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Il Mein Kampf di Adolf Hitler: Analisi
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E-book1.605 pagine8 ore

Il Mein Kampf di Adolf Hitler: Analisi

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Il Mein Kampf (La mia battaglia), la biografia politica di Adolf Hitler, viene accompagnato da una serie di saggi critici di studiosi italiani e stranieri. Per comprendere al meglio un testo molto citato, ma poco letto.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2020
ISBN9788894032451
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    Anteprima del libro

    Il Mein Kampf di Adolf Hitler - Vincenzo Pinto

    Alessandra

    Introduzione

    Dalle aule alle aule: la mediazione del populismo nazista

    La traduzione di un testo politico, specie se espressione di un movimento o di un partito che incita al reato e alla propaganda intesi all’odio razziale (secondo la legge n. 115 del 16 giugno 2016, che inserisce l’aggravante penale alle affermazioni negazioniste della Shoah, in aggiunta alla legge cd. Mancino n. 205 del 25 giugno 1993), può creare non pochi problemi a una moderna democrazia occidentale (come quella italiana), poiché, in teoria, essa fornirebbe materiale utilizzabile ai fini propagandistici proprio ai sedicenti negazionisti. Sappiamo come la legge n. 645 del 20 giugno 1952 (cd. Scelba), aggiungendosi alla XII disposizione finale della Costituzione italiana, sanzionò il reato di apologia del fascismo, impedendo o, quantomeno, sfavorendo la ricreazione di un forte partito di destra nell’arco politico italiano (peraltro già pervaso dalla conventio ad excludendum a sinistra). Il dibattito sulla cd. legge contro il negazionismo della primavera scorsa è stato prettamente di natura politica: per alcuni, il negazionismo è un fenomeno puramente politico e quindi va trattato alla stregua di un attacco ai valori democratici fondanti e salvaguardati dalla Costituzione; per altri, il negazionismo è anche un fenomeno culturale e va quindi combattuto con le armi dell’educazione e della formazione. Pur essendoci comunione di vedute sugli obiettivi finali (eliminare o,  quantomeno, limitare le falsificazioni degli eventi passati, specie se portatrice di valori come il razzismo, l’odio per il diverso, ecc.), le due fazioni in lotta si sono divise sullo strumento da utilizzare: quello legislativo per gli uni, quello culturale per gli altri¹.

    La legge sul negazionismo modifica l’articolo 3 della legge n. 654 del 13 ottobre 1975 (che recepiva la Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale):

    È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.  Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.  Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.

    Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in  modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini  di  guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte  penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12  luglio  1999, n. 232.

    La legge, che è stata salutata da una buona parte dell’opinione pubblica come una pagina storica (secondo le parole di Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)², malgrado la restrizione introdotta ai soli luoghi pubblici, ha sollevato subito un problema accessorio. Quello che vale per l’arena politica vale anche per la cultura? In altre parole, se un libro contiene messaggi d’incitazione all’odio razziale, etnico, nazionale e religioso (quello classista-sociale è ritenuto lecito, per ragioni storiche e politiche)³, allora è pubblicabile? Se sì, quali sono i suoi margini di circolazione e di redazione? Naturalmente, il dibattito è stato subito animato dall’operazione editoriale condotta dal Giornale della famiglia di Berlusconi che, a tre giorni dall’approvazione definitiva alla Camera della legge contro il negazionismo, ha pensato di allegare gratuitamente il Meni Ampi quale primo volume di una serie di testi dedicati al Terzo Impero. L’operazione, che lo stesso Gattegna ha definito indecente e un fatto squallido, perché lontana anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza, ha indubbiamente approfittato dell’onda lunga del dibattito sulla legge contro il negazionismo (oltre a spiegarsi con la pregiudiziale antitedesca cavalcata dall’editore milanese), ma ne ha immediatamente messo in luce i limiti intrinseci: da una parte, il provvedimento legislativo intende colpire l’uso politico della cultura, ma, dall’altra, non è in grado di fornire un’adeguata cornice istituzionale alla cultura che andrebbe in qualche modo permessa e consolidata.

    Come abbiamo detto, l’incitamento all’odio razziale in forma associativa e propagandistica è reato in Italia sostanzialmente da quarant’anni. La legge cd. Mancino prima e quella sul negazionismo poi l’hanno arricchito di un ulteriore aggravante (recependo, peraltro, la decisione quadro dell’Unione Europea sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia dell’aprile 2008)⁴, finendo per soffocare un dibattito (questo sì culturale ed educativo) sul materiale utilizzabile per contrastare le forme di intolleranza. Il Mein Kampf è notoriamente uno dei testi più disprezzati e sottovalutati della storia del pensiero politico contemporaneo, per motivi piuttosto evidenti: è l’autobiografia di uno dei più grandi responsabili di genocidi di massa della storia; è un testo propagandistico dallo stile involuto. Ma, come sappiamo, non è il contenuto in sé a fare notizia nell’epoca dell’homo videns, semmai il suo apparato simbolico complessivo, l’immaginario retrostante. Il simbolo finisce per oscurare il contenuto del libro, indipendentemente dal suo valore estetico e letterario (che è quasi nullo nel caso specifico, a dire il vero). Il contenuto, peraltro, è quello di un pamphlet politico di un leader populista, che ha l’obiettivo di attaccare il fragile sistema democratico di un paese alla ripresa con la difficile ricostruzione postbellica, la cui classe dirigente è disposta ad adempiere ai diktat delle potenze vincitrici per dimostrare la propria responsabilità di fronte al mondo. Se non fosse che Hitler espose con luciferina lucidità la sua interpretazione politica dell’antisemitismo che, col senno di poi, ha prodotto inenarrabili tragedie umane, simboleggiate dalla Shoah, cioè dal genocidio del popolo ebraico.

