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Il Maestro delle Piccole Cose
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E-book239 pagine3 ore

Il Maestro delle Piccole Cose

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Info su questo ebook

È un ritorno all’indietro.

Rievocare, rivangare nella memoria. Raccontarsi la propria storia tra successi (pochi) e insuccessi, parecchi, con disillusioni e tanto disincanto.

Alfredo, il personaggio centrale del libro, torna dopo anni di assenza alla città natale. Va alla cerca delle proprie radici, di amici, di conoscenti. Il ritorno, il due di novembre, non è una data casuale bensì precisa, voluta, la festa dei morti. E il cammino all’indietro non può che iniziare da lì, dalla tomba della mamma come per riprendere un discorso mai completato. Da quella tomba provare a ricostruire ciò che è stato leggendo le scritte sulle lapidi degli amici e conoscenti morti. Il rincontro con i conterranei, con i vecchi Amci, anche loro cambiati dalle vicende personali, trasformati dagli anni, consumati dal tempo, quasi cadaveri ambulanti.

Scrivendo e descrivendo con parecchia fantasia e un po’ di sana ironia, ne vengono fuori piccoli quadri (quadretti) di personaggi veri, veritieri, verosimili, credibili, accompagnati da un po’ di amarezza per il tempo che se n’è andato quasi senza rendersene conto. Una generazione, la sua, con alla base qualche pretesa, una voglia matta di cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato loro. E perciò, altro che successi!

Una generazione la sua che ha imparato a proprie spese che la vita è diversa da come la si pensa a vent’anni.

Alla fine, deluso da un mondo che non esiste più, in cui non si ritrova, da radici che non hanno più senso, se ne torna là dove un giorno era capitato quasi per caso e dove ora si trovava più a suo agio. Ecco, essendo questo il destino di molti, molti potrebbero riconoscersi nel percorso descritto nel testo.

Il maestro delle piccole cose è la quarta opera di Bruno Latini, che in passato ha pubblicato Mondi incartati (2010), Il dubbio (2013), C’era la luna (2016).
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9791280573070
Il Maestro delle Piccole Cose

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    Anteprima del libro

    Il Maestro delle Piccole Cose - Bruno Latini

    PARTE PRIMA

    I

    Era il tardo pomeriggio dell’ultimo giorno del mese di ottobre. Alfredo, fermo davanti al portone della vecchia casa paterna, armeggiava nel tentativo di aprirlo. Dopo anni voleva sistemare le cose così come gli aveva raccomandato la mamma poco prima di andarsene. Infilata la chiave nella toppa, non girava. La ruggine aveva iniziato il suo lavoro. Temeva, come gli era successo più volte nel passato, di arrivare sempre tardi ai pochi appuntamenti che nella vita contano davvero. Dopo i tanti tentativi la chiave prese a girare. Due schiocchi, un’ultima spallata e la porta girando a fatica sui cardini pieni di ruggine si aprì con un cigolio forte come un urlo. Raggiunta la finestra, aperti gli scuri, ecco davanti apparve il disastro: polvere su tutto, ragnatele grandi come lenzuola, mosche e moscerini morti che coprivano il pavimento e in più un cattivo odore che proveniva dal bagno talmente sgradevole da costringerlo a tapparsi il naso. Eppure, nonostante quel disastro, un desiderio improvviso, forte come una fitta: la voglia di riavere qualcosa della vita di prima con la mamma accanto.

    Dato uno sguardo accurato all’insieme, gli sembrò che tutto fosse come l’aveva lasciato anni prima, nonostante le ragnatele, la sporcizia e quel cattivo odore che dava il voltastomaco. Tirò un sospiro di sollievo, poteva tranquillizzarsi. E l’indomani quando sarebbe andato a salutare la mamma dirle che si desse pace una volta per tutte e dormisse serena il suo sonno senza risveglio.

    Il mattino dopo, alzatosi di buonumore come non gli accadeva ormai da tempo, per prima cosa volle salire sul colle per guardare la città dall’alto, riassaporare quella piccola gioia che si prova a rivedere dopo anni i luoghi dove si è nati e cresciuti anche se con parecchia fatica; dare spazio ai ricordi più belli, riascoltare le voci di dentro, provare a tornare bambino per un’ultima volta, rivivere per un attimo quel poco di bello che vi è stato, accantonare una volta per tutte quelle cicatrici profonde mai sanate completamente.

