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La moglie del mercante di stoffe
La moglie del mercante di stoffe
La moglie del mercante di stoffe
E-book406 pagine5 ore

La moglie del mercante di stoffe

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Info su questo ebook

La Firenze rinascimentale vista con gli occhi di Monna Lisa

Un grande romanzo

Firenze, 1500. Feroci intrighi politici serpeggiano in città, rovescio della medaglia di un’epoca di fermento culturale e artistico. La giovane Beatrice vive nelle campagne poco fuori le mura e conduce un’esistenza tranquilla, fino al giorno in cui suo padre viene ucciso e sua madre scompare.
Per sopravvivere, Beatrice non ha altra scelta se non quella di raggiungere Firenze, così da vendere le ultime scorte di olio d’oliva e provare a cercare indizi su dove sua madre possa trovarsi.
Sola al mondo, spaventata e incerta sul futuro, Beatrice comincia a disegnare in segreto sui muri di pietra dei vicoli: un modo per esprimere in silenzio il suo dolore. E in quei tratti il suo talento prende vita. Mentre percorre in lungo e in largo la città alla ricerca della madre, la ragazza si imbatte in un geniale quanto tormentato Michelangelo, alle prese con il suo David. È l’inizio di un’amicizia destinata a cambiare la vita di entrambi.
Ben presto il destino porta Beatrice a incrociare i passi di un altro grande genio, il rinomato Maestro delle Arti Leonardo da Vinci, impegnato a dipingere un ritratto della moglie di un facoltoso mercante di stoffe.
In una città dilaniata dai complotti, può bastare il potere dell’arte a redimere un’anima tormentata?

«Come un’abile scultrice, Lisa Rochon ha scalfito il marmo del tempo e ha dato nuova vita a Michelangelo, Leonardo e agli artisti della Firenze rinascimentale. Il suo meraviglioso romanzo tratteggia personaggi femminili ambiziosi, di talento e complessi, restituendo attraverso la narrativa ciò di cui purtroppo non si ha memoria storica.»

«Il romanzo d’esordio di Lisa Rochon intreccia la vita di una giovane con le vicende dei maestri Michelangelo e Leonardo da Vinci, alle prese con le loro opere più conosciute. La Firenze del XVI secolo prende vita tra splendore artistico, rivalità, ambizioni e le brutalità delle lotte civili.»

«La scrittura di questa autrice ricorda le sfumature che Leonardo usava per creare i suoi capolavori. Parola dopo parola, frase dopo frase, Rochon costruisce un vivido ritratto di un’epoca che non smette mai di affascinare.»

«Le strade acciottolate di Firenze si popolano di personaggi straordinari in questo appassionante racconto dell’alto Rinascimento. Lisa Rochon tesse un arazzo di palazzi e oliveti, di polvere di marmo e genio.»
Lisa Rochon
È esperta di architettura, autrice di numerosi articoli e saggi, per i quali ha vinto vari premi. Ha studiato a Toronto e a Parigi e si è recata a Firenze molte volte per ripercorrere le orme di Michelangelo, Leonardo e Lisa Gherardini (Monna Lisa). Mentre faceva ricerche per La moglie del mercante di stoffe, le è stato concesso l’accesso ai disegni originali di Leonardo al Castello di Windsor. È appassionata di arte ed è spesso ospite di TV e radio.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2021
ISBN9788822756763
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    Anteprima del libro

    La moglie del mercante di stoffe - Lisa Rochon

    PARTE I

    1500-1502

    […] cercai d’ alzarmi anch’io con queste piume.

    […] dolor vincendo vivo; e il pensier sale privo

    d’affetto ove il mio Sole alberga.

    Vittoria Colonna

    Capitolo 1

    Beatrice si stiracchiò allungando un braccio verso l’altro lato del pagliericcio in cerca del calore del corpo di sua madre, tendendo l’orecchio in attesa di sentire il suo respiro. Era prima dell’alba, il cielo era color limo e c’era un silenzio profondo; dormiva anche il gallo. Allontanò il lenzuolo di lino e poggiò una mano sulla parete di pietra, in cerca di un po’ di equilibrio in quella grande assenza. Era ancora mezza addormentata quando afferrò la vecchia giubba imbottita di suo padre e la strinse a sé come un amico caro.