    Mentre la classe politica democratica sostiene la positività del provvedimento legislativo (con tutti i limiti del restringimento al solo ambito pubblico), i sostenitori della libertà di espressione appartenenti ai vari schieramenti politici ricorrono sostanzialmente a due posizioni: l’argomento boomerang e il tu quoque. Il primo ritiene che la legge, anziché scoraggiare il fenomeno del negazionismo, finirà per aumentare suoi sostenitori per mero spirito contraddittorio: ciò che è vietato, va affermato. La formazione e l’educazione sarebbero gli unici mezzi per disinnescare le frange negazioniste (peraltro minoritarie a destra come a sinistra, se non strumentalmente). Il secondo argomento (più populistico) ritiene quella legge l’espressione di una potentissima lobby che stritola la democrazia italiana (e non solo lei): quella ebraico-sionistica-americana. Partendo dall’analogia (figura retorica politicamente efficace nell’epoca mediatica), essa ritiene di poter delegittimare qualsiasi intervento legislativo non in base al suo contenuto (più o meno condivisibile), ma al suo sostenitore: non essendo senza peccato, egli (in questo caso la comunità ebraica filo-israeliana) non può scagliare la prima pietra. Entrambe queste posizioni non affrontano, però, il nodo della libertà d’espressione alla luce dell’uso politico della parola scritta che i testi di personaggi storicamente controversi possono suscitare: che dire, infatti, di Mao, Stalin, Pol Pot e dello stesso Mussolini? Tralasciando i fondatori delle grandi religioni monoteistiche, i cui testi sono utilizzati a giustificazione di guerre più o meno sante, il tema specifico è come tradurre un testo così controverso per un pubblico possibilmente vasto, evitando di cadere nell’apologia oppure nella demonizzazione. In altre parole, il Mein Kampf è traducibile così com’è, quale mero documento del passato? Va discusso nei luoghi opportuni dai soli addetti ai lavori? Va pubblicato con un apparato critico che ne mascheri i perversi meccanismi razziali?

    Questa raccolta di saggi ha l’obiettivo di accompagnare l’edizione critica del Mein Kampf, approfondendo alcuni problemi sollevati dal testo. In particolare, tre ci sono apparsi gli ambiti particolarmente rilevanti: la storia della ricezione del testo, l’analisi del contenuto e l’uso didattico. Innanzitutto abbiamo ripercorso la genesi e la diffusione del Mein Kampf nel periodo interbellico e nel dopoguerra, concentrandoci soprattutto su tre scenari: quello italiano, quello neo-nazista tedesco e il mondo arabo. Ci siamo poi concentrati sul testo, in particolare sull’analisi retorica e sulla logica (come detto, particolarmente innovativa proprio perché strutturalmente figlia della letteratura d’appendice di fine Ottocento). Infine, ci siamo dedicati all’uso possibile del testo soprattutto nelle lezioni di storia nelle scuole superiori. Il tema, che vanta ormai un ampio consenso in Germania, sarà presto terreno di scontro anche in Italia. Specialmente oggi, di fronte all’irresistibile e inevitabile processo di globalizzazione, le spinte xenofobe e populiste sembrano riattivare vecchi meccanismi identitari contrari alla metabolizzazione della diversità. Per fare un serio passo in avanti è bene prima chiudere definitivamente una stagione passata. E i giovani, in particolare, hanno l’ingrato compito di farsene carico, laddove la generazione dei nonni e dei genitori, per vari motivi (politici, identitari, ecc.), non hanno avuto il coraggio o la possibilità di farlo.

    L’opera, come il volume I, è dedicata alla memoria di mia moglie Alessandra, che ha sostenuto il progetto editoriale e, più in generale, il nostro pesante fardello di dover avvicinare dei mondi che non tendono a parlarsi, ma che si disprezzano e si odiano a vicenda. I saggi dall’inglese e dal tedesco sono stati integralmente tradotti da me. Alessandra ha avuto la forza, negli ultimi giorni di salute, di iniziare la traduzione del saggio di Vordemeyer sull’edizione critica tedesca. Mi auguro che il suo ultimo gesto d’amore segni anche l’inizio di una nuova stagione intellettuale e morale nel nostro paese.

    Torino, maggio 2017

    L’edizione critica tedesca

    L’edizione scientifica del Mein Kampf di Hitler

    di Thomas Vordermayer

    L'edizione critica del Mein Kampf [fonte: http://www.ifz-muenchen.de]

    I diritti di sfruttamento della casa editrice Franz Eher di Monaco, che nel 1925-26 pubblicò la prima edizione del primo e secondo volume del Mein Kampf⁷ di Adolf Hitler, sono appartenuti al ministero delle Finanze bavarese dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ma sono scaduti, settant’anni dopo la morte dell’autore, alla fine del 2015 e sono diventati, quindi, di pubblico dominio. La politica di impedire fermamente la riproduzione del testo hitleriano universalmente noto non potrà più essere perseguita dal gennaio 2016. Chiediamoci dunque: com’è possibile trattare quest’eredità in maniera politicamente responsabile e scientificamente adeguata? Come si potrà impedire uno sfruttamento economico del Mein Kampf? Proprio per approntare una strategia adeguata alla sua pubblicazione, nell’aprile 2012 si sono riuniti in una tavola rotonda a Norimberga i rappresentanti del governo bavarese, gli studiosi, i prelati e gli esponenti delle comunità ebraiche di Monaco e della Baviera superiore. Il risultato di queste consultazioni è stato l’incarico, affidato all’Istituto di storia contemporanea di Monaco-Berlino (IfZ), di preparare un’edizione critica entro la fine del 2015. Per la ricerca scientifica si tratta di una grossa chance: c’era finalmente la possibilità di curare un’edizione critica completa sia delle fonti autobiografiche di Hitler, sia di documenti-chiave fondamentali per comprendere l’ideologia nazionalsocialista. Il progetto editoriale consente anche di colmare quei vuoti testuali hitleriani risalenti alla fase di lotta del movimento nazionalsocialista. L’edizione critica del Mein Kampf corona per così dire l’edizione in più volumi del testo Hitler: Reden, Schriften, Anordnungen (Hitler: discorsi, scritti, disposizioni), curata dello stesso Istituto tra il 1992 e il 1998, che riguardava il periodo compreso tra la rifondazione della Partito nazionalsocialista (febbraio 1925) e la presa del potere (1933)⁸.

