi Anziani di Sion hanno costituito – e costituiscono ancora oggi – il falso più famigerato. Ma prima che i Protocolli cominciassero a circolare nell’Europa del primo dopoguerra, divenendo poi la Bibbia dell’antisemitismo, compreso quello nazista, altri falsi erano già apparsi. Fra questi, quelli di Urbain Gohier, A nous la France! (1913) e Le droit de la race supérieure (1914).
Con quei due falsi, Gohier, un autore spesso trascurato negli studi sull’antisemitismo, e che non a caso nel dopoguerra sarebbe stato uno dei diffusori del Protocolli, anticipava il tema dominante di quest’ultimo testo, quello dell’esistenza di una cospirazione ebraica per la conquista del potere, associato alla presenza di numerosi stereotipi, come quello di un potere segreto ebraico sulla stampa e la cultura in genere.
Arrabbiato pubblicista antisemita, spesso in polemica con gli stessi antisemiti, vicino alle posizioni di uno dei padri dell’antisemitismo contemporaneo, Édouard Drumont, le posizioni di Gohier – espressione di atteggiamenti populisti e tradizionalisti, al tempo stesso - e i suoi due falsi sono un utile laboratorio per delineare alcuni aspetti dell’universo ideologico dell’antisemitismo, dalla visione cospirazionista della storia ai rapporti teorico-politici fra il razzismo e l’antisemitismo.
In Appendice, la prima traduzione italiana di ampi estratti dai due falsi.
LinguaItaliano
EditoreFree Ebrei
Data di uscita13 apr 2023
ISBN9791222094663
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    Anteprima del libro

    Il mito della cospirazione ebraica - Francesco Germinario

    Ringraziamenti

    Il lavoro è stato agevolato dai suggerimenti bibliografici di Fabio Danelon, dalla competenza informatica di

    Francesco Angione, dalla passione di Stefano Grigolato, dell’Ufficio prestito interbibliotecario della Biblioteca Queriniana di Brescia.Siano ringraziati anche Willy Gianinazzi, Thomas Roman, Grégoire Kaufmann. Dorothée Boichard. La traduzione dei due testi di Urbain Gohier è di Daniela Veloci, con l’augurio che a questo suo primo impegno intellettuale ne seguano altri.

    Brescia, luglio 2022

    A Francesco Angione e ad Anna Martino, generosi

    Capitolo 1. Un pubblicista antisemita e i suoi falsi

    1. Tra falsi e noms de plume

    Di Urbain Gohier, il cui vero cognome era Degoulet, e del quale qui sono tradotti in Appendice lunghi estratti di due suoi pamphlets cospirazionisti e antisemiti pubblicati col nom de plume di Isaac Blümchen, manca una biografia completa, se si escludono le voci, peraltro molto puntuali e informate, a lui dedicate da Grégoire Kaufmann¹. In sede storiografica, pur essendo testi conosciuti dagli specialisti – il primo, A nous la France ² è stato giudicato «opera ferocemente antisemita»³, mentre il secondo, Le droit de la race supérieure⁴, è stato definito «uno dei più celebri» falsi antisemiti in lingua francese⁵ –, è finora mancato un approccio più analitico, che collocasse quei testi nella pubblicistica cospirazionista e antisemita, comparandoli, ad esempio, ai ben più famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion.

    Lo spazio consistente che occupano i falsi nella pubblicistica antisemita pone già un primo problema, che apparentemente sembra attenere al campo della storia della letteratura, ma che in realtà domanda un deciso approccio storiografico.

    Basterebbero infatti questi tre falsi – i due di Gohier e i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il falso quasi per definizione e uno degli assi portanti dell’antisemitismo contemporaneo, per non riferirci alla fantomatica lettera all’abate Barruel dello pseudo-Simonini, cui si accennerà più avanti – per constatare come nell’antisemitismo trovino ampio spazio i falsi letterari.