    Fatti alcuni giri tra le vie centrali, ascoltate le voci dalle cadenze di una volta, ebbe chiara la sensazione che la citta dormisse ancora quella parte di sonno che da sempre si addice a ogni centro del Meridione. Avevano provato a tirarla su, rimesso a nuovo le vie centrali, costruito un nuovo quartiere ma non era cresciuta più di tanto. I segni di una nuova povertà erano evidenti. Ma se è vero, come affermano i credenti, che il Dio del cielo e della terra, il Dio di tutti, preferirebbe i poveri ai ricchi, che avrebbe un occhio di riguardo verso gli ultimi, magari prima o poi anche per la città sarebbe arrivato quel miracolo economico che politici e faccendieri promettevano inutilmente già nei tempi lontani. Nel mentre osservava tutto ciò che gli si parava davanti, gli riaffiorava quell’idea vecchia di secoli che vorrebbe ogni città del Sud, ferma, piantata nel mezzo di un deserto e la sua gente con lo sguardo rivolto all’indietro a raccontarsi un passato di grandezze che nella realtà non c’è mai stato. Eppure qualcosa di nuovo vi era, proprio lì, nella zona a sud-est, tre palazzoni alti e brutti, quasi dei silos, quelli da destinare agli ultimi della classe, svettavano solitari nel mezzo della campagna. Un intero isolato pronto a isolare i nuovi inquilini arrivati quasi tutti dalle terre lontane.

    Tutti negri, zingari e ladri. Questo il nobile pensiero che un passante si sentì in dovere di partecipargli e senza che gli avesse chiesto alcun parere.

    Si fermò, preso da una forte emozione davanti alla bella scalinata del palazzo comunale dove un tempo nelle notti d’estate lui e gli amici sostavano fino a tarda ora in attesa della frescura e nel mentre parlavano del che fare. Quanti ricordi! Invidiavano gli amici che erano andati a lavorare a Torino, chi a Milano e chi in Germania, proprio quelli che ogni estate tornavano alla guida di una macchina nuova da mostrare agli amici rimasti in città. E loro, gli stanziali, lì ad osservare la Fiat cinquecento nuova colore arancio. Quelli che tornavano dalla Germania erano diversi, si riconoscevano a vista, erano più chic. Capigliatura alla Fonzie, sigaretta di marca penzolone sulle labbra, jeans attillati, camicia sbottonata alla moda di un viveur, catenina d’oro al collo con il ciondolo che pareva d’oro massiccio. Parcheggiavano l’auto in piazza anche di traverso e poi entravano al bar centrale a fare salotto. E loro, gli stanziali contro voglia, lì a girare intorno alle macchine nuove, ad accarezzarle con gli occhi.

    Allora capivano che anziché restare lì, impalati, senza alcuna prospettiva per il futuro, dovevano darsi da fare. E così chi progettava di raggiungere l’amico a Torino, chi addirittura in Germania o arruolarsi nei carabinieri, nella polizia, nell’esercito. Era quello ciò che il Destino aveva progettato per loro o forse ancor più la cattiva politica degli amministratori meridionali. E i giovani, assillati dall’ansia dell’attesa sempre troppo lunga, cominciavano a pensare seriamente di partire anche se qualcuno tra gli amici tornati a Ferragosto con la Fiat cinquecento nuova colore arancio, prima o poi sbottava e raccontava che sì il lavoro c’era, ma che dormivano in cinque nel camerone di un palazzo alla periferia di Torino con un’igiene a dir poco precaria. Che in fabbrica i turni di lavoro erano di otto ore piene che non passavano mai; che la mattina uscivano da casa che era buio e rientravano che era già notte; che avevano sempre addosso gli occhi del capoccia; che non potevano mai lasciare la macchina a cui erano addetti e che al bisogno dovevano pisciare nella bottiglietta. Sì, c’era il sindacato che protestava con i dirigenti dell’azienda; che scioperavano tutti compatti, ma nella realtà, anche il sindacato di fronte alla legge del padrone non contava un cazzo.