    Al centro del progetto vi è unicamente la dimensione scientifica dell’opera: non sono toccate le questioni storico-politiche. Perciò risultano più interessanti gli scopi e le sfide dell’apparato critico rispetto alla costruzione dei commenti scientifici.

    Edizione a stampa e offerta online del Mein Kampf [fonte: Sebastian Schmitz, RWTH, Aquisgrana]

    1. L’apparato critico

    La base testuale dell’edizione critica sono le prime edizioni del primo e del secondo volume del Mein Kampf (1925-27). Poiché il manoscritto, tranne alcuni frammenti⁹, non ci è pervenuto, esse rappresentano la più vecchia stesura del testo a noi nota. Sappiamo da tempo che, durante gli anni della Repubblica di Weimar e del Terzo Impero, ci furono dei rimaneggiamenti alla prima edizione¹⁰. Si trattò quasi esclusivamente di correzioni stilistiche passate sotto silenzio e riguardanti l’ortografia e la sintassi, così come gli svarioni particolarmente grossolani¹¹. Per quanto riguarda le correzioni stilistiche e contenutistiche¹², a partire dal 1925 gli interventi stilistici e contenutistici non furono omogenei né qualitativamente, né quantitativamente parlando. Il nucleo centrale del Mein Kampf è rimasto sostanzialmente immutato nella sua ventennale storia editoriale. La prima edizione non rappresenta, dunque, una bozza momentanea, rimaneggiata continuamente sino al 1945. Di correzioni vere e proprie non ce ne furono. Hitler non riteneva che ci fosse alcun motivo per modificare radicalmente il suo testo, segno eloquente del fenomeno di un precedente consolidamento, a dimostrazione del suo intero pensiero e immaginario¹³. Hitler reagì sempre bruscamente a possibili correzioni del testo¹⁴.

    Siamo a conoscenza solo di un’interferenza sostanziale nella versione originaria. Essa fu compiuta in occasione della pubblicazione della prima edizione popolare e riguardò la struttura interna del partito. Nel 1925 Hitler aveva espresso il principio della democrazia germanica, secondo cui gli uffici di partito avrebbero dovuto essere ricoperti solo per via di un’elezione interna¹⁵. Il che contraddiceva il principio del capo che si era andato consolidando in quegli anni e, quindi, l’espressione fu cancellata nel 1930. L’espressione fu sostituita con principio dell’assoluta autorità del capo: in futuro il presidente sarebbe stato sempre nominato dal suo diretto superiore e sarebbe stato responsabile solo verso di lui¹⁶. Non sappiamo chi abbia riformulato tecnicamente l’espressione. La paternità si deve probabilmente a Hitler stesso. Senza il suo esplicito consenso, sarebbe stata possibile una tale interferenza contenutistica? È probabile che le numerose modifiche stilistiche non siano state fatte da Hitler. Ma i nomi degli autori non ci sono giunti¹⁷.

    Nell’edizione critica le modifiche testuali del Mein Kampf nel periodo compreso tra la pubblicazione della prima edizione e la fine del Terzo Impero sono documentate nell’apparato critico-testuale. In considerazione delle oltre mille edizioni e non meno di 12,4 milioni di esemplari tedeschi stampati¹⁸, è chiaro che non si poteva tener conto di ogni singola edizione. La selezione deriva anche dal bisogno di chiarezza. Per identificare le edizioni soggette alle revisioni testuali abbiamo confrontato in un’analisi campione il contenuto di due capitoli della prima edizione nelle trentotto edizioni¹⁹. Su questa base abbiamo scelto le sette edizioni in cui erano riscontrabili le maggiori interferenze:

    - la seconda degli anni 1926-29;

    - la citata prima edizione popolare del 1930;

    - la diciassettesima edizione popolare, apparsa nel 1933;

    - l’edizione per il giubileo del 1939;

    - la prima stampata su carta India del 1940;

    - le edizioni popolari 1027-1031, apparse nel 1944, le ultime versioni testuali a noi note del Mein Kampf.

    L’obiettivo dell’apparato critico-testuale non è, quindi, una perfetta raffigurazione e un’esatta datazione di tutte le varianti testuali – partendo dal nucleo immutato del testo: questo lavoro da certosino non avrebbe condotto a particolari risultati conoscitivi. L’apparato critico-testuale dell’edizione critica, con l’aiuto del campione comparativo scelto con attenzione, deve piuttosto contribuire all’analisi della genesi testuale, condotta finora solo sommariamente, e, quindi, alla storia della pubblicazione e della ricezione del Mein Kampf sino al 1945.

    2. Elementi fondamentali del commento

    Il Mein Kampf presenta, a livello contenutistico e ideologico, numerosi livelli sovrapposti e spesso bruscamente separati. Accanto a un miscuglio di biografia, di trattato ideologico e di dottrina tattica²⁰, Hitler si sforzò di idealizzare e di stilizzare le origini del movimento nazionalsocialista, che molti suoi contemporanei ritenevano ormai esaurito dopo il fallito putsch del 9 novembre 1923. Inoltre, Hitler fece del Mein Kampf la piattaforma di un progetto in parte vago e in parte concreto di ordine mondiale e sociale nazionalsocialista, che al pubblico degli anni venti doveva certamente apparire velleitario. L’incoerenza contenutistica del Mein Kampf richiede numerose integrazioni e tipologie di commento. Le tre principali saranno illustrate qui di seguito con l’ausilio di una selezione testuale. Si tratta quindi: 1) di rivelare le radici intellettuali del testo e – per quanto possibile – di ricostruire le fonti primarie di Hitler; 2) di completare e di correggere descrizioni e osservazioni unilaterali e distorte; 3) di confrontare le intenzioni politiche espresse nel Mein Kampf con la realtà del Terzo Impero.

