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Storia dell'Olocausto
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E-book961 pagine14 ore

Storia dell'Olocausto

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Info su questo ebook

«È il miglior libro sulle origini e l'evoluzione della giudeofobia.»
Jeffrey Burton Russell, professore di storia all'Università della California

Le radici dell'ossessione nazista verso il popolo ebreo

Lo sterminio degli Ebrei d’Europa rimane il peggior crimine commesso dai nazisti.
In queste pagine Fischer ricostruisce la storia lacerata dei rapporti ebraico-tedeschi lungo oltre un millennio, dall’emigrazione e dalla ghettizzazione del Medioevo all’Illuminismo e all’emancipazione del XVIII secolo, ai vari pregiudizi antiebraici nel Secondo Reich, fino alla nascita di una giudeofobia patologica tra 1918 e il 1933. Fischer rifiuta il termine antisemitismo, che considera un eufemismo impreciso del tardo XIX secolo, e adotta quello di giudeofobia, che a suo parere costituisce una descrizione più corretta di una distorsione paranoide della realtà. Fischer ritiene che la giudeofobia tedesca sia essenzialmente di quattro tipi: cristiana o comunque religiosa, socialmente discriminatoria, nazionalistica o xenofobica e, infine, biologico-razziale. Come e perché un pregiudizio religioso si è potuto trasformare in una discriminazione sociale e politica, fino a scatenare lo sterminio? Questo sconvolgente resoconto del destino degli Ebrei nello Stato razziale nazista, dalle prime azioni selvagge alla manifestazione finale dell’odio giudeofobico, ospita anche un’analisi delle reazioni tedesche successive all’Olocausto, dalla rimozione collettiva al ritorno dei sopravvissuti.

Le origini e i perché del più terribile sterminio organizzato che la storia ricordi

«Fischer scrive con un’evidente padronanza delle fonti primarie e secondarie, sintetizzando un ampio spettro di letteratura in una bella opera divulgativa. Estremamente raccomandato per tutte le biblioteche.»
Library Journal

«Siamo di fronte a un’opera davvero significativa… Fischer ci offre un resoconto equilibrato di un soggetto complesso e ci spiega con una sorprendente chiarezza come la Germania poté commettere il genocidio.»
Booklist

«Che modo meraviglioso di fare storia! Fischer rende comprensibile a tutti l’esperienza apparentemente incomprensibile del male radicale nazista… Fischer scrive la storia come dovrebbe essere scritta, con sensibilità e straordinaria immaginazione.»
Leonard Marsak, University of California, Santa Barbara
Klaus P. Fischer
è nato a Monaco di Baviera nel 1942. Cresciuto nella Germania postbellica, si è poi trasferito negli Stati Uniti. Storico dell’Europa moderna, specializzato in storia dell’Olocausto, tra i suoi libri ricordiamo Nazi Germany: A New History e Oswald Spengler and “The Decline of the West”.
LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2015
ISBN9788854175549
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    Anteprima del libro

    Storia dell'Olocausto - Klaus P. Fischer

    1

    L’insorgere della giudeofobia:

    l’evoluzione di un’ossessione

    Ossessione ideologica e odio fanatico

    Il 1° settembre 1939 Hitler scatenò due offensive simultaneamente: una guerra militare convenzionale contro la Polonia e i suoi alleati occidentali e una guerra biologico-razziale diretta in primo luogo contro gli Ebrei d’Europa. Fu la seconda a provocare il peggior crimine della storia mo­der­na, un crimine senza paralleli, perché implicava lo sterminio, realizzato con un metodo analogo a quello della catena di montaggio, di oltre sei milioni di persone da parte di un moderno Stato industriale. Mai in passato un gruppo di persone era stato destinato allo sterminio perché i suoi membri – uomini, donne e bambini – erano considerati ufficialmente subumani, portatori di bacilli sociali mortali e alleati con i nemici della Germania per distruggere il popolo tedesco.

    Come spiegare questo crimine mostruoso? Chi ne fu responsabile e in quale modo gli assassini giustificarono le loro azioni a se stessi, al popolo tedesco e al mondo? Di fronte all’enormità e alla singolarità di questo crimine, alcuni storici si sono chiesti se tale evento possa essere spiegato in assoluto. Jean-François Lyotard, per esempio, pone la questione in questi termini: «Come si fa a misurare un terremoto che ha distrutto tutti gli strumenti di misurazione?».¹ Sembra implicare, come faceva il folle di Nietzsche nel suo grido angosciato per la morte di Dio, che l’Olocausto sia stato la morte del significato, la distruzione di tutti i rapporti morali, tale da dissolvere il legame che incatenava questa terra a Dio e precipitare il genere umano in un baratro cupo. In questo senso, l’Olocausto è stato una tragedia sia storica sia ontologica perché, oltre a uccidere sei milioni di innocenti, ha mandato in frantumi antichi tabù e distrutto la fede occidentale nell’esistenza di leggi normative della ragione e nella possibilità di scoprire verità oggettive nonché, per estensione, di conquistare un mondo migliore.

    Se l’Olocausto è stato essenzialmente una colossale eruzione di irrazionalità, come possiamo sperare di spiegarlo in termini razionali? In altre parole, è vero, come sostiene un sopravvissuto all’Olocausto, che questo crimine non costituì soltanto un’inversione di valori, nel qual caso sarebbe intelligibile in termini razionali, ma una «amoralità al di là di tutte le categorie del male?».² Questo sarebbe certo vero se le nostre categorie del male fossero insufficienti a dar conto della sua realtà e se i nostri metodi di spiegazione fossero troppo ristretti per consentirci di comprendere la natura dell’irrazionale. La perpetrazione dell’Olocausto non è stata certo amorale ma immorale, perché commessa da esseri umani che la pianificarono e la giustificarono. L’Olocausto è stato un errore mo­ra­­le di proporzioni tragiche commesso dalla leadership tedesca e da molti tedeschi comuni, un errore di enorme portata perché presupponeva, oltre al persistente pregiudizio contro gli Ebrei, l’incapacità a livello politico e sociale di proteggere i valori della civiltà contro la calata della barbarie.

    Non è opportuno introdurre categorie di amoralità a proposito di Olocausto, perché esso fu perpetrato da esseri umani che sapevano esattamente cosa stavano facendo e perché. Le loro azioni sono dunque soggette al criterio morale del bene e del male, come lo intendono le più importanti tradizioni morali del genere umano. Non vi è standard di moralità umana che possa ammettere che il genocidio di sei milioni di innocenti sia, come affermò uno dei suoi perpetratori, una nobile azione che i posteri avrebbero ricordato su lapidi bronzee. Odilo Globocnik, l’autore di questa affermazione immorale, giustificava la sua partecipazione all’Olocausto facendo appello a un’ideologia razziale di sterminio la quale era fondata, a sua volta, su moduli di pensiero delusionale suoi propri, sulla mentalità nazista e, tragicamente, sulla gran quantità di tedeschi che aveva assimilato come norme sociali i pregiudizi antiebraici.³

    All’interno di questa mentalità condizionata da delusioni e chimere e che per i nazisti equivaleva a una fede appassionata vi era, naturalmente, una certa logica che ispirava e giustificava gli atti di sterminio; ma poiché si trattava di delusioni senza nessun fondamento razionale nella realtà, tale mentalità non poteva certo essere normativa e vincolante per tutte le azioni umane. Quella logica decostruzionista che sembra oggi minare la fede occidentale nell’esistenza di un mondo conoscibile e oggettivo, dissolvendo ogni giudizio morale in mere asserzioni di percezione soggettiva, deve essere annoverata anch’essa tra le pericolose delusioni del nostro mondo caotico.

    I nazisti furono soltanto gli ultimi di una lunga serie di persone influenzate da delusioni assai distruttive. Nel 1096, prima che i Crociati partissero per la loro prima guerra santa, alcuni dei più zelanti tra loro, presi da un particolare odio per gli Ebrei che nasceva dai loro dubbi e dalle loro paure di cristiani, si abbatterono su varie comunità ebraiche nella Francia e nella Germania del nord, dove massacrarono indiscriminatamente migliaia di persone.⁴ Si giustificarono con il fatto che gli Ebrei, secondo loro, avevano assassinato Cristo e non avevano riconosciuto il loro errore convertendosi al cristianesimo, insistendo invece pervicacemente sulla loro strada peccaminosa: «è giunto il tempo di vendicare colui che fu crocifisso e che i loro antenati trucidarono. Che non sia risparmiato nessuno, neppure i bambini o i lattanti in culla».⁵ I documenti contemporanei sembrano alludere addirittura al fatto che l’uccisione di Ebrei fosse considerata un atto degno di un cristiano, perché «chiunque uccide un solo Ebreo avrà assolti tutti i suoi peccati».⁶ Ebrei che vivevano da anni in pace con i loro vicini cristiani furono traditi, abbandonati e ceduti ad assassini fanatici che agivano spinti da zelo ideologico oltre che da istinti sadici. Di fronte all’intensità di tali sentimenti, le restrizioni solitamente imposte dalle autorità civili o ecclesiastiche crollavano completamente: e infatti le autorità, nonché cittadini e contadini dietro di loro, parteciparono attivamente a queste uccisioni di massa. La violenza era fondata ideologicamente, e il solo motivo per cui non si rivelò ancora più letale fu che l’odio per gli Ebrei si andava rafforzando proprio in quel momento, tanto che divenne un’espressione specifica del messaggio di papa Urbano II che invocava la crociata.⁷ Come tuttavia ha messo in evidenza Salo W. Baron, l’anno 1096 costituì davvero un punto di svolta nell’evoluzione di questa crescente delusione:

    Le tracce di sangue e rovine fumanti lasciate nelle comunità ebraiche dalla Francia alla Palestina... per la prima volta fecero comprendere al popolo ebraico, ai suoi nemici e ai suoi amici, l’estrema instabilità della posizione ebraica nel mondo occidentale... Dalla prima crociata in poi, le persecuzioni antiebraiche esercitarono un fascino pericoloso il quale, in periodi di grande stress emotivo, degenerò in psicosi di massa che trascendevano i confini nazionali.