    Non è questa la sede per un’ulteriore ricostruzione della fortuna editoriale e ideologico-politica dei Protocolli, un tema su cui la bibliografia, soprattutto quella degli ultimi decenni, è stata certamente consistente⁶. Riteniamo più utile sviluppare una riflessione su alcuni aspetti della visione cospirazionista della storia – e su qualche tema a questa collegato –, tipica dell’antisemitismo, proprio a muovere da una comparazione fra i due falsi di Gohier e i Protocolli, nonché su alcuni aspetti dell’universo ideologico dell’antisemitismo medesimo.

    In prima istanza, si potrebbe osservare che i falsi antisemiti corrispondono alla versione moderna di quelli che in età umanistica e rinascimentale erano i cosiddetti «volgarizzamenti». Se i volgarizzatori traducevano e, al tempo stesso, rielaboravano i testi di autori latini e greci per un pubblico che aveva una conoscenza parziale e lacunosa delle lingue classiche⁷, i falsi degli antisemiti pretendevano – e spesso riuscivano nell’intento, sol che si pensi alle numerose traduzioni ed edizioni dei Protocolli – di rivolgersi al grande pubblico, soprattutto a quello lontano dalla politica.

    Era una lontananza che di per sé tradiva un giudizio del tutto negativo su quest’ultima: la politica come ambiente caratterizzato da trame affaristiche, corruzione e inganno delle masse. Da qui, l’implicito invito al lettore a mobilitarsi su posizioni antisistemiche. Anzi, il pubblico cui intendevano rivolgersi falsi come quelli di Gohier e i Protocolli era proprio quel settore di cittadinanza che si manteneva lontano dalla politica, con l’intento di chiarire i motivi a fondamento della degenerazione della politica in corruzione e in quotidiano inganno delle masse. Come a dire che, se i «volgarizzamenti» si rivolgevano a un pubblico semicolto, i falsi antisemiti si rivolgevano a un pubblico caratterizzato da un atteggiamento perlomeno scettico, se non del tutto ostile nei confronti della politica. Per cui viene da osservare che qualsiasi atteggiamento cospirazionista – e dunque non solo quello declinato lungo una prospettiva antisemita – reperisce una delle sue motivazioni in un giudizio ostile nei confronti della politica.

    Come s’è osservato, il nostro primo problema storiografico possiamo così delinearlo: perché questa vocazione dell’antisemitismo a concedere ospitalità ai falsi, addirittura, come nel caso della circolazione e delle numerose edizioni dei Protocolli, a costruire la sua narrazione sui falsi?

    Si tratta di una vocazione cui l’antisemitismo non ha rinunciato neanche dopo il 1945, dando vita al negazionismo della Shoah⁸ e, per rimanere al nostro tema d’analisi, alla pubblicazione di altri falsi, in genere allegati a nuove edizioni e ristampe dei Protocolli, come, ad esempio, un documento del 1860 attribuito ad Adolphe Crémieux, fondatore dell’Alliance Israélite Universelle, in cui si sosteneva che era ormai maturo il momento in cui gli ebrei si sarebbero impadroniti di tutte le ricchezze mondiali⁹.

    Negli ambienti dell’estrema destra italiana talvolta è circolato un falso, non privo di un accento antisemita, consistente in una lettera di Winston Churchill a Pietro Badoglio. Dal falso documento risultava che Badoglio aveva ricevuto una somma notevole dal governo inglese, «per mezzo della Banca Levy», per sostituire Mussolini nell’estate del 1943¹⁰. Secondo il falso, Badoglio era pagato dagli inglesi per favorire i bombardamenti angloamericani sulle città italiane, mentre Vittorio Emanuele III era stato pagato per invitare per colloqui Hitler a Roma e farlo arrestare per consegnarlo agli inglesi¹¹. Che la lettera falsa di Churchill, anche se non è possibile stabilire una data precisa in cui cominciò a circolare, sia da attribuire ad ambienti politici del fascismo di Salò, non ci sono dubbi, almeno nel senso che quel documento rispecchia uno dei fondamenti dell’ideologia del fascismo repubblicano¹²: la convinzione che il regime fosse caduto  non per le convulsioni interne dovute a una guerra che si stava rivelando sempre più disastrosa, ma per un tradimento delle classi dirigenti della nazione, il quale era da retrodatare nel tempo.