    Da tre mesi viaggiava per vendere l’olio di oliva agli artisti in città. Era diventato più difficile ottenere l’autorizzazione ad attraversare i pedaggi. Ma a confronto con quel che era diventata ormai la sua vita, importava poco. Sua madre era scomparsa, traumatizzata, il suo viso segnato da mille rughe, come le costellazioni notturne. E suo padre… meglio non pensarci.

    Sola, muovendosi con fatica, Beatrice guidò il carretto di legno poggiandolo sui fianchi lungo la strada polverosa, per uscire dal piccolo paese di Settignano. Una delle ruote era allentata e rischiava di staccarsi, ma lei non aveva fiorini per pagare un fabbro. Se non fosse riuscita a vendere olio… sarebbe morta di fame. Si diede un pizzico sulla coscia per punirsi di quel pensiero ridicolo.

    Ricacciò la ruota al suo posto con un colpo del piede scalzo e riprese a camminare, immaginandosi di avere i piedi foderati come un animale e le dita protette da ispidi peli. L’idea di attraversare il villaggio come una lupa mannara le diede una certa carica, e prese a trotterellare giù per la collina.

    La strada per Firenze era battuta dal passaggio di carri pesanti tirati da uomini e buoi bianchi. Erano i minatori che lavoravano nelle cave lì intorno, con la schiena curva come rami di salice, che si caricavano di pietra serena, tanto amata dai ricchi che ne apprezzavano il colore grigio-bluastro. «Serena», scherzavano sul nome, con una traccia di amarezza nella voce mentre la trasportavano in città piegati dal suo peso, perché i ricchi potessero costruire monumenti al Signore, alla Vergine Maria e a loro stessi.

    Un gatto bianco, sottile come un’ombra, le si accostò miagolando forte. Beatrice mise giù il carretto e gli grattò la testolina magra quasi invitandolo a farsi largo nella sua tunica di lana. Suo padre, anche nei giorni caldissimi, portava quella giubba come un nobile soldato pronto per andare in battaglia, sebbene fosse solo un gentile filosofo, proprietario di qualche ulivo. Era sepolto sotto terra ormai. Prese in braccio il gatto, caldo, e ripensò a una storia che aveva sentito a proposito dei prigionieri nelle carceri che facevano amicizia con i topi per non impazzire. Stare in prigione forse non sarebbe stato così terribile in compagnia di mamma e papà, con un portone da cui guardare il mondo. Ma i suoi se n’erano andati, e con loro anche la gioia della sua terra si era inaridita.

    Nell’aria si sentiva il freddo invernale scendere dagli Appennini, e Beatrice sapeva che ne sarebbe arrivato ancora. Svitò il tappo della borraccia in pelle di daino e prese un sorso di vino. L’olio era quasi finito. Pochi giorni prima aveva raccolto e selezionato le olive dalla modesta fattoria di famiglia per farle valutare dal proprietario del frantoio locale. Era la prima volta che andava sola in rappresentanza della famiglia, si sentiva nervosa ed emozionata. L’uomo l’aveva fatta accomodare nel cortile sul retro delle giganti presse di pietra. «Puoi pagare?». Beatrice sudava, per via della strada fatta fin là con il carretto carico. Aveva eliminato ogni rametto e ogni foglia argentata dal raccolto autunnale e risplendeva di orgoglio. Ed eccola lì, coperta di fango di olive fino alle caviglie.

    «Niente soldi, niente olio», le aveva detto lui con una smorfia guardandola come se la vedesse per la prima volta.

    «Non ho monete, ma possiamo trovare un accordo».

    Le sue dita annerite si allungavano e si torcevano. Le ricordavano delle piccole anguille grassocce.