    Un’altra psicosi di massa che trascese i confini nazionali fu la caccia alle streghe. Studiando episodi di esplosioni di antisemitismo o di caccia alle streghe, possiamo già farci un’idea dei vari elementi che avrebbero composto la teoria e la pratica del nazionalsocialismo tedesco. Nel caso della caccia alle streghe, coloro che erano affetti da questa delusione credevano che alcuni esseri umani fossero alleati con il diavolo per rovesciare Dio e il suo governo del mondo. Questa convinzione era a sua volta fondata, secondo loro, sulla Bibbia, in particolare su quel brano dell’Esodo (22, 17) in cui si invita a non lasciar «vivere colei che pratica la magia». Se la Bibbia è la parola letterale di Dio, il quale ordina ai suoi fedeli di uccidere le streghe, ne consegue che un buon cristiano debba uccidere le streghe. Questa convinzione creò una realtà sua, nella forma di persone del tutto innocenti che furono identificate come streghe e in quanto tali torturate e uccise. Seguendo un cammino di fissazione intellettuale, un mondo chimerico divenne carne e ossa, e i suoi creatori lo dotarono di caratteristiche straordinarie. Fu così, per esempio, che nacquero libri come Malleus Maleficarum (1486), considerato un’utile guida all’identificazione delle streghe: di fatto un manuale che conteneva affermazioni terribilmente sessiste, come quella secondo la quale le streghe sono in genere donne perché «più deboli, più stupide, superstiziose e sensuali».⁹ Fu sempre così che nacquero istituzioni come l’Inquisizione, che monitoravano l’eresia e infliggevano crudeltà indicibili a persone innocenti. Al suo culmine, nel tardo Medioevo, la caccia alle streghe era il flagello d’Europa; essa uccise «centinaia di migliaia di uomini e donne, ne terrorizzò milioni, contaminò per secoli il pensiero delle menti migliori e macchiò in modo orribile la storia della società cristiana».¹⁰

    Le convinzioni dei nazisti riguardo agli Ebrei furono la versione che della caccia alle streghe dette il XX secolo, caratterizzate come sono dai medesimi meccanismi di fissazione e di comportamento, anche se certo l’obiettivo della diavoleria nazista non fu quella strega stereotipata che tanto ossessionava la gente nel XVI secolo ma l’Ebreo streghificato. Per esprimersi con le parole di Norman Cohn, l’energia necessaria per sterminare gli Ebrei sgorgò più da una «superstizione quasi demonologica» che dalle motivazioni economiche o politiche dei perpetratori.¹¹ Sembra che molti tedeschi, in particolare quelli indottrinati da istituzioni naziste come il partito, la Gioventù hitleriana, le SA e le SS, siano stati effettivamente sottoposti a un lavaggio del cervello in senso demoniaco che ricorda la caccia alle streghe degli esordi dell’evo moderno. Alcuni tedeschi lo confessarono piuttosto apertamente non appena si fu dissipata quell’ossessione, con la fine della Seconda guerra mondiale, per esempio il filosofo Karl Jaspers, il quale affermò che

    ...negli ultimi dodici anni ci è successo qualcosa che sembrava voler rimodellare tutto il nostro essere. Per esprimersi con un’immagine: i demoni hanno scatenato un temporale spaventoso, cacciando noi e loro stessi in un caos che ci ha privati di vista e udito... Abbiamo sperimentato qualcosa di simile alla caccia alle streghe del tardo Medioevo.¹²

    La fonte della motivazione ideologica che portò all’Olocausto deve essere rinvenuta nella fissazione umana e nei suoi corollari comportamentali: paura, paranoia, proiezione, ricerca del capro espiatorio e aggressività. Se visto in questa luce, l’Olocausto ci costringe a riaffermare una verità arcaica su noi stessi che sembriamo aver rimosso in epoca moderna: ovvero il fatto che gli esseri umani sono in parte intrinsecamente soggetti a delusioni di massa, cui si aggrapperanno con ostinata tenacia malgrado ogni evidenza del contrario. I ricorrenti episodi di idee fisse di massa sembrano anche provare che in grande maggioranza gli esseri umani, se vengono loro inculcate fantasie irrealistiche e illusioni pericolose, collaboreranno di buon grado a qualsiasi attività assurda, compreso il genocidio. Questo è particolarmente vero quando una convinzione pervicacemente distruttiva assume la forma di fede religiosa o secolare cui è assicurato un ampio sostegno istituzionale. Spinoza scrisse una vol­ta che di tutti gli odii «nessuno è più profondo e tenace di quello che sgorga da estrema devozione o pietà ed è esso stesso considerato pio».¹³ La cosa strana – e meritevole di un interesse più che superficiale – è che Spinoza si riferiva qui all’odio degli Ebrei contro le altre nazioni, la qual cosa, a suo parere, suscitava un odio contro gli Ebrei altrettanto intenso. Parafrasando il famoso detto di Lord Acton secondo il quale il potere corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto, si potrebbe anche dire che l’odio che sgorga dalla fede corrompe e l’odio che sgorga dalla fede assoluta corrompe in modo assoluto. Se la fede è l’equivalente morale del potere, si può dire che la maggiore corruzione della fraternità umana si ha quando due sistemi di fede, ciascuno sicuro di essere prescelto da Dio, si scontrano in un’ostilità assoluta e implacabile, come hanno fatto negli ultimi duemila anni.

    Arno J. Mayer ha attirato l’attenzione sui ricorrenti sollevamenti spirituali del passato, in particolare le crociate e le guerre di religione del periodo che va dal 1550 al 1648, argomentando che l’Olocausto fu il risultato di una seconda Guerra dei Trent’Anni, una ripetizione più crudele e distruttiva dei genocidi precedenti.¹⁴ Questa argomentazione, che pure sembra in certo qual modo sminuire la singolarità dell’Olocausto, ha il merito di diagnosticare correttamente tra le cause primarie del genocidio il fanatico zelo spirituale, anima tutti i perpetratori di genocidi. Meyer coglie nel segno anche laddove mette in evidenza come l’energia culturale investita dagli europei in guerre sante come le crociate, la sottomissione degli infedeli nel Nuovo Mondo e le guerre di sterminio religioso condotte nell’epoca della Riforma (1517-1648) non sia diminuita con la fine delle guerre di religione (1648), ma si riattivò o semplicemente si ridiresse in forma diversa dopo un breve intervallo nel XVIII secolo. Si potrebbe infatti sostenere che l’energia scatenata da una fede malriposta fu non soltanto rediretta ma anche secolarizzata, aderendo negli ultimi due secoli a ideologie come il socialismo, il comunismo o il fascismo. Negli ultimi cinquant’anni, lo rammentiamo, l’Est comunista e l’Ovest democratico sono stati im­pegnati in una guerra ideologica, calda e fredda, che prevedeva su ambo i versanti la mobilitazione totale delle risorse umane e naturali, per lo scopo dichiarato di convertire cuori e menti o, in alternativa, distruggere l’altra parte (malvagia). Durante questo conflitto, abbiamo assistito anche alla recrudescenza di modelli di coscienza religiosa applicati adesso a cause e forme secolari di salvezza.

    Sembra che l’energia culturale investita in conflitti spirituali o ideologici abbia sempre la potenzialità di generare delusioni di massa che si trasformano rapidamente in aggressioni di massa.¹⁵ Di volta in volta intere comunità sembrano cadere preda di modalità insolite di pensiero irrazionale. Nel peggiore dei casi, quando tutto sembra cospirare contro un dato gruppo, si verifica una regressione collettiva a forme prelogiche o mitiche. Gli eventi non sembrano più accadimenti naturali, soggetti ai normali processi di causa ed effetto, ma una manifestazione di forze na­sco­ste e capricciose che si presumono attive dietro il mondo caotico in cui la comunità, disorientata, si percepisce alla deriva e in procinto di colare a picco. Quando un’intera comunità o un numero significativo dei suoi membri si vedono minacciati, da nemici reali o immaginari, sembra scattare un repertorio di moduli di pensiero che in precedenza erano addormentati e che arrivano a permeare la mentalità di tutto il gruppo in modo tale che persone comuni, normali e intelligenti sono pronte a dar credito alle affermazioni più assurde e ad agire di conseguenza.