    a) Le radici intellettuali del Mein Kampf e le fonti di Hitler

    Il compito del commento è innanzitutto quello di documentare le principali radici e tradizioni intellettuali su cui si basava la visione del mondo hitleriana e il cui effetto era direttamente riscontrabile nel Mein Kampf. Per capire su quale materiale si basasse lo scritto hitleriano e per quale motivo il Mein Kampf fosse comprensibile a una parte della popolazione tedesca, i contenuti vanno collocati nel loro contesto intellettuale. Quindi, vanno innanzitutto considerati quegli autori le cui opere sono indissolubilmente legate alla crescente importanza assunta dal pensiero razzista, antisemita, socialdarwinista e pessimista nell’ultimo terzo del lungo XIX secolo e alla graduale formazione del movimento nazionalpopolare²¹. Pensiamo, quindi, ad Adolf Bartels, Houston Stewart Chamberlain, Heinrich Claß, Theodor Fritsch, Ernst Haeckel, Paul de Lagarde o Julius Langbehn. I passi del Mein Kampf che rimandano più o meno direttamente al contenuto ideologico di questi autori e di altri ideologicamente affini, sono stati analizzati nel commento. Di particolare interesse è capire se tali idee si siano riversate in gran parte immutate nel Mein Kampf oppure in forma selettiva, enfatizzata, semplificata o, in ogni caso, originale.

    Altro esempio: nel Mein Kampf Hitler rimprovera spesso alla borghesia tedesca una fissazione sull’oggettività, cioè un punto di vista oggettivo. Egli ritiene di dover sostituire le valutazioni intellettuali e le differenziazioni con il contro-veleno di un’assunzione inesorabile e spietata dello scopo desiderato²². Abbiamo numerosi precursori di questo rigido antirazionalismo; il commento rinvia soprattutto al pamphlet Rembrandt als Erzieher (Rembrandt come educatore) di Julius Langbehn (1890) che, dopo la sua pubblicazione, divenne rapidamente uno degli scritti critici più influenti della società guglielmina²³ e che contiene una veemente requisitoria contro la presunta falsa oggettività delle scienze²⁴. Quando Hitler formula la convinzione, centrale nella sua visione del mondo, che tutta la storia e l’esistenza umana si basino sul principio sempiterno e immutabile di una dura e inesorabile lotta per l’esistenza²⁵, l’edizione critica rimanda alla tradizione di  tale immagine del mondo socialdarwinista nella storia intellettuale tedesca ed europea di fine Ottocento e inizio Novecento. Molti scrittori e scienziati applicarono in modo fuorviante la teoria evoluzionistica e selettiva darwiniana alla storia e alla società umane, allora in voga, e fecero di principî come la selezione naturale e il diritto del più forte la guida della politica estera e coloniale, così come dell’ordine sociale²⁶.

    Per descrivere le radici storico-intellettuali del Mein Kampf non sono stati considerati solo i precursori appartenenti al movimento nazionalpopolare tedesco. In alcuni passi testuali è stato necessario coinvolgere anche autori stranieri. Recentemente è stato rilevato l’influsso importante esercitato dal libro The Passing of the Great Race (Il tramonto delle grandi razze) dell’ideologo razziale americano Madison Grant (1925) durante la stesura del Mein Kampf²⁷. Lo stesso vale per il famigerato opuscolo di Henry Ford The International Jew (L’ebreo internazionale), che, nel 1922, Hitler inserì in una lista di libri che ogni nazionalsocialista doveva conoscere e che poi fu riprodotto nei documenti di partito²⁸. Il significato degli autori internazionali si può dedurre anche dallo scrittore e diplomatico francese Joseph Arthur de Gobineau. L’ideologema confluito nel Mein Kampf, secondo cui l’ariano sarebbe l’unico portatore di civiltà²⁹, è direttamente riconducibile all’Essai sur l’inégalité des races humaines di Gobineau (1853/55). Anche la convinzione gobineauiana che ogni miscuglio razziale conduca inevitabilmente al declino del livello culturale della razza superiore del momento, si trova nel Mein Kampf³⁰.

    Gobineau fu recepito in Germania specialmente nella cerchia di Bayreuth intorno a Richard Wagner³¹, prima che il suo saggio facesse il suo ingresso nel canone letterario nazionalpopolare grazie alla traduzione di Ludwig Schemann (Versuch über die Ungleichheit der Menschenracen, 1898-1902)³². Nel caso di Gobineau, resta da chiarire se Hitler venne a contatto con il pensiero del teorico razziale francese direttamente oppure indirettamente grazie ad autori terzi non più individuabili, che erano a loro volta influenzati da Gobineau³³. Una risposta a tale questione è complicata dal fatto che Hitler, preoccupato da autodidatta di suscitare il sospetto di dipendenza intellettuale³⁴, evitava se non in rari casi di nominare per nome gli autori sui quali si basava. Allo stesso tempo, possiamo ritenere quali plausibili fonti dirette numerosi autori e opere non nominate. Si pensi ad Hans F.K. Günther e al suo popolare Rassenkunde des deutschen Volkes (Antropologia razziale del popolo tedesco, 1922), da cui Hitler trasse numerosi concetti razziali³⁵.

    Uno di quelli autori ai quali Hitler riconobbe espressamente un’affinità intellettuale fu Gottfried Feder. Il suo merito nella lotta contro il capitale borsistico e mutuato internazionale³⁶ fu rilevato espressamente nel Mein Kampf. Particolarmente influente fu lo scritto federiano Der Deutsche Staat auf nationaler und sozialer Grundlage (Lo Stato tedesco su base nazionale e sociale, 1923), che Hitler introdusse e che inserì nel nucleo essenziale della letteratura nazionalsocialista³⁷. Da esso Hitler ha tratto, per esempio, l’idea che il membro dello Stato tedesco dovesse guadagnarsi concretamente la cittadinanza e che andasse privato di  questo onore in presenza di un’infrazione contro le massime spirituali ed etiche nazionalpopolari³⁸. Questo non significa che non fossero accertabili delle differenze tra il Mein Kampf e gli scritti coevi che possono aver anche solo ipoteticamente influenzato il pensiero hitleriano. Il monito federiano di fronte a una valutazione unilaterale delle esercitazioni corporee nelle questioni educative³⁹ contrastava direttamente con gli ideali educativi hitleriani che, nel Mein Kampf, collocarono espressamente l’allevamento di corpi sani, oltre che la formazione delle capacità spirituali e lo sviluppo del carattere⁴⁰. Porre l’attenzione su queste discrepanze è tanto più importante quanto poter rispondere alla domanda fino a che punto Hitler riproducesse in modo epigonale un patrimonio di idee già esistenti e lo radicalizzasse, lo trasformasse e, non ultimo, lo combinasse in maniera creativa.