    «Possiedo un cuscino ricamato al tombolo da mia madre», aveva detto facendo un passo verso di lui, per convincerlo. «Mio padre ha portato le nostre olive qui per molti anni».

    L’aveva guardata con malizia. «Un’orfanella. Il tombolo non mi interessa». D’improvviso aveva le sue mani addosso. L’aveva presa per il collo, afferrandole la tunica. Lei gli aveva dato un colpo forte in mezzo alle gambe ed era scappata, lasciando cadere la gran parte delle olive dal carretto per raggiungere la strada il prima possibile e mettersi in salvo.

    Quell’aggressione l’aveva terrorizzata. Di certo doveva aver fatto qualcosa per provocare quella rabbia improvvisa. I suoi non avevano mai alzato un dito su di lei, e per questo le risultava difficile interpretare le abitudini che potevano avere altri adulti. Che uomo brutto, con anguille al posto delle dita. Si ricordò che suo padre le aveva insegnato a tirare i sassi verso il nero della notte quando si sentiva di cattivo umore. «Alla luna!», rideva. «La luna!». Era un gioco che facevano spesso. Un tempo credeva che funzionasse davvero, ma adesso non ne era più tanto sicura.

    Spinse il carretto verso Firenze, con i piedi ormai pesanti e i passi più incerti. La sua amica immaginaria, la lupa mannara, se ne stava acquattata sotto un cespuglio di ginepro.

    Il cielo andava rischiarandosi. Prese due scampoli di lino sporchi dalla sacca e se li legò stretti attorno alle mani, poi riagguantò le maniglie del carretto e continuò a camminare, giù per un sentiero in discesa, tutto sconnesso dalle radici degli alberi e dalle pietre che spuntavano dal terreno. Le bruciavano i muscoli delle gambe per lo sforzo e sentì che si era tagliata un tallone e stava sanguinando. Le giare di terracotta cozzavano una contro l’altra come ossa rotte.

    La discesa si fece più ripida e poi la strada tornò dritta. Iniziava a delinearsi il profilo delle mura che proteggevano Firenze dai contadini, dal popolo minuto, quelli come lei. Vide molti altri spingersi verso le alte mura da ogni direzione, venivano dai villaggi o dalle baracche, erano un fiume di serpi dagli occhi vuoti e le schiene viscide. Beatrice poggiò il carretto a terra e si raccolse i capelli neri sulla testa, per essere il più anonima possibile in mezzo alla folla ed evitare sgradite attenzioni da parte delle guardie all’ingresso della città.

    Si tirò il cappuccio sopra la testa e il mantello sul corpo, a camuffare anche il seno, sempre meno ragazza e più ragazzo. Prima che iniziassero tutti i suoi guai era adorata e viziata, i genitori la portavano in giro come un gioiello per le strade del villaggio. Ma ora non più. Era rimasta sola, con un coltello in tasca e gli occhi bassi a terra.

    Giunse le mani in una preghiera sbrigativa mentre si preparava per l’umiliante ispezione. Un gruppo di donne portava sulla testa ceste piene di quercia appena tagliata, si facevano strada mentre il capo delle guardie ordinava di aprire le pesanti porte di legno. I venditori arrivavano come scarafaggi, facendosi largo con i carretti e con le pale, pronti a pagare il dovuto per guadagnarsi l’ingresso nella città dorata.

    Capitolo 2

    Fuori dalle mura della città era il caos, Beatrice esitò prima di gettarsi nella mischia e si chiuse in sé stessa. Afferrò il collo della giubba del padre e avvicinò un orecchio per ascoltare il suo consiglio.

    Non esitare. Sii una guerriera romana. La dea Diana. Attraversa ogni giorno senza paura. A testa alta, dritta come un cipresso.

    Sorrise ricordando quanto il padre amasse gli antichi, il suo consiglio lucido come una lastra di marmo di Carrara.

    «Ma sono da sola, e tutte queste persone…».