    La storia umana, come gli storici ben sanno, è costellata anche in modo imbarazzante di tali esplosioni irrazionali, dalla credenza nei demoni e nelle streghe alle teologie o ideologie redenzioniste. Sarebbe comunque un grave errore credere che questi moduli irrazionali di coscienza operino soltanto nelle società preindustriali o comunque antecedenti l’alfabetizzazione di massa: si può anzi affermare che hanno visto le loro manifestazioni più intense e distruttive proprio nel XX secolo.

    Non conosciamo ancora a sufficienza la mente umana per poter identificare i processi psicologici o fisiologici che attivano tali moduli di pensiero irrazionale. Sappiamo soltanto che la mente ha la capacità creativa di immaginare mille mondi differenti e di concettualizzarli in maniere sorprendentemente diverse. I nostri moduli di pensiero e la forma simbolica in cui li articoliamo si avvicinano, senza incarnarla, alla realtà che intendono afferrare. Allo stesso tempo, comunque, abbiamo scoperto – per mezzo di esperienze dolorose – che l’organizzazione razionale della coscienza ci consente di acquisire una comprensione assai migliore del mondo reale, nonché di adeguarci efficacemente ad esso.

    L’organizzazione della coscienza è in gran parte un processo simbolico o culturale: essa però è plasmata anche da paure irrazionali, delusioni paranoidi ed emozioni sfrenate. Proprio come persone considerate comuni, sane di mente e decorose possono cadere preda di un modo di pensare irrazionale, questo può accadere a intere comunità. La struttura della coscienza non è mai completamente razionale e, sotto l’impatto di forze capaci di piegare la mente, essa può essere trasformata, in parte o in tutto, in un tipo di coscienza mitica o chimerica, con una percezione della realtà completamente diversa.

    Filosofi e psicologi non hanno mai prestato sufficiente attenzione a questa coscienza irrazionale, perché in massima parte si sono interessati più alla logica che alla psicologia della coscienza. La nostra tradizione occidentale ha sottolineato più la logica che la psicologia della conoscenza, la razionalità più che l’irrazionalità. Sin dai tempi di Aristotele, il mondo occidentale ha investito gran parte delle sue energie culturali nello sviluppo della razionalità, e le ricompense derivate da questi investimenti sono state in massima parte la nostra padronanza del mondo fisico e il suo sfruttamento a nostro beneficio. D’altra parte, il fatto che l’evoluzione della razionalità sia legata organicamente all’egoismo e all’irrazionale non è cosa che sia generalmente ammessa, e non tutti comprendono che vi è una logica anche nell’irrazionale, con le sue rappresentazioni simboliche.

    Al fine di anticipare parecchie obiezioni comunemente sollevate contro quelle spiegazioni che cercano di dar conto dell’irrazionale facendo ricorso alla psicologia, alla sociologia o all’antropologia – in breve, spiegazioni multidisciplinari – è necessario ricordare l’entità del male e della sofferenza che gli esseri umani, singolarmente o in gruppo, hanno perpetrato nella storia. Hegel aveva sicuramente ragione quando definiva la storia un banco da macellaio sul quale era stata sacrificata la felicità di popoli e nazioni.¹⁶ Cinquemila anni di storia e ben oltre quindicimila guer­re attestano la realtà del male radicale nella storia. Ne consegue che alla comprensione del male non basta la sua descrizione, che è storica: ser­vono altresì la sua analisi e il suo significato, che sono filosofici, so­cio­logici o psicologici.

    La conoscenza delle cause, con qualunque mezzo, non implica sempre la comprensione delle loro conseguenze, né scusa il comportamento di coloro che hanno provocato grandi sofferenze. La maggior parte del male umano, alla fin fine, è il risultato di scelte consapevoli, le quali a loro volta sono fondate su una varietà di motivazioni che vanno dall’egoismo crasso alla brama di dominio, dal piacere della crudeltà alla fede in assoluti spirituali fino a un idealismo pervertito o alla mera fissazione. Purtroppo il male è tanto scaltro che sembra talvolta sgorgare da intenzioni nobilissime. Non vi è negli esseri umani quella trasparenza che sembra di poter scorgere nel mondo animale: siamo raramente quello che sembriamo essere, e in ogni momento dato associamo molte caratteristiche favorevoli alla vita ad altre che invece la negano. Per rafforzare le prime contro le conseguenze distruttive delle seconde, il genere umano ha inventato la civiltà, la quale, nella sua forma ideale, implica l’istituzionalizzazione di decoro, collaborazione e ordine sociale ma, proprio come gli individui possono essere ingannati e corrotti, o diventare distruttivi, lo stesso è vero per l’ordine stesso della civiltà. L’Olocausto è stato la degenerazione ultima della civiltà tedesca e, per comprendere questa corruzione, è necessario capire, come meglio ci è possibile, i moduli di pensiero dei suoi membri per spiegare perché un numero considerevole di tedeschi che abbracciarono la mentalità nazista accettarono idee irrazionali e come organizzarono le loro idee in un sistema di pensiero delusionale che li obbligò a considerare gli Ebrei subumani e demoniaci e a ritenere quindi che andassero sterminati come razza.

    La fede in un tale sistema maniacale, con tutti i suoi componenti, non è specificamente tedesca, ma si è verificata con una certa ricorrenza in tutta la storia umana. Prima di discutere, nel capitolo che segue, la peculiare dinamica che tale fede assunse presso i nazisti, sono d’obbligo alcune osservazioni di carattere generale sulle sue caratteristiche, fondate su varie manifestazioni storiche.

    Una calamità sociale che colpisca una comunità con grande forza di­strut­tiva susciterà naturalmente reazioni di panico e di grande angoscia mentale. La capacità di affrontare l’impatto della crisi dipende dalla stabilità istituzionale della comunità che la sperimenta. Tutte le società sono come appollaiate su un vulcano, perché sono sempre esposte a cambiamenti repentini indotti dall’esterno o dall’interno, e solo di rado il tessuto delle loro istituzioni è tanto forte da consentire loro di superare senza traumi calamità e gravi problemi. Per tutta la storia umana le comunità hanno subito traumi frequenti: ad alcuni di questi hanno reagito con meccanismi di autodifesa che esacerbavano il problema anziché alleviarlo.

    Ogniqualvolta si è colpiti da una calamità apparentemente incomprensibile, si è spesso portati a cedere alle proprie emozioni. Se la crisi persiste, i normali moduli di pensiero risulteranno probabilmente distorti da queste esperienze traumatiche. Studi idiografici condotti da psicologi sociali hanno dimostrato come singoli e intere comunità hanno reagito a situazioni di crisi. È stato provato, per esempio, che i membri di una comunità sono tenuti insieme non solo da istituzioni o tradizioni comuni, ma anche da un’organizzazione caratteristica della coscienza pubblica. La struttura esterna è una misura dell’interiorità mentale interna. Nella storia della maggior parte delle comunità umane del passato il contenuto di questa interiorità mentale, il substrato psichico, è stato fortemente permeato di temi e processi spirituali, mitici e immaginativi. Non dovrebbe dunque sorprendere che le reazioni intellettuali a crisi e calamità, per quanto in genere accompagnate da buon senso e istinto di sopravvivenza, si siano spesso inserite in un contesto di significato che attingeva al comune substrato psichico di miti, leggende, epos eroici e credo religiosi. Ecco perché, nella storia, nella coscienza di molte comunità la chiave della storia secolare si trovava nella sua storia sacra. Gli eventi diventavano simboli mitici, attraverso i quali erano anche decodificati.

    Le reazioni pubbliche a grandi calamità naturali, passate o presenti, sono generalmente accompagnate da moduli irrazionali di pensiero, ma talvolta questi moduli persistono oltre la crisi stessa, perché la comunità nega la natura reale della crisi, sviluppa meccanismi volontari di difesa per negare la verità e fa ricorso a meccanismi inadeguati per far fronte alla crisi stessa. La storia è piena di tali esempi, alcuni dei quali sono stati ritratti in modo brillante da Otto Friedrich nel suo The End of the World, in cui racconta le varie reazioni a calamità tanto intense che la gente dell’epoca credeva che si fosse vicini alla fine del mondo. Gli eventi in questione sono il Sacco di Roma nel 410 d.C., la nascita dell’Inquisizione (1209-44), la Grande Peste (1347-50), le visioni apocalittiche e le calamità incentrate intorno a Thomas Münzer e agli altri esponenti settari della Riforma che volevano creare una nuova Gerusalemme, il terremoto di Lisbona del 1755, la Rivoluzione russa del 1905 e Auschwitz. Potremmo aggiungere a questo elenco la caccia alla streghe, le crociate e le eresie millenariste medioevali. È comunque importante comprendere come le società siano sottoposte a grandi sollecitazioni che non prendono necessariamente la forma di calamità evidenti quali una virulenta pe­stilenza, una carestia devastante, un terremoto ecc. Il trauma può essere provocato anche da un’epoca di repentini cambiamenti sociali durante la quale si dissolvono antiche tradizioni culturali senza che abbiano ancora preso forma quelle che le sostituiranno.

