Fino all'ultima pannocchia
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Anteprima del libro
Fino all'ultima pannocchia - Alberto Valli
1.
Gaïna che canta l’ha fa l’oeuf
Quaranta giorni senza uova. Un record.
Alla faccia delle galline ovaiole, pensava Folco.
I tempi in cui Marisa poteva recarsi felice al nido per prendere l’uovo ancora caldo e portarglielo in Comune, affinché sua moglie Carlotta ci ricavasse le sue fantastiche frittatine, sembravano finiti da un pezzo.
Dodici galline e, da oltre un mese, di uova, nemmeno l’ombra.
Un senso di rammarico pervadeva l’animo del sindaco. Quella mattina, durante l’ennesimo sopralluogo, era stato costretto a tornarsene a casa bofonchiando, mentre le cocche razzolavano allegre, lanciando a lui e a Marisa, che del pollaio era la proprietaria, nient’altro che occhiate innocenti, come se nulla fosse successo.
Con meno di sei mesi alle elezioni quella delle galline ovaiole che non facevano più le uova era l’ultima gatta che il sindaco avrebbe voluto pelare. Le voci si erano rincorse come bambini all’uscita da scuola e non c’era angolo di Dové Lisotto dove la notizia non fosse arrivata in tutta la sua gravità. Il fermo di produzione non concordato aveva scosso gli animi della borgata.
I proprietari dei pollai, che erano la maggior parte, erano ormai in preda al panico e alla disperazione, e mille domande rimbombavano nella loro testa.
La povera Marisa si vergognava a uscir di casa, visto che le poche volte in cui si era arrischiata ad andare a passeggio la gente si scansava, rovesciandosi sul marciapiede opposto e facendo verso di lei ogni genere di scongiuri.
E questo al nostro sindaco non poteva certamente andare a genio visto che Marisa era la più fedele tra le sue elettrici. Se aggiungete che la notizia, presto o tardi, sarebbe giunta anche alle orecchie dei cittadini della borgata rivale di Dové Lisopra, in cima alla collina, era facile scommettere che la brutta storia delle galline non più ovaiole sarebbe in men che non si dica diventata materia di politica estera.
Era stato mobilitato anche il vecchio Simeone, da tutti in paese riconosciuto come il massimo esperto di pennuti da gabbia, ma i risultati del suo intervento erano stati piuttosto deludenti. Ad accompagnarlo c’era anche la piccola Luana, dodici anni, ambientalista e appassionata del benessere degli animali da quando ne aveva sei.
Simeone aveva guardato ovunque, nel caso in cui le chiocce avessero deciso di trovarsi un nido naturale alternativo, un cespuglio, una macchia d’erba a loro più gradita. Ma perlustrando in lungo e in largo tutto lo spazio di razzolamento non si era trovato nulla, nemmeno un singolo uovo. Del resto, non vi era luogo nel pollaio in cui fosse per loro facile appartarsi, e non si capiva perché, le galline, avrebbero dovuto scegliere un anfratto nascosto piuttosto che la morbida paglia amorevolmente preparata da Marisa, su cui chiunque sano di mente avrebbe preferito accovacciarsi per deporre.
«Cantano e mangiano?» aveva chiesto Simeone, che per conservare intatta la sua fama era ben deciso ad andare a fondo della questione. «Sicuro che cantano, non le senti? E mangiano pure: tre volte al giorno!». Marisa non ci stava a passare per novellina: era da vent’anni che curava il pollaio con la stessa accortezza che riservava al salotto e alla cucina di casa. Gli scongiuri dei passanti erano una cosa, che si dubitasse delle sue cure nei riguardi delle galline suonava come un’accusa bella e buona che nemmeno Simeone poteva avere l’ardire di concedersi.
Gli animali, in effetti, sembravano tutti in buona salute, e nessuno avrebbe pensato di dover ricorrere a metodi drastici per risolvere la situazione. «Quando una gallina non sa più fare le uova» aveva detto Simeone, «occorre prenderla e metterla in una gabbia stretta, separata dal resto del pollaio, di modo che non abbia altro da fare se non deporre».