    Lui interruppe i suoi pensieri. È stata la sofferenza a corrompere la loro natura pacifica. Capirai presto di chi poterti fidare. Cercali, sii sempre gentile.

    Afferrò le maniglie del carretto ma non si mosse, voleva godere ancora un istante della sua presenza. Le era stato portato via in un momento della vita in cui tutto sembrava andare bene. E per quanto sapesse di non doverlo fare, non le riusciva di non lasciarsi prendere dalla tristezza. Un anno prima, il sole stava tramontando e nel cielo c’erano strisce rosa e arancioni, le galline avevano iniziato a strillare e suo padre si era affrettato ad attraversare il cortile per cacciare la volpe che le stava probabilmente spaventando. Beatrice era in casa, a squagliare cera d’api su un piccolo fuoco per preparare le candele che il prete avrebbe usato sull’altare. La madre era china sul suo tombolo, con le mani che svolazzavano tra i rocchetti di filo e i merletti dei cuscini che confezionava per i ricchi clienti di città.

    Anche quella sera, come molte delle sere che la famiglia trascorreva insieme, il tempo era sospeso, come un’offerta. La cera si squagliava lentamente, il merletto era finito, il sole tramontato, le galline strillavano, il padre era corso al pollaio. Le spole di legno reggevano il filo, la cera era ormai liquida, sul cuscino compariva un ricamo. Andava tutto bene nella loro piccola casa di pietra. La sera era quieta. Dolce, come il sudore che imperlava gli zigomi e il labbro superiore di Beatrice. I capelli ramati della madre le ricadevano sulla schiena, mentre teneva gli occhi fissi sul lavoro. Quella dolce sospensione andava srotolandosi dal rocchetto per fluttuare nell’aria come su ali di ragnatela. Interromperla sarebbe stato come negare a una famiglia il diritto di amare, quindi la madre e la figlia avevano continuato la loro attività, cullate da quel sentimento, dal glorioso giorno toscano, senza rendersi conto da quanto tempo l’uomo si fosse allontanato.

    La guerra tra Pisa e Firenze serpeggiava, era una faida in cui gli uomini si combattevano tra i cipressi e lungo le sponde dei fiumi. Le bande di pisani sapevano bene di doversi tenere alla larga dai battaglioni di Firenze, ma si prendevano le loro piccole rivincite nei villaggi vulnerabili poco fuori dalle mura. Uccidere una gallina era un trucco come un altro per attirare il nemico fuori di casa. Avevano aspettato pazienti che il padre di Beatrice si avvicinasse con passi ansiosi. Perdere una gallina a causa delle volpi significava mezzo stipendio, per questo lui non ci aveva pensato un attimo a precipitarsi tra gli ulivi.

    La terra toscana era dorata e fertile, senza il peso della terra argillosa del Sud. Ma era spuntato il mattino, e c’era puzza di marcio. C’era un odore di veleno nell’aria, il sangue di suo padre, che i pisani avevano spalmato sulla stia. Beatrice aveva guardato il luogo dove istintivamente aveva trascinato il cadavere, lontano dalla morte crudele a colpi di bastoni e mazze, per adagiarlo sulla terra all’ombra benevola di un vecchio ulivo. La sua mente si era intorpidita. Era come se i suoi occhi non vedessero più a colori, ma solo in bianco e nero.

    Bisognava trasportare suo padre in chiesa, dove il prete avrebbe pulito il viso del morto con acqua santa, benedetto il corpo con olio d’incenso e poi l’avrebbe seppellito nel cimitero del villaggio. Senza questi rituali, c’era il pericolo che vagasse per sempre negli inferi con gli spiriti maligni.

    Aveva visto in lontananza una figura avvicinarsi. Sembrava procedere speditamente e senza cappello, nonostante il feroce sole del mattino. Non era il prete, che aveva già pregato con la ragazza e aveva chiuso gli occhi del padre con dita pazienti, poggiandoci sopra due piccoli sassi. Era andato anche qualche vicino, trascinandosi a piedi dal paese per portare mazzetti di lavanda e sacchi di prezioso grano etrusco davanti alla porta di casa in segno di solidarietà alla famiglia per i mesi a venire.