    Mentre camminava solo lungo il viale alberato, gli risonava dentro tutt’intero quel lungo discorso dell’amico tornato da Torino: ‘… ogni sabato sera andavamo alla stazione centrale, noi, le prostitute, i militari di leva quasi tutti sbattuti lì dal profondo Sud. Pure le tre prostitute che si accostavano a noi anche solo per due chiacchiere erano del Sud. Con loro avevamo formato un gruppo famiglia. Ci rincontravamo quasi ogni sabato sera come se avessimo un appuntamento. Era nata confidenza con la Carla e la Maria che era anche la più triste e non parlava mai. Per fortuna c’era la Anna, allegra, spigliata, era l’animatrice del gruppo. Aveva sempre un atteggiamento positivo forse per sollevare il morale delle compagne. La comune origine meridionale ci avvicinava. A volte, loro servivano a noi e noi a loro. Facevamo girare i loro nomi, illustravamo le loro qualità professionali ai colleghi alla Fiat. Grazie alla nostra pubblicità, gli affari per le nostre amiche meridionali andavano a mille. In compenso, noi del gruppo godevamo di uno sconto. Ogni tanto qualcuno di noi si allontanava con una di loro. Si chiudeva in uno di quegli alberghetti intorno alla stazione. Quando tornava, l’amico era moscio (post coitum omne animal triste) non parlava e per tutta la sera si beccava lo sfottò degli amici che volevano sapere i particolari su quei cinque minuti d’amore. Invece la Anna sembrava allegra come se la cosa con il conterraneo riuscisse meglio che con il polentone. La Anna era una gran bella donna e non si capiva perché si facesse sbattere da tutti per quattro soldi. Evidentemente nella dannazione dei meridionali vi sarà sempre qualche nuova cambiale da pagare ai padroni del vapore. Noi meridionali ai torinesi piacciamo poco, meno ancora alle torinesi. Meglio restare qui a zappare la terra che tornare lassù. Meglio una contadinotta nostrana, una casalinga delle nostre parti, con i capelli corvini e magari pure i baffi che una del Nord, alta, con il culo grosso e due piedi non certo di fata. Le nostre paesane sono donne solide e sanno cos’è la famiglia. Noi meridionali quando la domenica pomeriggio passeggiavamo soli lungo quei vialoni deserti che non finiscono mai e parlavamo di donne, questo ce lo ripetevamo spesso.’

    E così l’amico meridionale finito controvoglia a Torino, che se ne voleva tornare dai suoi a seminare patate e cipolle, ignorava che gli usi e i costumi erano cambiati anche al Sud. Che le ragazze meridionali non avevano più i baffi; che spesso rientravano tardi la notte e pure alticce; che non erano illibate come lui credeva che fossero. Un pezzo di mondo era cambiato anche al Sud. E chissà cosa gli sarebbe successo appurare che la sua idea innocente sulle giovani meridionali non era più vera, che non erano più remissive, pudiche e sottomesse come le povere mamme di una volta.

    Nonostante il racconto dell’amico titubante che se ne voleva tornare al Sud a zappare la terra perché smarrito in una città senza orizzonti né albe e né tramonti, si partiva. Meglio lavorare in fabbrica, alla Fiat, con la bottiglietta accanto per pisciare, che restare a bighellonare notte e giorno, sedere sulla scalinata della piazza grande in attesa della notte fonda. O, quando andava bene, lavorare col mastro-muratore per poche migliaia di lire per una giornata intera che iniziava all’alba e finiva al tramonto. Anche la Germania andava bene, tanto i meridionali, a Colonia, a Monaco, a Düsseldorf, a Stoccarda, li avrebbero trovati lo stesso. Torino, Milano, Germania, andavano bene. Quell’unico piano possibile per il loro futuro, poco per volta lo accennavano alle mamme che avevano capito ancor prima il loro segreto.

    II

    Era il primo pomeriggio del due di novembre. Il sole aveva già iniziato la china e la luce fioca dei lumini posti tra i mazzi di fiori sembravano fare da contorno a una bella serata di festa. Le voci sommesse dei visitatori, con il loro parlare piano, ricordavano ad ognuno che nel cimitero non era il caso di alzare le voci, che pareva giusto abbassare i toni, ancor meglio tacere per non disturbare il sonno dei morti.

    Alfredo, fermo davanti alla tomba della madre, solo a guardare la sua foto, quella con gli occhi pieni di luce, la più bella tra tutte, gli sembrava di riudire daccapo i suoi discorsi mai completati. Gli risuonavano dentro tutte intere le sue raccomandazioni, i rimproveri dal tono pacato per le cose mai fatte, il rimpianto per non averli ascoltati, il rimorso per non aver mai colto per intero i suoi dolori nascosti sempre negati. E quei silenzi interminabili pieni di mille pensieri? Nonostante i brutti ricordi che gli affollavano la mente, davanti a quella tomba era più sereno come se lì fosse tuttora la bussola giusta capace di guidarlo nei suoi smarrimenti.