    Ora, il falso antisemita tradisce il conseguimento di un traguardo ben più ambizioso, perché nessuno più dell’antisemita pretende di avere scoperto la verità, soprattutto quella inerente il corso della storia. Il falso permette all’antisemita di stravolgere la verità effettuale, pretendendo comunque di essere sempre nel vero; esso è una delle procedure più utili per costruire la realtà. L’aporia è solo apparente: il falso antisemita pretende di svelare la verità in forza del fatto che quest’ultima risulta troppo drammatica e crudele perché sia affidata alla comune pubblicistica. Insomma, il falso antisemita si autogiustifica col suo messaggio maieutico, ossia con la pretesa che la realtà effettuale, quella che appare a tutti gli uomini, nasconda la vera realtà, quella fin qui nascosta, e che l’antisemita s’incarica di avere finalmente svelato.

    Qui è possibile individuare un primo tema che autorizza l’inscrizione dell’antisemitismo nella galassia delle teorie politiche antidemocratiche. Se in ambiente politico democratico le decisioni sono pubbliche, e vengono prese dopo un’ampia discussione pubblica, per il cospirazionismo antisemita quelle decisioni medesime sono prese in strutture segrete cospirative, costituendo oltretutto un tassello del piano ebraico di conquista mondiale. Insomma, per l’antisemita ciò che in democrazia è pubblico è al tempo stesso anche falso.

    L’antisemita, inoltre, si trova nella necessità di ricorrere spesso al falso, perché intende presentare con tinte ancor più drammatiche una situazione storico-politica, manipolandola secondo i propri disegni: il falso permette agevolmente di destrutturare e poi di riorganizzare la lettura della realtà. Naturalmente, anche il testo narrativo può manipolare la realtà: ma l’antisemita è impossibilitato a ricorrere a questo genere di comunicazione perché pretende di descrivere sine ira ac studio la realtà storico-politica: la lotta politica, specialmente per come la intende l’antisemita, non può prevedere il ricorso al romanzo. L’antisemita pretende di muoversi sul terreno dell’inoppugnabile e della scienza¹³: sono le altre teorie e posizioni politiche a fornire un’immagine falsa – o peggio, ideologica –, e perciò romanzata e parziale, della realtà storica, ingannando in questo modo le masse. Questa, va da sé, è una pretesa comune a tutte le ideologie che hanno occupato il mercato politico e delle idee, almeno a partire dall’Ottocento: negarsi come ideologie, per affermarsi come posizione scientifica, politicamente neutrale nell’analisi della realtà storica, prima che nelle conclusioni e proposte.

    Se la distinzione fra la realtà effettuale e quella effettiva e segreta proietta già un primo elemento della vocazione antidemocratica dell’antisemitismo, la pretesa di rappresentare una visione scientifica e inoppugnabile della realtà storica tradisce l’ostilità dell’antisemitismo per il pluralismo. Si vedrà più avanti un altro motivo dell’ostilità dell’antisemitismo per il pluralismo. Qui, per ora, è sufficiente rilevare che l’antisemita, dall’alto della pretesa di avere finalmente svelato il segreto della storia, non accetta critiche né obiezioni, reputando tutte le altre posizioni un travisamento della realtà e un inganno delle masse.