    Era curiosa di sapere chi fosse ad avvicinarsi tanto velocemente. Diffidente, aveva raccolto una delle mazze abbandonate dagli aggressori. Aveva guardato la figura tagliare un sentiero e camminare lungo il torrente per raggiungere il luogo in cui giaceva suo padre. Non era un nemico. Un giovane uomo con il volto serio e una fronte che sembrava perennemente aggrottata. Lo aveva visto inginocchiarsi accanto al corpo e chinare il capo in preghiera.

    Beatrice aveva posato la mazza e afferrato le maniglie del carro di legno traballante della sua famiglia. La terra era assetata di pioggia, e mentre camminava verso lo straniero si sollevavano nuvole di polvere. Aveva spinto il carretto fino al corpo di suo padre, tenendolo tra di loro come un rude ariete. «Non ti conosco», aveva detto svogliatamente, guardando la figura piegata verso il basso. «Chi è la tua gente?». Non riconosceva la propria voce. Aveva assunto il tono di sua madre, che era in casa, raggomitolata sul pagliericcio, incapace di gridare e persino di piangere.

    All’inizio l’uomo non aveva parlato, ma si era alzato e aveva fatto un rapido inchino. La sua bocca era dritta e i suoi occhi guizzavano dolcemente verso di lei. «La mia famiglia ha una fattoria dall’altra parte di questo boschetto. Buonarroti».

    Lei aveva scosso la testa.

    «Viviamo a Firenze quasi tutto il tempo», aveva aggiunto per spiegarsi.

    «Io invece vivo qui», aveva detto lei. «E alcuni di noi qui muoiono».

    Si portò la mano destra al petto. «Condoglianze». Si vedeva che era a disagio a pronunciare parole che aveva solo sentito dire da altri. «Questi problemi sulle terre non finiranno presto». Aveva esitato, poi le aveva chiesto: «Tua madre?»

    «Non è in grado di occuparsene».

    «Tu sei forte, si capisce».

    Beatrice aveva guardato i suoi stivali di pelle, rotti e stropicciati. Le sue mani erano incrostate di polvere bianca. «Sei uno spaccapietre?»

    «Sono uno scultore. Anche se qui a Settignano mi hanno insegnato a lavorare la pietra».

    Aveva guardato oltre lui, verso gli uliveti, ascoltando il dolce fruscio delle foglie argentee e silvestri, raffreddando la sua rabbia e il desiderio di vendetta.

    «Scultore», aveva ripetuto lei, schioccando la lingua per esprimere la sua approvazione. Non aveva mai sentito quella parola, e ne cesellava le sillabe con la lingua. Le sculture che aveva visto a Firenze – eroi mitici, leoni, angeli e santi – trasformavano la pietra in cose che potevano vivere accanto alle persone. Qualcuno le aveva fatte, qualcuno come quell’uomo che le stava di fronte. Si era chiesta se anche lui attingesse alla sua immaginazione, come piaceva fare a lei. La domanda giaceva in fondo alla sua mente, ma non aveva osato porla.

    «Mi chiamo Michelangelo, Michelangelo Buonarroti. Vieni a trovarmi nel mio studio a Firenze. Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno».

    In lontananza, la cattedrale della città spingeva la sua cupola arancione verso l’alto, con forza. Si era domandata spesso come facessero le persone a vivere confinate a Firenze, a lei sembrava una punizione, anche se un edificio come il Duomo offriva di certo la possibilità di avere una migliore relazione con Dio. Come se potesse essere vero.

    «Parli senza sapere», gli aveva risposto piccata. «Non ho affari in città, non mi vedrai mai lì». E così dicendo aveva girato il carretto e sollevato le braccia del padre. Michelangelo si era affrettato a prendergli le gambe. Quell’artista, pieno di presunzioni cittadine, non avrebbe mai potuto capire la profondità del suo dolore. Eppure, eccolo lì, a fare l’impossibile insieme a lei.