    b) Correzione di rappresentazioni unilaterali e di affermazioni distorte

    Nel cascame di rimproveri con cui gli avversari politici e ideologici del nazionalsocialismo furono sommersi nel Mein Kampf, vi era anche la loro presunta predisposizione alla falsità intenzionale⁴¹. Che proprio la predisposizione alla menzogna e alla semplice polemica sia uno dei caratteri essenziali del Mein Kampf è rilevato nel commento attraverso la correzione obiettiva di descrizioni o affermazioni volutamente unilaterali o distorte.

    Oggetto di discussioni sin nel XXI secolo: Mein Kampf [fonte: Sebastian Schmitz, RWTH Aquisgrana]

    Sono state rettificate innanzitutto le espressioni e le descrizioni autobiografiche agli esordi del Partito nazionalsocialista, dove è particolarmente lampante quel processo pianificato di auto-stilizzazione⁴² che Hitler portò avanti durante la stesura del Mein Kampf. Esemplare è il rimando alla descrizione hitleriana della cosiddetta adunanza costitutiva del Partito nazionalsocialista nello Hofbräuhaus di Monaco del 24 febbraio 1920, in cui Hitler lesse il programma dei Venticinque punti. I partecipanti a quell’adunanza sono presentati nel Mein Kampf come una comunità ideologicamente omogenea e affiatata di persone politicamente sintoniche, che avrebbero salutato tutto il contenuto del programma di partito con un giubilo crescente⁴³. Qui Hitler ha cercato di eliminare un centinaio di oppositori appartenenti ai socialdemocratici indipendenti e ai comunisti, che parteciparono alla manifestazione e che la disturbarono continuamente con interventi ad alta voce⁴⁴. Questo aspetto sottaciuto è segnalato nel commento. Analoghi stilizzazioni e occultamenti percorrono numerosi passi testuali autobiografici. La vita di Hitler immediatamente successiva alla Prima guerra mondiale appare nel Mein Kampf come una sorta di passione: dopo la fine della guerra, così scrive nel capitolo 9-I dedicato al Partito tedesco dei lavoratori, Hitler era del tutto povero e nullatenente⁴⁵. In questo passo l’edizione informa, tra l’altro, sulle entrate regolari che Hitler ricevette sino al 1920 in qualità di membro dell’esercito e che gli permisero di condurre un’esistenza dignitosa⁴⁶.

    Distorsioni calcolate e affermazioni volutamente false caratterizzano, infine, anche le descrizioni hitleriane dei suoi avversari politici, così come i suoi attacchi nei loro confronti. Se nel Mein Kampf si riporta che i veri capi di tutti i partiti weimariani sono sempre e soltanto ebrei⁴⁷, il commento illustra non solo la tradizione di questo topos antisemita⁴⁸, ma mostra anche l’assurdità dell’affermazione hitleriana con scarne informazioni obiettive sugli allora presidenti di partito dei principali partiti weimariani⁴⁹.

    c) Confronto con la prassi politica nel Terzo Impero

    Soprattutto il secondo volume contiene numerosi passi in cui Hitler aggiunse alla sua invettiva polemica contro l’ordinamento politico della Repubblica di Weimar le espressioni programmatiche di come dovessero essere trasformate la politica e la società del futuro Stato nazionalpopolare⁵⁰. Il fatto che Hitler avesse riflettuto profondamente e, accanto all’interpretazione del presente, potesse presentare un progetto sull’avvenire, Joachim Fest l’ha descritto a ragione come uno sforzo pretenzioso⁵¹ del libro. Hitler diede particolare importanza ai principî educativi dello Stato nazionalpopolare⁵² e alle massime di una futura politica estera; lo spettro tematico comprende tuttavia molti altri ambiti. Sono discussi i problemi della sterilizzazione coatta di Stato⁵³, nonché altri relativamente marginali come il diritto all’adozione, che andava subordinato all’ideale e all’interesse dell’igiene razziale⁵⁴.

    Le concezioni hitleriane della politica estera presenti nel Mein Kampf anticipano inequivocabilmente la conquista del nuovo spazio vitale a Oriente: non può essere la svolta occidentale oppure orientale, semmai la politica orientale nel senso dell’acquisizione della zolla necessaria al nostro popolo tedesco⁵⁵. Formulando anche altrove il dogma razziale che la germanizzazione è possibile solo della terra, giammai degli uomini⁵⁶, il Mein Kampf accenna alla successiva politica d’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale. La convinzione immutabile che la popolazione autoctona di uno spazio vitale non potesse mai essere integrata nel collettivo biologico-razziale della comunità nazionalpopolare, lasciava presagire in ultima istanza tre opzioni per la politica d’occupazione: l’espulsione, l’asservimento o l’annientamento⁵⁷.

    Evidenti concordanze tra il Mein Kampf e la prassi politica dello Stato nazista non devono tuttavia impedire uno sguardo sulle discontinuità e sulle contraddizioni che derivano in ogni caso da un loro confronto. Naturalmente il Terzo Impero non mantenne tutte le richieste e le promesse formulate nel Mein Kampf e in altri scritti centrali della fase di lotta. L’annuncio hitleriano di una limitata differenziazione dei meriti⁵⁸ da realizzare in futuro (cioè di una riduzione delle differenze salariali tra operai e altri gruppi professionali) non ebbe alcuna importanza nella concreta politica economica nazista. Al contrario, un blocco salariare imposto dallo Stato nel 1933 congelò il reddito degli operai sul basso livello della crisi economica mondiale⁵⁹. Contraddizioni di questo genere sono state contrassegnate nel commento. In generale, rispetto alle dichiarazioni d’intenti e ai progetti futuri hitleriani esposti nel Mein Kampf, si può concordare con Ian Kershaw, secondo cui il libro non contiene alcun programma politico dettagliato, ma una chiara esposizione dei principî politici e dell’immagine del mondo hitleriani, così come della sua ‘visione’ della società e dei suoi obiettivi di lungo periodo⁶⁰.