    Nella pubblicistica antisemita abbondano non solo i falsi, ma spesso anche gli pseudonimi e i noms de plume. Theodor Fritsch, il maggiore teorico dell’antisemitismo tedesco prenazista, ne aveva utilizzati diversi, fra i quali quello di Thomas Frey¹⁴. Per rimanere al caso italiano, dietro Italicus, autore nel 1944 di un testo il cui titolo era già emblematico, Il tradimento di Badoglio, si nascondeva il più arrabbiato ancorché più rappresentativo esponente dell’antisemitismo fascista, Giovanni Preziosi¹⁵. Le tesi esposte da Italicus, infatti, combaciavano, talvolta quasi alla lettera, con quanto Preziosi scriveva in privato a Mussolini e nei pochi fascicoli de «La Vita Italiana», pubblicati nei venti mesi della Repubblica sociale. Il mensile diretto da Preziosi, com’è noto, già prima del fascismo aveva sviluppato una decisa polemica antisemita, accentuando le posizioni in tal senso nella seconda metà degli anni Trenta, in seguito all’Asse Roma-Berlino e all’introduzione nel 1938 di una legislazione antisemita¹⁶. Sempre su «La Vita Italiana», il filosofo antisemita Julius Evola, sul quale ritorneremo, nei suoi contributi, tutti tesi a sviluppare una visione spirituale dell’antisemitismo e del razzismo, era ricorso spesso al nom de plume di Arthos.

    Questi pochi ma sufficienti richiami risultano già indicativi di come allo studioso della pubblicistica antisemita s’imponga l’improbo compito di aggirarsi tra falsi e noms de plume, da ricondurre ai nomi degli autori effettivi, esercitandosi talvolta in impegnativi confronti testuali.

    Ma , assodato il ruolo importante ricoperto dai falsi, quali sono i motivi che, almeno nel campo della pubblicistica antisemita, hanno favorito il ricorso massiccio al nom de plume?

    L’abbondanza dei noms de plume trova un suo primo motivo nell’accentuare l’atmosfera di mistero che intendeva trasmettere la pubblicistica cospirazionista antisemita. Il mistero sull’autore effettivo rimandava al mistero che avvolgeva la cospirazione antisemita: nulla era pubblico e riconoscibile, neanche l’autore che denunciava l’esistenza della cospirazione. Infatti, che quello in calce ai testi cospirazionisti fosse un non de plume si può ipotizzare che molte volte dovesse essere chiaro anche al lettore medesimo. È il caso, ad esempio di Arthos, lo pseudonimo di Evola, di Osman Bey, un autore sul quale ritorneremo, oppure di un Docteur Martinez, cattolico francese, autore nel 1890 – dunque, prima che in Francia scoppiasse l’Affaire Dreyfus – di un volume dal titolo emblematico, Le Juif, voilà l’ennemi, che avrebbe subito visto una traduzione italiana¹⁷. IL mistero sull’effettivo nome dell’autore rafforzava il mistero della cospirazione.

    Del resto – e questo può essere un altro motivo –, il ricorso al nom de plume indicava, secondo le intenzioni recondite dell’autore, la potenza conseguita dai cospiratori. Qui può tornare utile la comparazione col movimento socialista.

    Anche nel campo del socialismo rivoluzionario abbondavano i noms de plume e gli pseudonimi. Era una scelta giustificata dalla necessità di operare in una situazione di clandestinità e di illegalità; e infatti, gli pseudonimi abbondavano soprattutto nel socialismo russo alle prese con la repressione zarista, da Lenin e Trockj a Parvus, Stalin, Martov ecc. Nel caso dell’antisemitismo, l’autore effettivo lasciava implicitamente intendere che il ricorso a uno pseudonimo costituiva una difesa per evitare le più che probabili persecuzioni, fino all’omicidio, da parte dei cospiratori, finalmente smascherati. Come a dire che l’autore voleva che il lettore fosse consapevole che il ricorso al nom de plume era un’anticipazione di quanto avrebbe poi sostenuto nelle pagine successive del pamphlet. Quella scelta, insomma, costituiva una precauzione dovuta al fatto che trattava un argomento fondamentale, quello del destino dell’umanità, e al tempo stesso pericoloso, quello della cospirazione, tale da scatenare la vendetta implacabile dei cospiratori, dei quali si scoprivano finalmente i disegni malvagi.