    Nella maggior parte di queste crisi la prima reazione sembra essere la dissociazione intellettuale; vi è la sensazione che la fine del mondo sia incombente. Eventi del genere appena vissuti devono essere stati avviati da forze assai potenti e maligne. Nelle comunità religiose questi eventi originano ansie apocalittiche: ci si convince che Dio stia punendo la comunità o, in alternativa, che si stiano scatenando forze sataniche. Può essere che, a questo punto, nella sindrome del disastro si scateni qualche memoria umana collettiva, col risultato di azionare diversi moduli di pensiero mitico i quali, a loro volta, stimolano immagini primordiali, spaventose e terrificanti.

    Essendo percepita come evento di proporzioni colossali, si suppone che la catastrofe non possa essere provocata da persone comuni o da cause fisiche conoscibili: essa deve essere opera di forze o esecutori nascosti e tuttora ignoti. A questo stadio della sindrome del disastro, come sostiene James Rhodes in riferimento alla reazione nazista alla sconfitta bellica e al conseguente crollo economico, i membri coinvolti tendono a considerarsi vittime inermi e manifestano sintomi psicologici tipici di tali reazioni: si sentono calpestati e violentati e si crogiolano nell’autocommiserazione e nella maledizione del destino. Quasi simultaneamente, tuttavia, si scagliano istericamente contro i presunti colpevoli ovvero, per esprimersi col linguaggio religioso del passato, malefattori carnali.

    Nello studiare le sindromi da calamità manifestate dalle comunità religiose nel passato e dai nazisti nel XX secolo, James Rhodes ha identificato parecchie reazioni comuni: in primo luogo, il disorientamento totale, poi il terrore dello sterminio di gruppo, seguito dallo smascheramento dei malvagi, dalla rivelazione della verità e dal trionfo del bene sul male.¹⁷ L’oggetto del terrore può essere all’inizio del tutto chimerico, come la Gran­de Bestia dell’Apocalisse, Mefistofele o la Grande Meretrice di Ba­bi­lonia. Pian piano tuttavia questa chimera diviene concreta e assume le sembianze dell’Ebreo che guarda con occhi lascivi o di altre persone del tutto innocenti che si suppongono colpevoli perché si tratta di stranieri, eretici, streghe, lebbrosi e simili. Questo presunto smascheramento dei colpevoli spesso spetta a intellettuali marginali o visionari che rivendicano una conoscenza speciale (gnostica) che andrebbe molto più in profondità della mera razionalità o dei processi analitici formali. Sulla base di una migliore forma di conoscenza, fondata su poteri visionari, illuminazione mistica o intuizioni psichiche, questi autoproclamatisi esperti di salvezza comunicano alla comunità cosa realmente l’affligga e cosa debba essere fatto per guarirne. Per esprimersi con le parole suggestive di Nathan Adler, questi visionari reagiscono alla crisi «ubriacandosi di illusioni»,¹⁸ saltando a pie’ pari il potere politico istituzionale, rivolgendosi direttamente a una moltitudine credulona e cercando la loro giustificazione nella mitologia prescelta. Adler scrive che «nel loro orientamento risulta centrale un epos apocalittico di declino, distruzione e rinnovamento, talché essi reagiscono con zelo e iperattività oppure si arrendono come spettatori passivi, possono diventare superuomini arroganti e sprezzanti uomini di successo o populisti che riscoprono il popolo».¹⁹

    Molti di questi personaggi, tra cui visionari religiosi (Gioacchino da Fiore, John Wycliff, Pietro Valdo, Savonarola, Thomas Münzer) e le loro controparti secolari (Robespierre, Marx, Danilewski, Jahn, Langbehn, La­garde, Mussolini, Rosenberg, Hitler) hanno rivendicato rivelazioni speciali, dicendo ai loro seguaci che, ben lungi dall’essere dominati, erano in realtà il popolo eletto da Dio (o dalla storia) per sbaragliare i loro tormentatori. L’incontro con il tormentatore, fosse questo Satana, Ebreo, aristocratico o capitalista, sarà di proporzioni titaniche, nelle imminenti battaglie di Armageddon.²⁰ Vi è, in tutto questo, una pervasiva sensazione di urgenza, l’impressione che le forze del male si stiano affermando.

    Dalla vittimizzazione e dalla disperazione la comunità in questione si è mossa, seguendo un determinato cammino psicologico, verso la concentrazione collettiva sugli effettivi perpetratori e sul modo di sconfiggerli. Le vittime hanno l’impressione di vederci più chiaramente, e la loro ansia di essere sterminate, per quanto ancora forte, è diminuita in modo significativo. Avendo smascherato i malfattori e proclamato il vangelo della liberazione, possono adesso dedicarsi alla battaglia ontologica. Se alla radice di tutto vi è il male radicale, acquattandosi come un «verme ebreo in un cadavere in putrefazione», per esprimersi con le parole di Hitler, occorrono allora misure radicali per rimuovere l’ascesso canceroso. Ogni distorsione paranoide della realtà fondata sul terrore dello sterminio implica necessariamente tattiche di sterminio come unica via per alleviare la sofferenza.

    Nell’imminente battaglia tra le forze del bene e le forze del male prevista da questo modo di pensare si deciderà, una volta per tutte, il futuro del mondo. L’efficacia di una simile fede sta proprio nella proiezione di un futuro utopico in cui si spera. Per esprimersi con Eric Hoffer, «nessuna fede è potente se non è una fede nel futuro e se non ha una componente millenaristica».²¹ Con la distruzione del male vedrà l’alba un mondo nuovo, che sia la nuova Gerusalemme, il paradiso dei lavoratori o un Reich destinato a durare mille anni. Le formulazioni intellettuali di queste fedi presentano una struttura definita e riconoscibile, generalmente ma­sche­rata da espressioni millenaristiche, ovvero un linguaggio che consente di conferire ai conflitti sociali un significato trascendente.²² Come ha dimostrato Normal Cohn, questo tipo di fede ha motivato i molti movimenti apocalittici del Medioevo, come le crociate, i fratelli e le sorelle del libero spirito, la teologia di Gioacchino da Fiore, i taboriti e gli anabattisti della Riforma.²³ Potremmo aggiungere che sia la struttura sia il messaggio escatologico insito in questi movimenti furono poi secolarizzati da varie filosofie della storia (Condorcet, Comte, Hegel, Marx) e da varie ideologie politiche redenzioniste, di sinistra (Marx, Lenin) come di destra (Moeller van der Bruck, Rosenberg, Hitler).

    Le radici del sistema nazista vanno rinvenute nelle frange della delusione popolare, nei sistemi di idee delusionali (chimerici) nati non dalla mente di pensatori ben noti ma di individui alienati e spesso emarginati che talvolta emersero dall’oscurità in epoche di cambiamenti estremi, galvanizzando folle di seguaci e proclamando un messaggio religioso o pseudoreligioso in cui si intrecciavano intensi sentimenti di odio e speranza. Fu dalla delusione successiva alla Prima guerra mondiale, «propugnata da truffatori e fanatici semianalfabeti a beneficio degli ignoranti e dei superstiziosi»,²⁴ che emerse quel mito del complotto ebraico mondiale tanto centrale per l’ideologia nazista. Questa e la mentalità che ne costituiva la base furono un effetto della crisi di coscienza prodotta dalla Prima guerra mondiale; l’odio per gli Ebrei non le provocò, ma ne divennero un elemento significativo, perché fu l’Ebreo stereotipato a essere accusato dei mali che pareva avessero rovinato il popolo tedesco. Il fatto che i nazisti siano riusciti a persuadere un numero significativo di tedeschi che questo fosse vero fu dovuto a una lunga tradizione giudeo­fo­bica nella cultura europea in generale e tedesca in particolare.