    Avevano issato il corpo sul carretto. Vedendo il padre abbandonato sulle assi di legno come una bambola, Beatrice aveva emesso un lamento strozzato. Piangendo, aveva allungato le mani chinandosi verso di lui. «Papà, papà!». Aveva solo tredici anni. Vivere senza suo padre era impensabile per lei.

    Senza esitare, Michelangelo l’aveva afferrata per stringerla tra le braccia. «Lo rivedrai, se Dio vuole», aveva detto. Il suo viso sembrava sollevato verso il cielo. «Prega per lui e lui veglierà su di te dal Cielo».

    L’aveva riportata nella casetta di pietra e adagiata sui sacchi di grano. Lei si era nascosta il viso sotto il cappuccio, vergognandosi delle proprie lacrime.

    «Sei giovane. Domani andrà meglio».

    Poi si era tirato su e le aveva preso le mani. «Per favore, vieni a trovarmi in città», aveva ripetuto, cercando di esprimersi con più gentilezza. Se provasse disagio per quella improvvisa intimità, non lo dava a vedere. «Posso aiutarti a spingere il carretto fino in chiesa?».

    Beatrice aveva esitato, guardando il cielo senza nuvole. Un tempo l’azzurro era il suo colore preferito, il colore dell’orizzonte e dell’attesa. Ma quella serenità, come la sua famiglia, si era frantumata in schegge di abbandono. Da quel giorno in poi, avrebbe associato l’azzurro alla solitudine.

    «Ce la caviamo da sole», aveva risposto pur dubitando che la madre le sarebbe stata di qualche aiuto.

    Poi l’aveva guardato allontanarsi con passo deciso e atletico ed era rimasta davanti alla casetta. Michelangelo, scultore, con una famiglia di contadini nell’uliveto accanto. Se n’era andato lasciandole un’impronta di polvere nella mano. Si era sfregata le mani, testandone la grana. Forse era onesto, forse un bugiardo.

    Una donna con una zampa di cervo appena macellata in mano superò Beatrice, rimproverandola perché bloccava la strada e distogliendola dai suoi ricordi. L’odore del sangue del cervo si appiccicò alla bocca della ragazza come un morbo. Scrutò la folla, osservando il volto delle donne, la loro figura, il modo in cui si muovevano. Tremante, sperò che sua madre facesse un passo avanti e uscisse allo scoperto. Era scomparsa lasciando Beatrice da sola, ma di sicuro non era stata sua intenzione ferirla. Era solo stata trattenuta.

    La folla crebbe intorno a lei e la sua testa si riempì di voci. Lì accanto, nelle gabbie di legno, c’erano conigli grigi a testa in giù e galline disperate che cercavano di liberarsi dalle loro trappole di stoffa. Si portò le mani alle orecchie, guardò le mura desiderando disperatamente di essere già dentro la città, dove di sicuro la madre la stava aspettando.

    Capitolo 3

    «Fate largo, bifolchi», ringhiò un uomo con un cappello di lana e vuoti occhi grigi spingendo il suo carretto con foga in mezzo alla folla. Beatrice si spostò di lato per ripararsi. Doveva assolutamente riuscire a vendere un po’ del suo olio d’oliva, o avrebbe patito la fame per un altro giorno ancora. Era stato il prete del villaggio a consigliarle di iniziare a smerciarlo in città, mentre spazzava i gradini della chiesa con movimenti rapidi e nervosi e Beatrice se ne stava lì davanti con il capo chino e lo stomaco stretto dalla fame.

    «Un’orfana come te…».

    «Padre, io non sono un’orfana», aveva risposto lei in tono piatto. «Sto cercando mia madre. Si è persa, tutto qui».

    Ricordava il modo in cui sua madre era rimasta per giorni a dondolare su sé stessa in un angolo, singhiozzando e maledicendo gli assassini di suo marito.