    L’antisemitismo, insomma, era una vera e propria scelta di vita; lo si praticava a rischio della propria incolumità, perché lo scontro fra ebrei e non ebrei, per malefica volontà dei primi, era una vera e propria guerra che non ammetteva figure neutre e momenti di mediazione. Lo aveva esplicitamente teorizzato, negli anni incandescenti dell’Affaire Dreyfus, un misterioso pubblicista di (presumibile) origine greca, Kimon, un ulteriore nom de plume, essendo Kimon l’anagramma in lingua greca di «dottore della legge». Ad avviso di Kimon, collaboratore della «Libre Parole», nonché di altri periodici antisemiti, vera e propria stella destinata a tramontare e a far perdere le proprie tracce nel giro di pochi anni, l’antisemitismo richiede la militanza di «uomini di una tempra speciale»¹⁸.

    Ma è il caso di ritornare al tema dei falsi. Siamo in presenza di un problema collaterale a quello già evocato da Sartre proprio a proposito dell’antisemitismo: «come si può scegliere di ragionare falsamente?»¹⁹.  La risposta sartriana era che «L’uomo sensato cerca penosamente, egli sa che i suoi ragionamenti sono soltanto probabili […]; non sa mai molto bene dove va […]. Ma ci sono invece alcuni che sono attratti dalla stabilità della pietra. […] L’antisemita ha scelto l’odio perché l’odio è una fede; ha scelto originariamente di svalutare le parole e le ragioni»²⁰. Cerchiamo di non accontentarci del tutto della risposta del filosofo francese, non foss’altro perché rimane da spiegare perché l’antisemita sceglie proprio la «stabilità della pietra», per riprendere l’immagine del filosofo francese.

    Una prima ipotesi consisterebbe nel giudicare appunto un falso l’antisemitismo medesimo nella sua pretesa di descrivere l’ebraismo. Ma questa sarebbe una risposta di carattere etico, del tutto insoddisfacente sul piano storiografico. Su questo punto vale la lezione metodologica di uno dei maestri della storiografia del Novecento, Renzo De Felice: «Di fronte a fenomeni come il razzismo e l’antisemitismo – aveva sostenuto il biografo di Mussolini – bisogna avere il coraggio di dire che le scelte di campo moralistiche sono prive di efficacia, così come del tutto inutili sono i rifiuti emotivi. Per comprenderli e contrastarli efficacemente occorre razionalità e conoscenza effettiva della loro realtà. L’indignazione, i sentimenti e i risentimenti sono più che comprensibili, ma non servono e possono persino rivelarsi dannosi, specie se vanno a scapito di un effettivo approfondimento delle loro motivazioni, cause e trasformazioni»²¹.

    Si potrebbe aggiungere a quanto scriveva De Felice che, considerata la rottura di civiltà che ha provocato nel corso del secolo scorso, se c’è un’ideologia che richiede un approccio storiografico, questa è proprio l’antisemitismo. Davanti ai milioni di morti, riconosciuta la ripugnanza etica del fenomeno, compete proprio alla storiografia accertare le cause del fenomeno medesimo.  In altri termini, se Max Weber invitava profeti e demagoghi a non salire in cattedra, si dovrebbe allo stesso modo evitare, in materia di antisemitismo, di cedere la parola definitiva alla morale, lasciando invece parlare lo storico e il filosofo, il politologo, il sociologo e lo storico delle idee politiche. Proprio con l’antisemitismo la storicizzazione diviene un obbligo ermeneutico, delineando un procedimento di comparazione con le altre ideologie presenti sul mercato politico e delle idee. Si tratta, quindi, di studiare l’antisemitismo come qualsiasi altra ideologia, per individuare temi e percorsi che avrebbero poi condotto alla Shoah.

    Detto questo, è il caso di tornare alla nostra domanda iniziale: perché l’antisemita affida il suo discorso a palesi falsi?

    Fermo restando che «Il desiderio di falsificare […] può colpire chiunque, il colto come l’ignorante, l’onesto come il furfante»²², la nostra ipotesi storiografica è che il falso, in considerazione della sua manipolabilità, ben si adatta a creare il suo oggetto. Limitiamo lo spettro d’analisi ai falsi antisemiti, senza alcuna pretesa di generalizzazione, pur riconoscendo, ad esempio, che in passato il falso letterario aveva fornito un valido contributo alla formazione delle identità nazionali: «il falso letterario con finalità nazionali – è stato osservato – è il prodotto di un intellettuale che mette la letteratura al servizio della nazione nascente, o da poco risorta e bisognosa di una più  forte identità al cospetto delle altre nazioni»²³.