    Varietà di odio per gli Ebrei: la prospettiva occidentale

    La storia non registra altri popoli come gli Ebrei. Ammirati e scherniti, temuti e perseguitati, disprezzati e demonizzati, sono stati negli ultimi tremila anni un’ossessione per una lunga serie di persone. I Faraoni li ridussero in schiavitù in Egitto, gli Assiri si impadronirono del loro Regno del Nord (Israele), Nabucodonosor di Babilonia distrusse il resto del loro regno (Giuda) e trascinò mille preziosi prigionieri ebrei nella cattività babilonese, Greci e Persiani li oppressero e disprezzarono, i Romani li privarono della loro patria palestinese e li dispersero in tutto il mondo antico, i fanatici musulmani si abbatterono periodicamente su di loro, i Crociati cristiani ne trucidarono migliaia, prima di imbarcarsi per la loro sacra missione, l’Inquisizione li espulse dalla penisola iberica, Polacchi e Russi li massacrarono crudelmente nei loro pogrom e i tedeschi portarono a compimento questa lunga storia di odio sterminandone sei milioni con l’Olocausto. Eppure, malgrado tremila anni di tormenti, gli Ebrei hanno sempre conservato la loro fede religiosa e le loro pratiche etniche. Per usare l’espressione suggestiva di Hugh Trevor-Roper, gli Ebrei sono il «popolo indigesto»,²⁵ i più grandi anticonformisti della storia: secondo ogni legge sociologica, infatti, sarebbero dovuti scomparire dal palcoscenico della storia molto tempo fa, come è accaduto a tutti i gruppi etnici sradicati dalla loro terra nativa o comunque conquistati e assimilati da gruppi più forti.

    Questo destino non si è abbattuto sugli Ebrei perché essi svilupparono un’unica fede monoteistica in un Dio che si era rivelato loro e aveva stretto con loro un patto nel quale li designava come il suo popolo eletto. Le loro sacre scritture, la Bibbia ebraica (Antico Testamento), cui nel corso della diaspora si sono aggiunti una serie di libri di commenti rabbinici, precetti, glosse e istruzioni detta Talmud, divennero il fondamento del loro senso unico di identità religiosa ed etnica. Essi si sono attenuti ai loro 613 comandamenti e prescrizioni con ostinata tenacia, istituzionalizzandoli in usanze, rituali e festività religiose, riuscendo così a conservare la loro esistenza storica senza esistere come popolo caratterizzato da un’unità politica. Divennero una nazione all’interno delle nazioni, aderendo rigidamente alle loro sacre leggi e costumi ancestrali, sopravvivendo ma anche soffrendo terribilmente per mano di quei popoli ai quali le loro credenze sembravano strane e offensive. Per molti altri popoli potenti del mondo antico, che avevano anch’essi un forte senso della loro missione, come gli Egiziani, i Greci, i Persiani o i Romani, fu particolarmente bruciante apprendere che gli Ebrei si consideravano il popolo eletto di Dio, giacché questo sembrava implicare che, se solo gli Ebrei erano eletti, tutti gli altri popoli erano non eletti, e quindi inferiori.

    Gli Ebrei, in massima parte, evitavano di suggerire tale implicazione. Insistevano nell’affermare che la loro religione era universale, aperta a tutti coloro che volevano aderirvi. Essi sottolineavano inoltre come il loro essere eletti comportasse l’adempimento di un dovere morale e religioso per corrispondere alle aspettative di Dio ed essere un faro luminoso per il resto del mondo. Che fossero dovute a pregiudizi etnici o religiosi da ambo le parti, le barriere tra gli Ebrei e i popoli ospitanti divennero, salvo poche eccezioni e aggiustamenti, una condizione permanente del loro rapporto culturale. Il fatto che la religione e la cultura ebraiche arricchissero in modo significativo la civiltà sia cristiana che islamica e che le attività commerciali degli Ebrei portassero la prosperità anche nei più remoti villaggi della Polonia e della Russia non condusse alla rimozione di queste barriere. Le differenze separano, e le differenze percepite come reciprocamente escludentesi tendono a separare enormemente. In un’epoca storica in cui la coscienza delle differenze tribali (tribalismo) era intensa, la reazione dell’esclusività ebraica, proveniente com’era da una posizione di debolezza politica, suscitò diffidenza e persecuzioni a non finire. Sappiamo molte cose sulle sofferenze che gli Ebrei patirono per mano di tutti coloro che li hanno tormentati nel corso della storia; sappiamo molto meno, però, sull’effetto che queste persecuzioni ebbero sulla loro evoluzione interiore, ovvero sulla loro capacità o incapacità di riscoprire una patria e di forgiare un senso di potenziale unità al di là del mondo frammentario e isolato dominato dalle regole e dal pensiero rabbinico. Questo fu particolarmente vero dopo che gli Ebrei furono costretti, dai Persiani prima e dai Romani poi, a vivere fuori della loro terra palestinese e a disperdersi per nazioni straniere, soprattutto dopo il fallimento della loro rivolta contro i Romani (66-70 d.C.). È questo il significato della parola diaspora, dal greco dispersione, degli Ebrei fuori dalla loro patria. Col tempo la parola diaspora avrebbe assunto anche un altro significato: vivere da persona priva di patria e comunque ai margini di comunità straniere, con i problemi conseguenti alla perdita della propria identità e cultura.

    Divennero una nazione senza nazione, un consesso di comunità differenti che abitavano all’interno di altre nazioni. L’evoluzione storica degli Ebrei prese una piega fatale quando la loro maggioranza, in particolare quelli che si sarebbero stabiliti in Europa occidentale e orientale, presero a seguire le pratiche religiose e ritualistiche della comunità ebraica di Babilonia (Mesopotamia) anziché quelle dell’altra potente comunità ebraica, quella di Alessandria. La posizione alessandrina, poi ripresa nella Spagna moresca e dal moderno giudaismo riformista, si ispirava a Filone di Alessandria, un contemporaneo di Cristo, che cercava di colmare il divario di differenze culturali dimostrando che vi era grande affinità tra la sapienza ebraica e quella greca (platonica), in un nobile sforzo non solo di dare al mondo un’interpretazione delle fede ebraica, ma anche di forgiare un dialogo culturale che avrebbe consentito a Ebrei e Gentili di vivere insieme anziché separati. Per contro, la posizione rabbinica, che sarebbe stata predominante tra gli Ebrei fino a tutto il XIX secolo, imponeva la continuazione del più rigoroso giudaismo farisaico; il suo scopo, su cui si dilungano gli autori rabbinici del Talmud, era quello di isolare la comunità ebraica dal resto del mondo, legando i fedeli alla loro routine di regole e pratiche a tal punto che questi finivano per vivere in un mondo a sé stante, limitando i loro contatti col mondo esterno a puri rapporti economici.

    L’accettazione di una vita tanto limitata, caratterizzata da un isolamento religioso e culturale che impedisse loro di conformarsi o assimilarsi, ha forse consentito alle comunità ebraiche di sopravvivere come unità religiose distinte, ma ha anche condannato i loro membri a un’esistenza culturale alquanto fossilizzata. L’isolamento non significava comunque di­pen­denza, perché gli Ebrei vivevano comunque all’interno di una più ampia comunità cristiana che faceva del suo meglio per opprimerli. Un’im­portante conseguenza di questa separatezza, col relativo contesto di inferiorità sociale e politica, fu di ordine psicologico. In un mondo in cui gli Ebrei erano stranieri permanenti e più deboli, la loro identità era fissata dal popolo che li controllava, cosicché essi divennero un’invenzione della società che li produceva. Non avendo il potere autonomo di definirsi, essi erano costretti a comportarsi secondo gli stereotipi negativi imposti loro dalla società che li dominava. Si potrebbe quasi dire, per assurdo, che davvero gli Ebrei sono stati scelti dalla popolazione del mondo come popolo eletto, ovvero che sono stati ingiustamente selezionati per subire un trattamento speciale perché i loro nemici credevano che la loro convinzione di essere i prescelti implicasse un senso di superiorità e non di differenza religiosa agli occhi del loro Dio.

    Come abbiamo detto in precedenza, la giudeofobia ha una lunga storia perché gli Ebrei sono sopravvissuti alla distruzione del loro regno e sono riusciti a perpetuare le loro tradizioni religiose e sociali pur vivendo in esilio tra le comunità di altri popoli. Inevitabilmente l’esistenza di una minoranza estranea, all’interno di molti Stati dell’antichità, suscitava grande ostilità, la quale a sua volta provocò una tradizione di giudeofobia in continua evoluzione, alla quale ogni popolo dette il proprio contributo, pur attingendo al contempo all’odio già esistente. Molti studiosi si sono sobbarcati il compito di definire la natura di questo particolare odio e le sue varie dimensioni: le sue fonti, la sua funzione latente e manifesta, a seconda della sua importanza per la società, e la sua intensità in ogni particolare momento e luogo. Anche l’espressione usata per descrivere l’odio nei confronti degli Ebrei, antisemitismo, è stata analizzata per via della sua natura ambigua. Essa non fu coniata prima del 1879, quando Wilhelm Marr, giornalista tedesco di serie B e fondatore della Antisemiten Liga, cominciò a usarla come slogan politico vòlto a unire quanti più tedeschi possibile in un movimento indipendente che si prefiggeva di combattere la perniciosa influenza che si supponeva esercitata sulla Germania dall’ebraismo organizzato.