    Questa circostanza è nota da tempo. Tanto più sorprendente e sconcertante è la tesi sostenuta di recente da Wolfgang Benz, secondo cui Hitler nel Mein Kampf non avrebbe fatto trapelare nulla di come avrebbe voluto cambiare lo Stato e la società se ne avesse già avuto la possibilità"⁶¹. Quest’interpretazione è comprensibile solo in base a una conoscenza superficiale del testo. Anche il semplice verdetto di una fondamentale banalità del documento⁶² è discutibile a uno sguardo più attento del Mein Kampf. Certo, non è difficile individuare alcuni passi testuali di notevole e involontaria comicità. Si pensi solo al passo iniziale spesso citato del capitolo 11-I (Popolo e razza), in cui le ‘uova di Colombo’ esistono da centinaia di migliaia di anni, ma i Colombo sono diventati rari e Hitler, osservando la sessualità umana, evoca la legge sin troppo naturale della riproduzione, quindi il fringuello va col fringuello, la cicogna con la cicogna, il lupo con il lupo e, alla fine, il topo di casa con il topo di casa⁶³. Vedere in questo passo la sintesi di tutto il testo sarebbe un errore e, in ultima istanza, una prosecuzione di quella incredibile storia della sottovalutazione"⁶⁴ che ha accompagnato a lungo il Mein Kampf. È corretto piuttosto l’avvertimento che il Mein Kampf non spiega l’ascesa al potere di Hitler⁶⁵. La pretesa che una fonte storica prodotta alla metà degli anni venti debba spiegare gli eventi futuri, è irrealistica. Il commento obiettivo e accurato di un’edizione scientifica che, fra l’altro, chiarisce la diffusione e i legami sociali di diversi ideologhemi hitleriani, può tuttavia ovviare efficacemente a questo limite.

    Storia del libro

    Il contratto del Mein Kampf

    Note sul percorso politico della traduzione di Angelo Treves⁶⁶

    di Giorgio Fabre⁶⁷

    1. Il traduttore⁶⁸

    Intanto Valentino Bompiani, preoccupatissimo per i ritardi di un’edizione ormai pronta – in fondo, stava anche pagando di suo – premeva su Roma con lettere e telegrammi per ottenere la prefazione promessa. Senza prefazione non poteva concludere. E il ministero degli Esteri italiano, insieme all’Ufficio stampa di Mussolini, continuava a sua volta ad appoggiare le richieste, con lealtà e tempestività. Quanto all’ambasciatore italiano a Berlino, Cerruti, su sollecitazione di Roma aveva continuato a rivolgersi al Cancelliere, ripetendo la sua richiesta della prefazione. Ma Hitler tergiversava. Addirittura, nel gennaio 1934, tirò fuori un nuovo motivo per rimandare tutto: un misterioso terzo volume messo in cantiere per confutare le critiche agli altri due sollevate in vari paesi. Sarebbe stato meglio aspettare quello – sostenne con l’ambasciatore – e poi pubblicare anche gli altri due.

    È una vicenda che ha una sua piccola spiegazione. Il libro per antonomasia dei nazisti, il Mein Kampf, aveva davvero messo in imbarazzo i tedeschi sul piano internazionale. Probabilmente essi ritenevano che l’uscita dell’edizione italiana, con i soliti passi controversi ma questa volta tradotti, avrebbe potuto rinforzare le obiezioni politiche avanzate dall’estero. Per il terzo volume, davvero Hitler, tempo addietro, aveva dettato (e proprio a Max Amann) un nuovo volume dedicato alla politica estera. Era successo nell’estate del 1928, ma non era mai uscito e non molti ne erano a conoscenza. Lo si sarebbe potuto leggere solo molti anni più tardi, nel 1961⁶⁹. All’occasione e secondo l’opportunità, Hitler tirava fuori l’idea di pubblicarlo. Questa era una delle volte.

    Ciò per quanto riguarda i tentennamenti di Hitler. Quanto alla Eher Verlag, interpellata direttamente da un Bompiani sempre più agitato, il 14 febbraio diede una risposta anche più deludente: la casa editrice infatti negò del tutto che Hitler potesse scrivere introduzioni per le edizioni estere. Addirittura – pretendendo di citare il contratto datato 30 maggio 1933 e rivelandone così l’esistenza – la Eher Verlag chiese direttamente a Bompiani una cosa nuova: di rivedere la traduzione. Ma nel contratto non c’era nessuna clausola che imponesse una revisione del genere. Gli italiani si erano tutelati in questo senso, e avevano lasciato ogni libertà di scelta, su un eventuale traduttore, alla futura casa editrice. Così come stanno le cose, si è in grado solo di sostenere che si trattò di un altro caso di furbizia, questa volta da parte dei tedeschi. Del resto, fu una partita che di gesti furbi ne conobbe diversi.

    E non è finita. Quel 14 febbraio 1934, data della risposta della Eher Verlag, fu cruciale per un’altra vicenda fondamentale, parallela ma strettamente legata a questa. Quel giorno l’Osservatore Romano pubblicò la notizia, con le motivazioni, della messa all’indice di Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo) di Alfred Rosenberg. Il libro, pubblicato per la prima volta a Monaco nel 1930, era stato colpito dal Sant’Uffizio sette giorni prima, il 7 febbraio 1934, con la motivazione che era anticristiano e propugnava una nuova religione⁷⁰.

    In passato, Rosenberg era stato trattato con i guanti dal duce: direttore del Völkischer Beobachter (Osservatore nazionalpopolare) e poi responsabile del dipartimento estero del partito nazista, era stato chiamato a parlare a Roma al noto Convegno Volta sull’Europa, del novembre 1932, in cui il capo fascista aveva presentato alla ribalta internazionale i suoi protetti tedeschi. In quell’occasione, il duce lo aveva perfino ricevuto in udienza personale a palazzo Venezia⁷¹.