    Nel caso dell’antisemitismo non si tratta solo di costruire le false cause partendo da una situazione storicamente verificatasi, come ad esempio lo scoppio di una guerra o di una devastante crisi economica – per l’antisemita, entrambe provocate dall’ebraismo –, quanto di costruire con queste deduzioni e collegamenti, guerra-manovre dell’ebraismo ecc., l’oggetto verso cui dovrebbe indirizzarsi l’ostilità del lettore del falso. In altri termini, il contenuto del falso falsifica l’oggetto del falso medesimo – nel nostro caso, l’ebraismo –; e, una volta creato l’oggetto falso, si indirizza contro di questo l’indignazione del lettore.

    La falsificazione permette di accentuare l’indignazione del lettore perché, ricorrendo a questa pratica, si può affermare di tutto. Ma se l’oggetto, la cospirazione ebraica, è falso, la sua falsità è certamente attestata dalla realtà storica effettiva. E tuttavia, ad avviso dell’antisemita, la verità storica è attestata dalla vera realtà, quella nascosta: è quest’ultima, infatti, che conta.  Con i Protocolli e tutti gli altri falsi prodotti dall’antisemitismo siamo in presenza di una «falsificazione abusiva»²⁴ tesa a costruire una verità che dovrebbe sconvolgere il lettore, invitandolo a mobilitarsi senza indugi, prima che la cospirazione medesima non si realizzi pienamente, come ventilato nei falsi medesimi.

    Ora, l’antisemita ha questo di caratteristico: pretende di essere l’unico a conoscere l’ebreo, proprio perché lo combatte. Verrebbe da osservare che se la procedura con cui l’antisemita conosce il suo oggetto è falsa, altrettanto falsa è anche la sua conoscenza. Dall’episteme, rivendicata a più riprese dall’antisemita, tanto da presentarsi al pubblico nella veste politicamente neutrale dello scienziato sociale che opera allo stesso modo con cui si procede in un laboratorio di biologia, si retrocede al campo dell’opinabile, cioè della doxa, che l’antisemita tende a scrutare con orrore per almeno due motivi.

    Intanto, la doxa equipara le posizioni dell’antisemita a tutte le altre presenti sul mercato politico e delle idee. Quest’equiparazione costituisce un colpo mortale per la credibilità dell’antisemita, il quale si vanta di avere scoperto il segreto della storia – e delle disgrazie a questa connesse – nella cospirazione ebraica. Infine, la doxa presuppone una situazione di pluralismo delle idee: e il pluralismo, la democrazia ecc. sono situazioni storiche create dall’ebraismo per estendere il suo potere. In quanto rivendica la pretesa di essere una scienza attrezzata a spiegare le cause della storia e dei dolori e sofferenze che questa provoca negli uomini, l’antisemitismo non può accettare smentite o confronti con altre posizioni.

    Ma è il caso di osservare più da vicino Gohier e i suoi due falsi, collocandoli all’interno della visione cospirazionista della storia, tipica dell’antisemitismo, e dei problemi storiografici e teorico-politici che questa visione medesima presenta

    2. Un irregolare dell’antisemitismo

    Nella monumentale Bibliographie générale des droites françaises, pubblicata da Alain de Benoist²⁵, uno dei repertori molto utili, nonché vera e propria bussola per aggirarsi in un ambiente, quello della cultura della destra francese, vasto quanto frastagliato, mancano riferimenti a Gohier, autore di un’intensa pubblicistica, ma non certo da associare alla statura degli intellettuali di cui si fornisce l’accurata bibliografia, da Barrès e Drieu La Rochelle a Brasillach, da Maurras a Soury ecc. Si tratta, quindi, di una mancanza che trova il suo motivo nella constatazione che Gohier non fu un teorico – né, del resto, pretese mai di esserlo –, quanto un prolifico autore la cui pubblicistica fu spesso dettata dall’occasionalità: nessun paragone non solo con i vari Maurras e Drieu La Rochelle, ma col suo maestro Drumont, la cui intensa attività giornalistica si associò a pretese, più volte avanzate dalle colonne della «Libre Parole» il quotidiano da lui fondato, di fare filosofia, storiografia ecc.