«Ma io il problema ce l’ho con tutte: qui le uova non le fa più nessuna, e sono ormai più di cinque settimane!» aveva risposto Marisa. «E poi dove le vado a prendere io tutte queste gabbie?».
L’esperto se la cavò con una scrollata di spalle. Non era un problema suo, quello. Alla fine, anche Simeone se n’era andato bofonchiando, scegliendo di percorrere la strada sopra la proprietà di Marisa, nella speranza di non essere visto da nessuno. Meglio mantenere il basso profilo, finché la cosa non sarà risolta, pensava. Il sindaco, nonostante fosse domenica, aveva dovuto fare ritorno in Comune per rivedere alcune circolari che sarebbero uscite l’indomani. Spesso gli capitava di trascorrere in quel palazzo interi giorni festivi, e non rare volte anche le notti. «Non è mestiere che conosca orari, quello del primo cittadino» diceva a casa, le poche volte che gli toccava giustificarsi con Carlotta. Ma era raro che la moglie si lamentasse della sua assenza, avendo presto imparato a far buon viso a cattiva sorte da quando il marito era stato eletto in Comune. Da quel momento, tutto era cambiato. E dire che quando l’aveva sposato, vent’anni prima, molte in paese si erano perfino messe a ridere che un figlio di un bigatè non era considerato certo un buon partito. E anche lei, per un po’, l’aveva pensato. Ma non c’era la fila ad attenderla quando aveva deciso di maritarsi, e quel ragazzotto anche se aveva già perso molti dei capelli che aveva da bambino era l’unico che si fosse fatto veramente avanti, e l’aveva trovato dolce e gentile. C’era poi una qualità che nessun’altra gli aveva visto addosso ma che lei sapeva essere la migliore quando occorre scegliersi il marito: l’ambizione.
Molte preferiscono portarsi in casa un uomo avvenente, oppure uno dall’intelligenza sopraffina; futuri mariti che posseggano entrambe le caratteristiche restano appannaggio di privilegiate e i pochi nati in quella maniera qui a Dové Lisotto finisce sempre che se li portan via le ragazzine di città, capitate qui in provincia per caso e ben contente di assaggiare i prodotti migliori della zona. Lei era andata controcorrente. E ci aveva visto giusto: ora era la moglie del sindaco e tutte in paese crepavano d’invidia. Era la Firsledi, come la chiamava lui, per coccolarsela un po’, quando rientrava tardi la sera, perché la riunione in consiglio era stata più lunga del previsto e tutti dopo avevano voluto andare a bere una cosa da Aldo, al Plis, che poi era l’unico bar che restava aperto fino a quell’ora. A volte suonavano ad Aldo e se lo facevano aprire apposta: «Riunione straordinaria del Consiglio» gli urlavano al citofono. E Aldo era ben contento perché mai si era vista in paese una giunta capace di garantirgli un tale aumento di fatturato.
Ma quella sera, quando l’aveva visto rientrare, aveva capito subito che non c’era aria di festa.
Folco aveva saputo che una nuova lista era pronta a presentarsi alle elezioni e il suo umore era cambiato. In peggio ovviamente.
La notte non dormiva più. Continuava a chiedersi chi mai volesse concorrere contro di lui e perché. Non che avessero avuto speranze di vincere, questo era chiaro. Ma che in un paese di soli centoventitré abitanti ci fosse spazio per una opposizione era per lui qualcosa di incomprensibile.
Tanto più che non era mai capitata prima, a memoria di doverese. E come se non bastasse nessuno era stato in grado di rivelare l’identità di questa famigerata coalizione d’opposizione.
Che fossero solo voci? Molti, in paese, l’avevano pensato, fino a che un articolo su Il Portinaio
, il giornale locale, aveva sciolto ogni dubbio. La lista c’era e si sarebbe presentata.