    Per quanto oggi sia comunemente impiegata dagli studiosi, l’espressione antisemitismo è abbastanza ambigua da suggerire cautela nel suo uso, anche perché coniata dall’oppressore che pretende, col prefisso anti, di opporsi ai semiti, termine egualmente ambiguo che può riferirsi a popoli che sono arabi, aramaici, babilonesi, assiri ed etiopi, oltre che ebrei. Nutriti di convinzioni razziste, Wilhelm Marr e la generazione che abbracciò quest’ideologia confusero la terminologia linguistica ed etnica – come risulta dalla loro tendenza a individuare un’opposizione tra i termini ariano e semitico – e commisero l’errore comune a tutti i razzisti, ovvero quello di credere che il patrimonio biologico spiega e determina le differenze culturali.²⁶ La loro scaltrezza va ravvisata nel fatto di aver spacciato il loro odio per opposizione ragionevole fondata su considerazioni scientifiche.

    Ogni discussione dell’Olocausto dovrebbe essere consapevole di queste trappole linguistiche e non permettere di essere dominata dalla terminologia dei suoi perpetratori. Ogniqualvolta il contesto lo richieda, si useranno le espressioni giudeofobia, odio per gli Ebrei, antiebraismo o pregiudizi antiebraici, anziché antisemitismo: etichettando cioè con definizioni cliniche o più descrittive i sostenitori dell’odio, si potranno individuare correttamente le responsabilità e sollevare ogni dubbio sul suo potenziale distruttivo. È importante, inoltre, essere consapevoli del fatto che ci troviamo davanti a un odio che, avendo sperimentato un’evoluzione nella storia, presenta caratteristiche comuni ma si è anche espresso in termini storici differenti, a seconda dei rapporti specifici che esistettero nei vari momenti tra gli Ebrei e i loro avversari. Sarebbe per esempio totalmente inappropriato arretrare nel tempo la terminologia razzialmente connotata di Marr e adoperarla per spiegare l’ostilità dei cristiani nei confronti degli Ebrei. In breve, la giudeofobia ha una lunga storia, e il suo significato richiede, oltre a una comprensione sociologica o psicologica che ci dica cosa provavano o facevano coloro che odiavano gli Ebrei, anche una comprensione storica che ci mostri come sia nato quest’odio e come si sia evoluto nel tempo, modificandosi e adattandosi a nuove condizioni pur conservando il suo carattere essenziale di odio.

    In termini sociologici, gli Ebrei rappresentavano un gruppo distinto, caratterizzato dalla stretta aderenza a costumi e pratiche religiose, in qualunque comunità risiedessero. In termini umani generali, l’ostilità verso un gruppo si esprime sotto forma di pregiudizio, parola derivante dal latino praeiudicium, che si riferiva a un giudizio fondato su una serie di decisioni passate, considerate vere o vincolanti, come un precedente in un contesto legale. Il senso legale del precedente, infatti, continua a essere presente nell’uso linguistico di pregiudizio, perché quest’ultimo è un giudizio affrettato fondato su prove insufficienti o distorte, a loro volta fondate su precedenti che nel tempo sono stati accettati acriticamente. Gli psicologi sociali hanno dimostrato che coloro che pregiudicano sono pronti a generalizzare eccessivamente, a pensare per stereotipi e ad accettare acriticamente le convinzioni della loro tribù (etnocentrismo). Un pregiudizio, secondo Gordon Allport, non è reversibile anche se sopraggiungono conoscenze nuove.²⁷ Tradizioni e abitudini, come sappiamo, non cambiano tanto facilmente, in particolare quando sono istituzionalizzate in «codici e convinzioni, standard e nemici caratteristici, adeguati alle necessità di adattamento che di volta in volta si presentano».²⁸ Quanto più una comunità è isolata, tanto meno probabile sarà cambiare le sue categorie fondamentali, se non sotto estrema pressione, per interesse o in presenza di un’eccezionale apertura mentale.

    Gli psicologi sociali hanno scoperto che il pregiudizio è legato funzionalmente sia allo sviluppo della personalità che all’espressione cognitiva; essi hanno identificato anche una personalità incline al pregiudizio, una personalità autoritaria e una mente aperta e chiusa, evidenziando le categorie cognitivo-linguistiche per mezzo delle quali la personalità incline al pregiudizio struttura la propria coscienza e interpreta il mondo di conseguenza.²⁹ Malgrado la scoperta che la personalità incline al pregiudizio pensa in modo diverso dalla personalità non incline al pregiudizio o tollerante, che il pregiudizio è un fenomeno umano e incentrato sul gruppo (etnico) e che deve essere distinto dalle semplici generalizzazioni er­ronee in virtù della sua irreversibilità, rimane il fatto che non vi è modo di prevenire i pregiudizi, perché gli esseri umani continuano a essere divisi politicamente, culturalmente, razzialmente e linguisticamente in migliaia di gruppi differenti e opposti, e anche perché non possediamo un metodo apodittico ed esente da giudizi di valore col quale possiamo stabilire il grado di verità delle generalizzazioni che facciamo sugli altri gruppi. Tutti noi siamo costretti a operare valutazioni dal nostro punto di vista ma, al contempo, le ostilità intergruppo ci hanno insegnato a riconoscere, se siamo onesti, che alcuni dei giudizi che pronunciamo sugli altri gruppi sono realistici – ovvero conformi alla realtà empirica – oppure affetti da pregiudizi perché si fondano su discorsi riportati, stereotipi, fedi utilitaristiche od ostilità personali. Se i pregiudizi in questione appartengono a quest’ultima categoria, possono essere ulteriormente suddivisi in popolarstereotipici, xenofobici e chimerici, e misurati socialmente a seconda dello loro intensità. Si scoprirà che l’espressione dell’odio antiebraico è stata più intensa in proporzione all’organizzazione di quell’odio in un sistema di pensiero maniacale che è diventato refrattario a ogni cambiamento tanto da manifestarsi, in un determinato momento, come un’ossessione caratterizzata da grande intensità.

    Nel tracciare la traiettoria storica della giudeofobia, possiamo identificare diverse fasi distinte: 1) un odio relativamente mite per gli Ebrei, in epoca antica; 2) un momento di raccolta con il sopraggiungere e l’espan­dersi del cristianesimo, che accusava gli Ebrei di essere gli assassini di Cristo e di frustrare la redenzione, fino a scoppi di grande violenza con le Crociate, accompagnato dall’insorgere di un pensiero delusionale in vari individui e gruppi; 3) un temporaneo declino durante le guerre di religione (1540-1648) e l’età successiva di tolleranza e illuminismo (1650-1815); 4) una nuova marea di giudeofobia potenzialmente distruttiva sotto l’impatto del nazionalismo e del razzismo del XIX secolo; 5) un’ultima ondata messa in moto dalla Prima guerra mondiale e dal movimento nazista, culminata nell’Olocausto. Da un punto di vista metaforico, si potrebbe argomentare che l’evoluzione della giudeofobia abbia seguito un andamento lineare – sviluppandosi cioè da un punto di partenza (terminus a quo) e muovendosi verso una meta (terminus ad quem) – trasformandosi da antipatia, pregiudizio e odio popolari in rabbia sterminatrice; d’altra parte si potrebbe sostenere, da un punto di vista ciclico, che la giudeofobia si ripresenta, in forme e livelli di intensità diversi, in ogni epoca e in ogni società, senza manifestare nessuna progressione particolare o inevitabile dal pregiudizio mite al genocidio omicida. Queste due concezioni filosofiche non si escludono necessariamente perché un pregiudizio che si sia indurito sino a diventare un movimento di odio può progredire tra le società e le culture nutrendosi degli odii passati e accentuandone il potenziale letale, come sicuramente dimostrò il movimento nazista. Al contempo la contingenza degli eventi storici è tale che pochi movimenti manifestano quella necessità interna il cui sviluppo possa essere predetto geneticamente. Un approccio strutturato che utilizzi informazioni presenti per spiegare eventi passati e associ situazioni non correlate e soltanto remotamente affini, trasformandole in un letto di Procuste per farle combaciare con la teoria, potrebbe essere particolarmente invitante nel caso dell’Olocausto; ma proprio per questo motivo, come abbiamo già detto, occorre opporsi a un approccio di questo genere, perché esso dà spesso luogo a percezioni distorte e a giudizi tendenziosi sul passato. La descrizione della giudeofobia che segue si prefigge dunque l’unico scopo di illustrare le modalità dei pregiudizi passati sugli Ebrei, senza suggerire che, come gli anelli di una catena, essi abbiano inevitabilmente raggiunto il loro culmine nell’Olocausto.