    In un caso, si è anche incorsi in uno scambio di persone dovuto all’omonimia. Così, nell’Indice dei nomi della pregevole opera collettanea Histoire des droites en France Urbain Gohier è confuso con Louis Gohier, ministro della Giustizia nel 1793-94, quando viene scatenato l’attacco contro i Girondini²⁶, e al quale si deve una buona descrizione di Danton e della sua politica²⁷. È la conferma che Gohier ha ricoperto un ruolo marginale nel panorama della destra antipluralista francese, perché la sua fu una militanza limitata alla presenza nelle varie testate antisemite, senza aderire alle numerose sigle dell’area.

    E tuttavia, sono sufficienti i suoi due falsi per collocarlo ai primi posti nella galleria, peraltro folta, dei pubblicisti antisemiti. In ogni caso, «Il suo fanatismo e la sua longevità conferiscono a Gohier un rango eminente nella storia dell’antisemitismo francese, certamente dietro Drumont, ma davanti a molti altri»²⁸. A questo giudizio condivisibile, si può aggiungere che, sia per motivi biografici che per lo stile, Gohier è stato l’antisemita di collegamento fra l’antisemitismo classico di Drumont e della «Libre Parole» e, almeno nello stile arrabbiato, quello del Céline della seconda metà degli anni Trenta; di più: sarebbe difficile immaginare gli orribili pamphlets di un Céline, prescindendo da quelli di un Gohier²⁹.

    La destra radicale, essendo dotata di una granitica memoria storica – viene da osservare che è radicale proprio perché ben poco ritiene di rifiutare dei suoi maestri precedenti e delle vicende che li hanno visti protagonisti –, non ha mai dimenticato gli autori della sua galleria di riferimento. Così, Mon jubilé, un altro pamphlet pubblicato da Gohier nel 1934, un testo su cui ritorneremo, è stato ristampato in una collana dove figuravano, fra gli altri, testi di Jean Drault, Marcel Déat, Henry Coston, tutti autori coinvolti nel collaborazionismo, e l’immancabile Alfred Rosenberg³⁰. Non si fa, comunque, torto a Gohier, se lo si definisce un giornalista, al contrario, ad esempio, di un raffinato dottrinario come Déat ovvero, per rimanere alla galleria degli antisemiti di professione, di un George Montandon – peraltro in corrispondenza con l’autore del Diritto³¹ –, perché lo stesso Gohier ebbe a scrivere di sé stesso, quasi con orgoglio, di essere «un giornalista»³².

    I motivi della mancanza di attenzione nei confronti di Gohier li individueremmo, per un verso, nell’essere egli stato un isolato della politica francese, in particolare degli ambienti di estrema destra, che pure aveva frequentato, collaborando a numerose riviste dell’area.

    Per l’altro verso, la sua biografia si snoda lungo mezzo secolo, dagli anni precedenti lo scoppio dell’Affaire Dreyfus, quando era già impegnato nel giornalismo, a quelli dell’occupazione nazista della Francia, quando Gohier collaborò ad alcune testate collaborazioniste e antisemite, tra le quali «Au Pilori», «organo di provocazione» diretto dall’amico e sodale Jean Drault³³. Gohier, «fabbricante professionale di falsi»³⁴, rimase comunque un esponente del fitto sottobosco dell’antisemitismo francese, senza mai assicurarsi un vasto pubblico di uditori. Quando nel 1919 ventilò la possibilità di trasformare la sua rivista settimanale, di chiara intonazione antisemita, «La Vieille-France», in quotidiano, probabilmente col duplice obiettivo di rinverdire i fasti della «Libre Parole» degli anni della direzione del suo maestro Drumont e per dare vita a un quotidiano che fosse concorrenziale con la detestata «Action française», alcuni mesi dopo Gohier doveva concludere con amarezza che solo «ottanta lettori hanno risposto generosamente»³⁵ con sottoscrizioni; addirittura era a rischio la pubblicazione del settimanale medesimo.