    «Mamma, vuoi che chiami qualcuno? La guaritrice, il prete?».

    Guardava impotente la madre camminare per la loro piccola fattoria come un furetto in gabbia. La lingua l’aveva abbandonata. Sembrava incapace di formulare parole. Con il passare dei giorni, la sua disperazione si addensava in un brodo fetido che nessuna pomata o infusione di erbe poteva guarire.

    Quando la madre aveva cominciato a pizzicarsi le braccia con gli aghi da cucito Beatrice aveva reagito. «Non posso più sopportarlo», aveva detto. «Devi uscire, e cercare il consiglio delle stelle». Aveva preso sua madre per mano e l’aveva condotta fuori. Spingendola oltre la soglia e l’aveva guardata sparire nel loro uliveto, accarezzare ogni albero con le mani e la bocca. Non la riconosco. Questa donna. Erano stati questi gli ultimi pensieri di Beatrice mentre richiudeva la porta.

    «Tua madre se n’è andata», aveva detto il prete distogliendo lo sguardo. Era un uomo robusto, con una faccia che a Beatrice ricordava una zucca andata a male. «Come tante altre».

    «Che cosa intendete, padre?»

    «Donne», aveva risposto scuotendo la testa. «Lasciano il villaggio per seguire il Demonio».

    Beatrice si era arrabbiata. «Mia madre è gentile e generosa. Amava mio padre…».

    «Amore, dici?». L’aveva guardata con sdegno. «Be’, in città ne troverà di diverse sfumature».

    Cosa intendesse il prete con quelle parole non lo sapeva. Di amore si parlava poco in casa sua, ma Beatrice conosceva l’emozione attraverso il tatto e il suono, il modo in cui la sua famiglia si salutava al mattino con dolci baci sulle guance e, dopo il tramonto, il modo in cui i suoi genitori tiravano teneramente le coperte ruvide su di lei mentre dicevano una preghiera e alzavano gli occhi alle travi. Certo, la stupiva il pensiero che l’amore si potesse trovare anche nella città assordante e anonima, ma la provocazione del prete la spingeva a cercare una risposta.

    E così, Beatrice aveva studiato un piano per raggiungere la città, trovare sua madre e riportarla a casa. Avrebbe venduto olio di oliva per racimolare un po’ di soldi, quanto bastava per sopravvivere finché sua madre non fosse tornata e la vita fosse ricominciata uguale a prima. A testa bassa, spingendo il suo carretto tra gli artisti disposti a tollerare una ragazzina scalza nei vicoli sporchi dietro il duomo. Quella dura vita era iniziata un anno prima.

    Quattro balestrieri stavano di guardia in alto sul muro di cinta che circondava la città come una fortezza, vestiti con giubbe di pelle nera con maniche di seta bianca e oro. Altri quattro uomini stavano ai lati del monumentale ingresso ad arco. Erano incaricati di controllare e perquisire tutti i venditori di armi prima di lasciarli passare. Potevano prendersi delle libertà, naturalmente; tirare fuori dalla folla qualsiasi ragazza giovane e desiderabile con un grido e una spada sguainata, e bloccarla contro una delle massicce porte tempestate di chiodi di ferro.

    Una carrozza trainata da cavalli colse la folla di sorpresa. Le sue bardature, lisce di olio, permettevano al veicolo di scivolare senza fare rumore. Il conducente schioccò la lingua ai cavalli, un castrone nero e un andaluso grigio argento, e la folla si separò per farlo passare.