    Cristiani ed Ebrei durante il Medioevo

    Per quanto gli Ebrei fossero stati privati della loro autonomia nazionale già nel VI secolo a.C., gli abitanti del mondo antico continuavano a considerarli i membri della nazione ebraica, connotata da uno specifico carattere nazionale e religioso. Di conseguenza i rapporti tra gli Ebrei e i loro vicini pagani furono caratterizzati da tensioni e ostilità che, in vari momenti, raggiunsero il livello di una furia genocida. Il Libro di Ester, per esempio, documenta questo risentimento contro la comunità ebraica in esilio e identifica nella figura di Aman il primo architetto del genocidio ebraico nella storia, una specie di archetipo di inquisitore che si sarebbe poi incarnato in molti altri che avrebbero perseguitato gli Ebrei proprio come lui: Torquemada, Eisenmenger, Marr, Fritsch, Chamberlain, Drumont, Eckart, Rosenberg, Streicher, Himmler e Hitler. L’ordine di Aman che «le persone... tutte, con le mogli e i figli, siano radicalmente sterminate per mezzo della spada dei loro avversari, senz’alcuna pietà né perdono» fu fortunatamente eluso dal re persiano, che si era innamorato della bella Ester.

    Il re sventò il piano genocida, impiccò il malvagio Aman e consentì agli Ebrei di eliminare i loro nemici.

    Né i Persiani né i Romani, tuttavia, trattarono gli Ebrei in modo diverso dagli altri popoli: ciò dimostra che in epoca antica l’antiebraismo non possedeva una connotazione religiosa, e sicuramente non razziale.³⁰ Cer­to, l’ostilità intergruppo era piuttosto intensa, e si potrebbero citare molti esempi tratti da scrittori pagani per illustrare l’esistenza di pregiudizi antiebraici. Il sacerdote e storico egizio Manetho, per esempio, cercò di confutare la storia biblica dell’Esodo, spargendo la voce che Mosè fosse in realtà un sacerdote rinnegato che si era messo a capo di una rivolta di emarginati, tra cui Ebrei, neri e lebbrosi, per rovesciare il governo e sostituirlo con una religione malvagia ed estranea. Questa storia fu poi ripresa ed elaborata da Alessandro Appiano, tanto da impressionare Freud, come emerge dal suo Mosè e il monoteismo (1938). Gli intellettuali greci e romani accusavano la cultura ebraica di essere sterile e superstiziosa, tanto che a volte gli Ebrei erano denunciati per presunte pratiche barbariche. Si diceva, per esempio, che gli Ebrei erano strani, che adoravano gli asini e che nei loro templi celebravano segretamente sacrifici umani, oppure si dedicavano ad altre attività misteriose. Queste accuse erano piuttosto comuni, ma non furono mai organizzate in una coerente ideologia antiebraica appoggiata dal braccio secolare o religioso di uno Stato dell’antichità.

    Fu soltanto col sopraggiungere del cristianesimo che gli Ebrei furono automaticamente identificati non solo come popolo sospetto ed estraneo, ma anche come popolo colpevole: colpevole perché aveva ucciso Gesù, il Figlio di Dio. Gesù era ebreo, naturalmente, e lo stesso dicasi dei suoi primi seguaci, che erano Ebrei eretici e ribelli. Da piccola setta ebraica eretica, tuttavia, il cristianesimo si trasformò in una religione mondiale, fatto questo dovuto in gran parte a un solo uomo, Saulo di Tarso, o san Paolo, Ebreo di lingua greca che era nato a Tarso, in Asia Minore, e si era convertito al cristianesimo, diventandone il maggiore missionario e imponendogli una sofisticata sovrastruttura teologica che probabilmente avrebbe stupito il suo fondatore. A partire da san Paolo, nel cristianesimo si possono identificare due importanti cambiamenti: primo, il movimento non si rivolse più soltanto agli Ebrei, estendendo il suo messaggio a tutti; secondo, smise di attribuire la responsabilità dell’uccisione di Cristo ai Romani per incolparne gli Ebrei. Colpiti dall’accusa di aver ucciso il Figlio di Dio, gli Ebrei furono considerati sempre più dai cristiani un popolo maledetto, come emerge dalla famosa esclamazione che il Nuovo Testamento attribuisce alla folla ebraica: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt. 27, 24 ss.).

    San Paolo, anch’egli Ebreo, non disprezzava il suo popolo, ma credeva che l’ebraismo fosse una religione obsoleta e compì ogni sforzo per convincere i suoi correligionari ebrei a convertirsi al cristianesimo. Nella Lettera ai Romani invita ripetutamente gli Ebrei alla conversione: «Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza» (Rm 10, 1); eppure gli Ebrei, «ignorando la giustizia di Dio» (Rm 10, 3), rimasero sordi al suo appello. Paolo arriva a far dire a Dio: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!» (Rm 10, 21). Gli Ebrei rifiutarono di riconoscere che Gesù fosse il Messia e non tradirono la loro fede. L’ostinazione degli Ebrei nel rifiutare di convertirsi al cristianesimo, insieme con la loro crescente convinzione che fossero colpevoli della morte di Cristo, fece adirare i cristiani e provocò periodici scoppi di ostilità. Per esprimersi con Leon Poliakov, «per l’organizzazione del cristianesimo era essenziale che gli Ebrei fossero colpevoli di un crimine»³¹. Alcuni dei primi Padri della Chiesa lanciarono anatemi contro gli Ebrei, come Origene quando insistette che «possiamo dunque affermare con estrema sicurezza che gli Ebrei non torneranno alla loro situazione precedente, perché con la loro cospirazione contro il salvatore del genere umano hanno commesso il più abominevole dei crimini».³² Gregorio di Nissa ebbe parole di ulteriore condanna e denunciò gli Ebrei come «assassini del Signore, assassini dei profeti, ribelli e detestatori di Dio... compagni del diavolo, razza di vipere, informatori, calunniatori, oscuratori della mente, lievito farisaico, sinedrio di démoni, maledetti, detestati, lapidatori, nemici di tutto ciò che è bello».³³ Persino il grande sant’Agostino sparò una bordata contro gli Ebrei dal titolo Contra Judaeos, in cui li dipingeva come un popolo reprobo che era stato soppiantato da un nuovo popolo eletto.³⁴ Questo concetto emerge con maggiore evidenza dalla sua opera principale, il De Civitate Dei,³⁵ che con il suo tema delle due città, la città di Dio formata da coloro che vivono nello spirito cristiano e la città dell’uomo formata da coloro che vivono secondo la carne (pagani, Ebrei, non credenti), sarebbe divenuta una delle pietre miliari della teologia cristiana. Fu sempre sant’Agostino, rielaborando un tema di san Paolo, ad affermare che la conversione degli Ebrei avrebbe segnato la fine del mondo, sottintendendo quindi che l’ostinazione ebraica avrebbe ritardato il secondo Avvento e frustrato le speranze di redenzione dei seguaci di Cristo.³⁶

    Per quanto si possano segnalare molti attacchi violenti contro gli Ebrei da parte dei primi Padri della Chiesa, non si dovrebbe tuttavia dimenticare, come ci rammenta Steven Katz, che in questo periodo nessun Ebreo fu mai perseguitato dalla Chiesa.³⁷ Le restrizioni legali contro gli Ebrei cominciarono invece quando lo Stato divenne cristiano. A partire dal Tardo Impero romano e continuando col predominio cristiano nell’Alto Medioevo, molti antichi privilegi ebraici furono sospesi, fu proibito il proselitismo, la giurisdizione rabbinica fu decurtata o abolita, furono proibiti i rapporti sessuali tra Ebrei e cristiani e fu abolita la maggior parte delle protezioni legali. Eppure, prima dell’avvio della I Crociata, nel 1096, si verificarono ben pochi episodi di vero e proprio antiebraismo popolare. In tutta Europa si insediarono colonie ebraiche, specialmente all’interno dell’Impero carolingio, e gli Ebrei furono molto attivi come mercanti, funzionari, medici, artigiani e persino proprietari terrieri. A livello ufficiale, compresi vescovi e rabbini, i rapporti tra Ebrei e Gentili erano improntati alla tolleranza, e talvolta persino alla cordialità. Nei paesi musulmani ricevettero un trattamento ancora migliore, data l’affinità razziale, religiosa e culturale tra Ebrei e Arabi. I mercanti ebrei seguirono i conquistatori arabi che stavano espandendo il mondo di Allah: ben presto la civiltà islamica si sarebbe estesa dai Pirenei all’India e dal Marocco alla Cina. Fu proprio nella Spagna moresca che gli Ebrei trovarono uno dei pochi paradisi della loro storia lunga e travagliata, anche se questo paradiso non sarebbe sopravvissuto alla riconquista cristiana della Spagna, nel XV secolo.