    Era più di un’ora che si aggirava fra le tombe. Davanti ad ognuna sostava il tanto per fare memoria. Sbirciava le foto e cercava di ricordare. Sostò, con l’immancabile nodo alla gola, davanti alla tomba del compagno adolescente. Ricordi veloci. E quel giorno maledetto, quella fine senza senso e mai che parenti e amici avessero trovato un solo motivo capace di spiegarla. Che l’amico avvertisse già la fatica di vivere, quella stessa che in tanti assaggiano in tempi più lunghi? Che si fosse arreso prima ancora di provare? Che non avesse resistito allo sconquasso della sua famiglia? Eppure era quella un po’ la moda del tempo e ogni adolescente doveva imparare a conviverci, per sopravvivere. Chi ce la faceva diventava più forte, temprato. E in seguito niente più gli avrebbe fatto paura.

    Non aveva avuto fortuna l’amico. Era tutta qui la risposta che allora si erano dati. Col tempo, man mano che passavano gli anni, anch’egli si adeguò a quella sentenza. Ma aveva già forte l’idea che a sovraintendere alle disgrazie ci fosse davvero un destino malefico pronto a giocare con la sorte degli ultimi. Altro che Provvidenza!

    In un mondo povero pure i sermoni dei preti sulla fede e sulla speranza parevano discorsi senza senso.

    Era quasi alla fine del rito quando gli si parò davanti una lapide in marmo chiaro. Sulla lapide si leggeva:

    Al professor Eustachio

    marito devoto

    illustre umanista

    uomo di scienza e di molti saperi

    lavoratore indefesso

    procace e loquace

    la vedova inconsolabile

    pose

    Incuriosito da quanto vi era scritto, oltre che dal nome Eustachio (la provincia tra le sue particolarità aveva anche quella dei nomi fuori dal comune e dal sapore un po’strambo) provò a chiedere qua e là del personaggio e della sua signora, artefice della dedica di cui sopra.

    La cosa che appurò per prima e che non si sarebbe mai aspettato, era che il nome Eustachio che i genitori avevano affibbiato al figlio, non fu percepito dai conoscenti come qualcosa di nobile e di cultura se non altro per il richiamo alla radice eu dal tono beneaugurante. Al contrario, gli riferirono che quel nome gli causò un tale fastidio che si trascinò vita durante. Un nome così altisonante anziché nobilitarlo fu percepito dagli altri parecchio ridicolo. Buffo a tal punto che egli per primo lo sentiva come un peso e non lo avrebbe augurato neanche al più antipatico dei suoi concittadini.

    Il popolo si sa, non è portato a guardare ai toni alti e nobili, ancor meno a ciò che sa di cultura. È pronto a sbeffeggiare e a ridere su ciò che è diverso dal consueto. Esempio, se al bambino anziché Eustachio avessero affibbiato uno dei nomi comuni, quali: Francesco, Pasquale, Battista, Giovanni, Procopio, non gli sarebbe accaduto niente di strano e sarebbe rientrato nel sentire comune. Ma Eustachio, no! Un nome così altisonante in una famiglia che non aveva nulla di speciale, voleva sembrare una pretesa a distinguersi. Addirittura altezzosi a tal punto da guardare a traguardi a cui non avevano affatto diritto. Pertanto, il popolo, riappropriatosi subito del tono plebeo, accostò il nome del bambino alla ben nota tromba di Eustachio. Si, proprio quella che Madre Natura ha collocato a ciascuno di noi nel posto giusto e in modo perfetto. Appurò in seguito, a parziale discolpa della scortesia cittadina, che il professore, munito di una buona cultura che lo portava a sfoggiare un eloquio forbito, possedeva anche una voce dal tono alto e che, se ben curata, avrebbe potuto condurlo come tenore su un teatro di fama. Invece, anziché la fama, solo invertendo l’ordine delle parole fu marchiato in modo infame. Causa anche la sua voce potente, il popolo usava chiamarlo Eustachio la tromba. In seguito, qualcuno con addosso maggiore fantasia letteraria, aggiungendo alla parola tromba un semplice accrescitivo ne venne fuori tutt’altro e cioè, Eustachio il trombone. Il tutto con quella malcelata ironia che a volte anche la plebe è capace di mostrare.