L’articolo raccontava tutti i dettagli della prossima discesa in campo, omettendo solamente il nome del candidato sindaco e dei suoi sostenitori. Si chiamava Dové Insieme Uniti per l’Unione dei Comuni del Doverese
e non era diversa dalle molte liste civiche – che fioriscono d’estate, per scomparire d’inverno a elezioni concluse – che Folco aveva imparato a conoscere.
Unico, tremendo, particolare: sembrava rivolgersi, senza distinzione, a tutti i Doveresi, di sopra e di sotto, come se per un millennio il Padre Eterno non avesse avuto cura di tenerli ben distanziati, mettendo tra loro perfino un fiume e un monte a far da divisione.
Uno scandalo bello e buono: questo volevano provocare i nuovi arrivati, chiunque essi fossero. E presto sarebbero dovuti saltar fuori, visto che i termini per la presentazione delle liste sarebbero definitivamente scaduti a fine mese. E ora anche questa storia delle galline in sciopero della povera Marisa.
Quella sera avrebbe preparato qualcosa per tirargli su il morale, in fondo era la sua Firsledi e non si finisce a diventare Firsledi così, per caso. Non qui, non a Dové Lisotto.
2.
Il Giro Donne
Un’occasione da non perdere. O almeno questo era quanto avevano fatto credere al sindaco quei signoroni venuti fin da Roma l’estate scorsa.
Mancavano ancora le conferme ufficiali, avevano detto, ma la salita che da Dové Lisotto, con suoi quattro ripidissimi tornanti, portava a Dové Lisopra, aveva suscitato l’interesse del direttore della corsa. Non il mero transito dunque, ma addirittura un arrivo di tappa, seppur di una delle più semplici: roba da velocisti, avevano detto.
E il sindaco si era lasciato ingolosire da quella che gli sembrava essere una sensazionale offerta. La somma richiesta dalla federazione per assicurare che il direttore facesse la scelta più giusta
non era cosa da poco, soprattutto per le casse di un Comune così piccolo come il suo.
Si sarebbero dovuti rallentare i lavori di sistemazione della scuola elementare e, per almeno altri quattro anni, i suoi concittadini si sarebbero potuti scordare il nuovo parcheggio di fronte al cimitero. Ma mai prima di allora Dové Lisotto aveva ospitato una tappa del Giro d’Italia. La più importante rassegna ciclistica del Paese. Roba da matti. Nei bar non si parlerà d’altro per tutto l’inverno, aveva pensato.
Quando la notizia aveva cominciato a trapelare, da vecchia volpe qual era, il sindaco aveva preferito non sbilanciarsi: «È prematuro, c’è un interesse, questo lo posso confermare, ma sul tracciato, da Roma, hanno chiesto riserbo fino all’annuncio». Eppure, aveva già avuto tutte le rassicurazioni del caso. Il giro sarebbe passato nel doverese, transitando, in seguito alle modifiche che aveva specificatamente richiesto, proprio sotto casa sua. Un sogno che si realizzava.
Erano anni che presentava la candidatura senza ricevere risposta: il giro, in fondo, non è semplicemente una manifestazione sportiva ma una vetrina senza paragoni, l’occasione per raccontare a tutto il mondo le bellezze di Dové Lisotto, per troppo tempo messa alla porta dai grandi circuiti turistici che avevano investito la Regione.
Perché il doverese era una terra con un patrimonio artistico, storico e naturale che andava esportato ovunque, e sarebbe stata la cornice perfetta per il nuovo giro.
Ma quando si accorse che la corsa, su cui si era accordato con gli emissari della federazione appena un anno prima, sarebbe stata rosa due volte, il sindaco rimase per un’intera settimana con l’amaro in bocca.
A percorrere le strette strade del centro cittadino sarebbe stato infatti il Giro Donne.
Il percorso del fratello maggiore
, il Giro Uomini,