    Lo scatto decisivo nella direzione dell’odio popolare verso gli Ebrei si ebbe, come abbiamo già osservato, con la I Crociata, nel 1096. Prima di procedere al loro viaggio in Terrasanta per cacciarne gli infedeli, bande di predoni fanatici massacrarono circa diecimila Ebrei innocenti nella Francia e nella Germania settentrionali, accendendo quell’odio irrazionale per gli Ebrei che in seguito si sarebbe ripetuto sotto l’impatto delle varie crisi che i cristiani non furono capaci di risolvere.³⁸ Particolarmente insolita, nel 1096 e nelle successive crociate o rivolte dell’Europa medioevale, come ha dimostrato Gavin Langmuir, fu la natura chimerica dell’odio che era riversato sugli Ebrei, un odio che era interamente fondato su un numero crescente di convinzioni delusionali a proposito degli Ebrei e della loro malvagità.³⁹ Le autorità secolari ed ecclesiastiche si opposero ufficialmente a questi scoppi di violenza popolare, ma la loro intrinseca ostilità verso gli Ebrei le rese distanti e ambigue nei momenti di crisi, e quindi incapaci di – o non disposte a – arginare la marea di atti omicidi antiebraici. Il papato oscillava tra l’opinione espressa da Gregorio I, il quale insisteva che i non credenti dovessero essere trattati con gentilezza e persuasi con ragionamenti chiari e «presentati in modo gradevole», opinione poi riaffermata in bolle papali in cui si affermava che gli Ebrei avevano il diritto di vivere nelle società cristiane,⁴⁰ e i pronunciamenti più stridenti di papi come Innocenzo III o dei Concili lateranensi, che dichiararono gli Ebrei schiavi dei cristiani (Concilio lateranense III, 1179) o li segregarono socialmente, costringendoli a vestirsi in modo diverso e definendoli «blasfematori del nome cristiano» (Concilio lateranense IV, 1215). Senza sporcarsi le mani, le autorità secolari ed ecclesiastiche proibirono agli Ebrei di possedere terre, li esclusero dalle corporazioni e li confinarono in occupazioni disprezzate e marginali come il prestito di denaro, la vendita ambulante e il commercio di seconda mano. Con la Grande Peste (1347-50), la quale contribuì, col mito del­l’avvelenamento dei pozzi, alle leggende già esistenti sulle cattiverie commesse dagli Ebrei, era ormai evidente la natura chimerica dello stereotipo dell’Ebreo per i cristiani, cosicché, secondo Langmuir, uccidere gli Ebrei non era più un effetto secondario delle Crociate: a farlo erano folle organizzate per vendicare le istanze delusionali dovute ai presunti avvelenamenti di pozzi, profanazioni di ostie o infanticidi rituali.⁴¹

    È importante concentrarsi opportunamente su questi elementi maniacali all’interno del sistema giudeofobico in evoluzione, perché alcuni di questi furono in seguito modernizzati e trasformati per adattarsi alle fissazioni naziste rispetto agli Ebrei. Queste fissazioni sono almeno dieci, in gran parte stabili sin dalla fine del Medioevo:

    1. L’ostinazione degli Ebrei.

    2. L’Ebreo errante (Ahasver).

    3. Gli Ebrei alleati del diavolo.

    4. L’odore mefitico degli Ebrei.

    5. La carnalità ebraica.

    6. Oltraggi col sangue e sacrifici rituali di bambini.

    7. Profanazione delle ostie.

    8. Complotto ebraico mondiale.

    9. Avvelenamento dei pozzi.

    10. Il parassita ebreo improduttivo.

    Il tema secondo il quale gli Ebrei sono ostinati, come abbiamo già visto, si riferisce al loro rifiuto di convertirsi a quelle che i cristiani consideravano verità evidenti, ovvero la fede che Gesù fosse il Messia. Il loro rifiuto di convertirsi era particolarmente inviso ai cristiani ipocriti in virtù della diffusa convinzione che il secondo Avvento presupponesse, con altri eventi quali il ritorno di Elia e il regno dell’Anticristo, anche la conversione degli Ebrei. Per esprimersi con le parole di Leon Bloy, «la salvezza di tutti i popoli era diabolicamente sospesa per la loro malvagità».⁴² Associato a questo mito della caparbietà ebraica vi era quello dell’Ebreo errante, che non fu articolato formalmente per iscritto sino al 1602 ma era noto sin dall’antichità, nelle sue diverse varianti, e fu perpetuato per tutto il Medioevo.⁴³ Al centro di questo mito troviamo, ancora una volta, la caparbietà e la colpa degli Ebrei, con la differenza che questa si incarna adesso in una figura mitica, quella di Ahasver, che si suppone fosse presente il giorno in cui Gesù fu crocifisso, e lo avrebbe schernito durante la sua salita al Golgota; in cambio, il Redentore lo avrebbe condannato a vagare sulla faccia della terra, derelitto e infelice, finché egli stesso non fosse ritornato ad annunziare il Giudizio Finale e la fine del mondo. Per gli ingenui, il mito dell’Ebreo errante sembrava confermato dall’evidenza empirica, giacché per tutto il Medioevo i cristiani furono testimoni del fatto che gli ebrei erano cacciati di luogo in luogo e vagavano di città in città senza aver fissa dimora da nessuna parte. Opportunamente arricchito col passare dei secoli, questo mito prese forma fisica nel 1542 quando un ministro luterano, Paulus von Eitzen, incontrò in una chiesa di Amburgo un barbone di nome Ahasver e ritenne che costui fosse l’Ebreo che aveva maledetto Gesù sul Golgota e, in cambio, era stato maledetto da Gesù con le parole «cammina per sempre, sino al mio ritorno». Il racconto fondato sulla storia leggendaria e sull’incontro di Eitzen con un uomo di nome Ahasver fu poi pubblicato nel 1602 col titolo di Kurze Beschreibung und Erzählung von einem Juden mit Namen Ahasverus (Breve de­scrizione e racconto di un Ebreo di nome Ahasverus) e divenne tanto popolare da avere quasi cinquanta edizioni in pochi anni.⁴⁴

    Per estensione metaforica la maledizione di Ahasver diventava, com’è ovvio, una maledizione di tutto il popolo ebraico, non solo per la sua ostinazione, ma anche per la sua natura demoniaca. In un’epoca in cui il diavolo era una realtà per coloro che credevano nella sua esistenza, perché credevano nell’esistenza del male radicale, il non credente o Ebreo doveva essere alleato con lui. Se Gesù era il Messia, l’unica persona che gli Ebrei potevano attendere era l’Anticristo.⁴⁵ Fu seguendo questo ragionamento che gli autori cristiani diffusero la notizia che gli Ebrei erano seguaci dell’Anticristo. Durante gli ultimi giorni, la parodia ebraica di Cristo avrebbe fatto risorgere il Tempio e presieduto brevemente un nuovo impero ebraico, prima di essere distrutto da Cristo. Secondo Robert S. Wistrich, il mito dell’Anticristo, che ai tempi delle Crociate contribuì ai massacri degli Ebrei, prefigurava quel pensiero millenarista che avrebbe conquistato i tedeschi negli anni Trenta e che vedeva in Adolf Hitler il Cristo secolare tedesco venuto a liberare la Germania dalla vera fonte di ogni male: gli Ebrei.⁴⁶

    L’associazione di Ebrei e diavolo può essere riscontrata già nel Nuovo Testamento e nelle opere dei primi Padri della Chiesa come Gregorio di Nissa o san Giovanni Crisostomo, per il quale gli Ebrei incarnavano la sinagoga di Satana.⁴⁷ Una conseguenza di questa demonizzazione degli Ebrei era la proiezione su di essi di impulsi di terrore e odio nutriti da cristiani. Nel folklore e nell’arte medioevale l’Ebreo è talvolta dipinto come scrofa, Judensau, ed è ritratto come persona dal colorito scuro, i capelli ricciuti, il naso adunco e un odore mefitico. In diverse xilografie lo vediamo col pizzetto e la coda da diavolo in sella a un caprone.⁴⁸ Gli Ebrei sono considerati stregoni e maghi, capaci di praticare una varietà di arti nere. In un mondo quasi del tutto analfabeta, queste immagini iconografiche avevano un impatto potente su persone ingenue la cui prima fonte di informazione erano la parola parlata o le arti visive. Nell’osservare la documentazione visiva – che va dal rotolo di Essex (1277), che dipinge Aaron come figlio del diavolo, attraverso le serie di stampe del XVI secolo note col titolo di Juden Badstub (Bagno ebraico), che ritrae il diavolo intento ad assistere gli Ebrei al bagno, le stampe del XVII secolo che mostrano il diavolo in una sinagoga mentre partecipa ai rituali ebraici, gli innumerevoli fumetti in cui gli Ebrei sono brutti, lascivi, col naso adunco e commettono una cattiveria dopo l’altra, fino alla perfezione raggiunta in queste arti diffamatorie da Philippe Rupprecht sulle pagine di Der Stürmer di Julius Streicher – cercando, in breve, all’interno di questo vario materiale visivo sull’odio verso gli Ebrei, non sorprende più che lo stereotipo fosse accettato come realtà da tanta gente.

    Se gli Ebrei erano discepoli del diavolo, ne conseguiva dunque che

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