    Nei mesi seguenti l’atteggiamento degli italiani verso il teorico del puro germanesimo era cambiato⁷², ma quei gesti politici erano noti a tutti. A sua volta, la Chiesa cattolica aveva stipulato un Concordato con la Germania il 20 luglio 1933, ma era rimasta ostile verso il razzismo, in particolare quello di Rosenberg. Il culmine dei contrasti fu appunto questa spettacolare messa all’indice di un libro importante e che in Germania aveva avuto una certa fortuna (nel 1934 si parlò di 70 mila copie vendute)⁷³. Per gli italiani, visti i precedenti, si dovette trattare di una decisione discretamente imbarazzante. Tra i giornali laici, solo il Tevere⁷⁴ di Telesio Interlandi – a quanto abbiamo potuto verificare – diede in proposito una notizia telegrafica.

    L’attacco cattolico al libro di Rosenberg fu una novità di notevole rilievo politico, tanto che Hitler ne parlò di persona al duce nel corso del suo viaggio in Italia nel giugno successivo. La messa all’indice ebbe poi delle conseguenze dirette. De Il mito del XX secolo all’inizio del 1934 era stata preparata una versione italiana⁷⁵, che però, in seguito alla decisione del Sant’Uffizio, fu bloccata e non uscì mai più; anni dopo (1939), il ministero della Cultura Popolare mise addirittura il divieto di ingresso in Italia sull’edizione originale⁷⁶. Nel pieno delle trattative con Hitler per ottenere la prefazione esclusiva per l’edizione Bompiani, cadde dunque questa tegola. Era di sicuro un colpo per il razzismo di marca tedesca nel suo complesso.

    Ma per il Mein Kampf fu naturalmente diverso; oltre a non essere anticattolico (anzi), era il libro di un capo di governo e sarebbe stato assai più difficile colpirlo. Inoltre, tolto di mezzo il Mito, esso rimaneva – e così fu – l’unico testo di riferimento nazista che poteva essere esportato all’estero. Anche se avanzò delle rimostranze, non è certo che la condanna di Rosenberg fu un vero dolore per Hitler⁷⁷. Ma è anche vero che la vicenda non era comunque una buona premessa per l’uscita in Italia del Mein Kampf.

    Ad ogni buon conto, indipendentemente dalla vicenda Rosenberg, il ministero degli Esteri e l’Ufficio stampa – organismi entrambi sotto la guida diretta di Mussolini – mantennero il loro atteggiamento di totale appoggio concreto a Bompiani e a una pubblicazione rapida del Mein Kampf. Due soli episodi. A Bompiani, che era venuto a sapere che esisteva un contratto, fu comunicato che effettivamente esso esisteva ma – fu rassicurato – non c’era nessun obbligo di far rivedere la traduzione ai tedeschi. Non solo. Dopo la sua richiesta di conoscerne il testo, di cui lui finora era o aveva voluto essere all’oscuro, Bompiani fu accontentato e venne messo al corrente su qualche clausola. Non tutte, ma alcune. In pratica, gli fu nascosta la cifra pagata e vari altri dettagli, ma gli fu mostrata la parte che lo riguardava. A questo punto e in questo modo, tra il 23 e il 26 febbraio 1934 Bompiani conobbe finalmente quel contratto che, senza che lui lo sapesse, gli imponeva alcuni obblighi.

    Dovette essere soprattutto una la preoccupazione che indusse le autorità italiane a fare questo strappo al segreto: in tal modo i problemi editoriali coi tedeschi – per esempio la consegna delle coppie pattuite, o quanto interessava il traduttore, o il controllo del copyright – sarebbero ricaduti sullo stesso Bompiani e non sugli uffici governativi. Gli veniva scaricata una parte del peso. All’editore milanese non furono invece svelate le trattative a proposito della razza e della religione del traduttore; né, parrebbe, con lui il tema fu mai affrontato, almeno fino alla pubblicazione vera e propria. Bompiani quindi fu lasciato libero di scegliere il traduttore che preferiva. E del resto nel contratto non esisteva più nessuna clausola in proposito.

    E il traduttore fu invece proprio un ebreo, e quasi di certo israelita iscritto alla Comunità di Milano, Angelo Treves⁷⁸: all’epoca forse il più prolifico tra i traduttori italiani, dal tedesco e non solo (per vari editori tradusse circa 60 autori, tra cui Schalom Asch, Schnitzler, Unamuno, Essad Bey, Nietzsche, anche lo Spengler tanto amato da Mussolini, Svetonio e diversi marxisti). Treves è stato anche una figura culturale rilevantissima all’epoca, ma di lui nel dopoguerra, e probabilmente proprio a causa di questa traduzione maledetta, è stata cancellata pressoché ogni memoria.

    Bompiani però pensò bene anche di non mettere il nome di Treves né sul frontespizio della traduzione né altrove. Il libro, numero 23 della collana Libri scelti, panorama del nostro tempo ufficialmente non ebbe nessun traduttore, perché quello vero, ebreo, fu tenuto nascosto. Soltanto in seguito l’indicazione Traduzione del prof. A. Treves comparve sul libro; non sul frontespizio, bensì marginalmente, in un inserto iniziale di tipo pubblicitario, che riassumeva e promuoveva i titoli della collana. Ciò successe – in base alle copie che abbiamo potuto controllare – a partire dall’edizione de La mia battaglia che ha finito di stampare del 15 marzo 1937: quindi tre anni dopo la prima uscita. Ma non si sa perché ciò avvenne.

    Infine, la vicenda si concluse. Hitler, sempre sotto la pressione dell’ambasciatore Cerruti (ma la spinta come sappiamo veniva da Roma), finì per tergiversare e il 3 marzo 1934 consegnò il testo della nuova prefazione con firma autografa. È possibile che la messa all’indice del libro di Rosenberg avesse contribuito alla decisione. Di sicuro l’edizione di Bompiani garantiva al nazismo in Italia quella tribuna che era stata preclusa al Mito del XX secolo.