    L’altra cosa che Alfredo apprese era che i due, il professore Eustachio e donna Vittoria, la sua signora, non avevano avuto figli e quindi nessun erede diretto a cui poter chiedere che gli illustrassero i due personaggi. Indi, per saperne di più doveva ricorrere al suo fiuto di storico, a quell’intuito che porta a scoprire i fatti reconditi che a volte perfino la storia dei poveri può nascondere; fatti che potrebbero interessare anche la storia vera e così, in una scala chiaramente più bassa, svelare un’altra parte dei corposi misteri della cittadina. Ma per ora, doveva accontentarsi di quanto poteva appurare chiedendo qua e là ai passanti o ad alcuni conoscenti.

    Il professor Eustachio era solito alzarsi presto la mattina. E questo tutti lo sapevano. Preso il caffè al bar centrale, l’unico che apriva già all’alba, subito dopo usava fare dei giretti lungo il corso. Su e giù per almeno due o tre volte. Camminando era solito tossire. La sua, a sentire più di qualcuno, non era una tosse normale. Per intendersi quella che per tirarla fuori basta tenere la bocca semiaperta e in modo molto composto si esaurisce in due o tre colpetti e che il vicino percepisce appena, incurante del momentaneo fastidio che gli si procura. La sua era di natura diversa come se, il professore, anche nel tossire volesse mostrare la sua diversità culturale. La sua tosse era di natura cavernosa e pareva nascere dalla parte più profonda del corpo, dalla pancia. E quale logica conseguenza, il suono (rumore) che emetteva era cupo, rimbombante, prorompente. Da qui quel rafforzativo appiccicato al suo nome e dal tono alquanto volgare: Eustachio il trombone. Era, la sua, quella comunemente nota come tosse grassa, quella sempre accompagnata da una emissione abbondante di muco e di tutto ciò che ne consegue e che a volte crea fastidio, oltre che a se stessi, anche a quelli che sono accanto. Ma il professore, quale uomo distinto e fornito di una delicatezza di fondo, era solito approfittare dell’alba per espettorare, l’ora in cui il corso era del tutto deserto. Così facendo, era convinto di non recare fastidio né alla sua signora né al resto del mondo. Invece, egli del tutto ignaro, la tosse che espelleva lungo il corso, annunciava la sua presenza sia a quelli già svegli, sia ai molti a cui troncava il sonno, repentinamente. E ognuno nel chiuso della sua casa annunciava all’altro, maledicendo: Sta passando il professor Eustachio. Ignorava il professore che il corso, così composto, era una trappola micidiale per la sua tosse.

    Quel corso dall’aria solenne, un po’ come è uso nelle città di provincia del Meridione ove da sempre vi si srotola la vita ogni giorno dell’anno, ha i suoi palazzi più importanti e più belli allineati ben bene sia a destra che a manca. Più di uno di quei palazzi richiamano i momenti felici della città. Alcuni, dal taglio signorile e parecchio vistosi, sono la chiara testimonianza di antiche appartenenze nobiliari. Altri, anch’essi con una piccola storia alle spalle, sono la faccia spocchiosa dei nuovi proprietari. Quelli non nobili, quelli che non hanno radici solide che affondano nei tempi lontani della storia ma rappresentano la gente con un portafoglio pieno, riempito con i proventi di professioni di grido, di commercio ben riuscito, di speculazioni parecchio vistose e di tanto altro che non è il caso di stare ad elencare.

    Ebbene, quel corso lungo e largo, con i palazzi allineati secondo una architettura che richiama vecchi stili solenni, sfocia nella piazza grande. Ma, così composto, forma una specie d’imbuto. E l’imbuto si sa, aumenta di molto il volume dei rumori, delle voci, dei suoni, alla stregua di un buon altoparlante. Così, nei momenti di silenzio come quelli dell’alba, quando si avverte già il primo chiarore e Oriente inizia a tingersi di rosso, anche un soffio può diventare vento. Da qui l’imprecazione sconsolata di quelli che avevano la camera da letto che dava sul corso: Cristo… il solito Eustachio!

    Va però chiarito che l’abitudine del professore ad alzarsi presto e subito dopo uscire di casa, a sentire le malelingue, era dettata dalla vicinanza della sua signora, donna Vittoria, parecchio infastidita dal fare del marito che si aggirava per casa già al nascere dell’alba. Indi, il professore, visto il malumore che procurava la sua presenza, era solito uscire di casa anzitempo. Ma così facendo, data la tosse, preannunciava l’ora della sveglia al popolo sonnolento.

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