    Definito da Kaufmann «Spirito ombroso»³⁶, un giudizio che non si discosta molto da quello  di Eugen Weber, secondo il quale Gohier era una «figura curiosa»³⁷, in Gohier l’irregolarità e l’isolamento nella politica si traducevano in posizioni spesso contrastanti: vicino agli ambienti monarchici agli inizi dell’impegno giornalistico, in seguito impegnato in prima linea negli anni roventi dell’Affaire Dreyfus a favore della causa dell’ufficiale francese, anticlericale e antimilitarista, tanto da essere processato con l’accusa di avere diffamato l’esercito in un suo scritto, L’Armée contre la Nation, in Gohier si è inteso vedere una «corrente dreyfusarda autenticamente antisemita»³⁸. Ad avviso di Gohier, infatti, con l’Affaire Dreyfus «La questione ebraica non c’entra nulla. Vi sono ebrei nei due campi»³⁹.

    Infine, agli inizi del secolo, non senza alcune influenze del pensiero di Proudhon⁴⁰, autore molto frequentato da alcuni intellettuali che gravitavano negli ambienti del nazionalismo francese, la svolta decisiva e definitiva in senso antisemita culminata, dopo alcuni anni, nella direzione temporanea della «Libre Parole», il quotidiano antisemita fondato e diretto da Drumont, assurto a teorico di riferimento anni prima con la pubblicazione dei due tomi della France juive e autore, appunto, dell’idea «disastrosa» di promuovere Gohier alla direzione del quotidiano⁴¹.

    Non è questa la sede per un’analisi della profonda influenza di Proudhon sulla cultura politica della destra nazionalrivoluzionaria del Novecento, in particolare di quella francese⁴². Engels non era stato un buon profeta quando, nel 1888, aveva sostenuto che in Francia il proudhonismo, almeno nel movimento operaio, «andava […] esaurendosi»⁴³. In sede storiografica si è rilevato che il richiamo nazionalrivoluzionario a Proudhon trovava le sue motivazioni nelle posizioni nazionaliste e negli attacchi all’ebraismo presenti negli scritti proudhoniani, tanto che si è sostenuto che «i nazisti e i loro collaboratori hanno stimato che Proudhon era stato un vero precursore del pensiero fascista»⁴⁴. Che il fascismo in alcune sue voci, quasi sempre nei teorici del regime provenienti dalla precedente esperienza sindacalista rivoluzionaria ovvero arrivati a Proudhon attraverso il confronto con l’opera di Sorel, si fosse talvolta richiamato a Proudhon, è ben noto. Rimaniamo al caso francese. La chiave di lettura dell’influenza di Proudhon sulla cultura politica nazionalrivoluzionaria crediamo sia soprattutto un’altra: il richiamo a Proudhon come l’anti-Marx, il Sistema delle contraddizioni economiche contro Il Capitale; ancora una volta, veniva contrapposta la Filosofia della miseria alla Miseria della filosofia.

    Fuor di metafora, per una destra nazionalrivoluzionaria intenzionata a reperire udienza in quei settori del mercato politico costituiti dalle classi subalterne, risultava agevole sviluppare una critica del capitalismo richiamandosi alla lezione proudhoniana, senza alcuna concessione al marxismo. Ogni volta che la cultura politica nazionalrivoluzionaria, almeno nel caso francese, ha inteso sviluppare una critica del capitalismo, Proudhon è stato l’immancabile punto di riferimento, semmai talvolta conteso alla cultura politica della sinistra: con Proudhon si poteva sviluppare una critica del capitalismo, e dunque trovare udienza presso le classi subalterne, senza passare per le forche caudine di Marx. Agli occhi di una destra germanofoba e antisemita (i due temi, anche per un Gohier, procedevano all’unisono, ben prima

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