    Ma bisogna notare anche un’altra coincidenza, e di nuovo non poteva essere casuale: la consegna della prefazione di Hitler fu pressoché contemporanea al sequestro – eseguito dalla polizia in Francia su richiesta della Eher Verlag, in seguito al processo che sappiamo – della traduzione non autorizzata del Mein Kampf a cura delle Nouvelles éditions latines⁷⁹. Ciò aumentava ancora di più il valore e il significato amichevole di questa prefazione, scritta appositamente per gli italiani e da anteporre alla loro traduzione, perfettamente autorizzata e, si può ben dire, amichevole.

    La prefazione arrivò prima a Roma, dove fu letta dal duce, e poi a Milano, in casa editrice, per tornare, rapidissimamente ritradotta, a Hitler, che controllò e approvò. Bompiani infine portò a termine la stampa, ancora prima di avere il consenso definitivo: il finito di stampare sulla prima edizione de La mia battaglia è del 15 marzo 1934, il sì finale di Hitler fu trasmesso dall’ambasciatore Cerruti solo il 23. La prefazione era un testo succinto e un po’ involuto in cui Hitler additava con orgoglio – suo vecchio e più volte ribadito leitmotiv⁸⁰ – la stretta parentela tra fascismo e nazionalsocialismo, intimamente connessi nel loro fondamentale atteggiamento verso la concezione del mondo, e la politica di pace che entrambi, insieme, avrebbero perseguito. Era, pur breve, un testo inedito, approntato in esclusiva per l’edizione italiana. Esattamente come aveva chiesto Valentino Bompiani.

    Valentino Bompiani [fonte: ronzanieditore.it]

    2. Accoglienze⁸¹

    La mia battaglia fu definitivamente stampato il 15 marzo 1934 e allestito nei giorni seguenti. Il risvolto di copertina faceva riferimento al Times di Londra, che, si sosteneva, l’avevo definito Bibbia nazista. Il libro conteneva, come progettato, solo la seconda parte del Mein Kampf originale, ma all’inizio, in 37 pagine (e non in un centinaio come Bompiani aveva previsto nel settembre 1933), veniva riassunto il primo volume. Il riassunto iniziale era più breve perché il capitolo Popolo e razza vi era stato anch’esso riassunto e non dato per intero, come progettato. Alla fine, le pagine totali erano quindi circa una sessantina in meno rispetto a quelle immaginate in un primo tempo (431 e non 500).

    Quanto agli effetti dei tagli, non si può proprio sostenere che fossero censori. La traduzione era fedele, o almeno tentava di esserlo, perfino nei corsivi e nei neretti, riprodotti in modo identico all’originale; il libro era perfettamente razzista e antisemita, come l’edizione in tedesco completa; Hitler non ne veniva sminuito; nulla in questo volume – esattamente come nell’originale – poteva offendere l’Italia, tanto meno le parti sull’Alto Adige, che erano favorevoli al nostro paese. Era rimasto intatto anche il palese riferimento – notato dai solerti traduttori del ministero degli Esteri – all’antisemitismo dispiegato nell’Italia fascista (ora era alle pp. 360-361).

    I motivi della riduzione di pagine, rispetto all’originale, furono spiegati ai lettori da Bompiani in un’avvertenza dell’editore italiano⁸², e non erano diversi da quelli che aveva (riservatamente) illustrato a settembre all’Ufficio stampa e che Mussolini aveva approvato. L’eliminazione di una parte, circa metà, dell’edizione originale era dovuta all’eccessiva mole del volume, che non sarebbe stato idoneo a quella vasta diffusione quale meritava un’opera esponente il pensiero e lo spirito che informano la Germania moderna. Inoltre, scriveva Bompiani, la prima parte, quella riassunta, era di interesse prevalentemente tedesco, mentre la seconda, quella pubblicata, era di interesse universale perché è universale la portata del fenomeno e della mentalità nazional-socialista. Che era, a ben vedere, una straordinaria gaffe. Lo stesso Mussolini nell’ampio discorso del 18 marzo (tre giorni dopo la stampa di La mia battaglia e sapendo dell’uscita del volume e della prefazione del Cancelliere) disse chiaro che il fascismo da fenomeno italiano era diventato fenomeno universale⁸³. E non il nazismo, che era una sorta di filiazione.

    Qualche mese dopo, questa traduzione fu aspramente criticata dal giovane e brillante Delio Cantimori⁸⁴, forse condizionato da quanto si era detto in Francia a proposito dell’edizione italiana. Cantimori non si accontentò delle spiegazioni date da Bompiani nell’avvertenza, e immaginò un qualche speciale motivo censorio dietro ai tagli; in poche parole, vi vide un modo per guidare il lettore verso un’interpretazione mirata e distorta del testo; per esempio veniva ridotta la parte dedicata alla propaganda nazista, che secondo lui era straordinariamente importante.

    Ma erano accuse infondate. Le ragioni, che ora conosciamo, dei tagli, erano state piuttosto banali ed erano tutte da imputare al desiderio di Bompiani di rendere più accessibile (e vendibile) il libro. Estranei, poi, erano stati Mussolini e il suo entourage. Per altri problemi relativi alla traduzione Cantimori aveva ragione (come a proposito della resa del termine Führer con Duce, una goffa piaggeria); ma questo non giustifica una critica così livorosa (verso la traduzione, beninteso, non verso il testo). Si presentava come un libro assai complicato da tradurre, ma la traduzione aveva cercato di essere fedele e in sostanza Treves era stato piuttosto bravo.

    Di lì a pochissimo, Bompiani assistette alla reazioni ufficiali del regime. Come sappiamo già, tra Germania e Italia erano in corso delle tensioni, soprattutto per quanto aveva relazione con l’Austria. La versione italiana e parziale del Mein Kampf andò in libreria in questa situazione per niente favorevole.

    È d’obbligo però notare anche un’altra coincidenza, per certi aspetti davvero singolare. Esattamente con una settimana d’anticipo rispetto alla prima sortita dei giornali sul Mein Kampf in italiano,

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