    La carrozza si fermò accanto a lei e Beatrice toccò con una mano le porte ornate in ferro battuto. Due uomini sedevano accasciati contro i sedili di pelle. Uno aveva il viso incorniciato da riccioli scuri. L’altro passeggero – suo nonno? – portava una barba bianco-argento. Sostenendosi con entrambe le mani, si alzò sulle punte dei piedi per vedere meglio. Il vecchio girò la testa e Beatrice si abbassò. Temeva che sarebbe arrivata una frustata. Ansiosa di sfuggire alla sferzata sulla schiena, spinse il suo carretto in avanti, ma la ruota rotta si bloccò facendola sbandare contro un altro carretto, carico di tronchi di quercia e una creatura esotica in gabbia le cui piume erano bianche come la luna. Beatrice aveva visto merli, fagiani e galline d’India, ma mai questo tipo di volatili.

    «Posso comprare quell’uccello?».

    Era il vecchio della carrozza. Era sceso e si trovava a due carri di distanza. La sua figura era alta e nobile, e Beatrice ammirò il colore rosa della sua tunica e il verde fresco e chiaro del suo mantello di velluto. Le ricordava i cipressi che scoccavano nell’aria come frecce di speranza.

    «Il mercato non è aperto», disse la proprietaria dell’uccello. Gesticolò verso il cielo, ancora ingessato di grigio anche se l’orizzonte si stava lavando di blu. «Dopo l’alba».

    «Con il vostro permesso, ve lo toglierò dalle mani».

    La sua voce era morbida, così diversa dai taglienti insulti che si scambiavano i poveri che vivevano in mezzo alla sporcizia sulle colline oltre le mura della città. La donna barbuta gesticolò con le braccia verso di lui: via! La sua creatura serica sollevò le piume e si mosse inquieta in un cesto che serviva da gabbia improvvisata.

    «Ecco», disse lo straniero, sorridendo gentilmente. Beatrice lo vide mettere delle monete nella mano della donna, mentre la folla li superava rumorosamente. La donna degli uccelli si infilò rapidamente quella somma spropositata nel grembiule. «Solo per questa volta, signore». Vedendo che Beatrice la stava fissando, scattò: «Puttanella con gli occhi grandi come quelli di una mucca». Strinse la fascia del suo soggolo. «Fatti gli affari tuoi».

    Il vecchio si voltò verso Beatrice, con un braccio intorno alla gabbia per uccelli. «Buongiorno», disse, inchinandosi leggermente.

    «Signore», disse lei a bassa voce rispondendo all’inchino, stupita dal taglio corto del suo mantello e dalla calzamaglia rosa che sbucava da sopra gli stivali.

    «Che elisir portate in offerta oggi?». Raggiunse il suo carrello e stappò una delle giare. «Olio d’oliva», disse, annusando profondamente.

    Beatrice fissò l’uomo, a bocca aperta, stupita dalla sua sfacciata degustazione.

    «Mi sembra di stare sdraiato in un campo di fieno appena tagliato». Si fece da parte per lasciar passare un uomo che trascinava un maiale con la corda. «Cosa che amo fare fin troppo spesso, secondo i miei padroni».

    Una donna con un cesto di pane in equilibrio sulla testa si mosse accanto a loro. Lui porse a Beatrice la gabbia per uccelli e allungò la mano nel cesto della fornaia, porgendole una moneta per un giro di pane toscano cosparso di rosmarino e origano. Lo irrorò con un po’ dell’olio d’oliva di Beatrice e se lo infilò in bocca. «Mio Dio», disse, alzando drammaticamente una mano in aria. «È bello essere a casa».

    Passò una moneta a Beatrice e recuperò il suo uccello. Aprì la gabbia e tenne la creatura contro il petto. «Vieni, guarda che bello». L’uccello aprì il becco nero e ricurvo e rosicchiò le dita dell’uomo. Beatrice non era sicura se stesse parlando con lei o con la creatura. I capelli e la barba bianchi lo facevano sembrare vecchio come alcuni dei monaci della città, ma i suoi occhi avevano uno splendore giovanile, e odorava di cannella e rosmarino. La gente di campagna continuava a passare davanti a loro, maledicendoli perché bloccavano il passaggio. Lei allungò la mano per toccare l’uccello.

    «Vendi al mercato?», chiese lui.

    «No», disse lei, scuotendo la testa, stupita di veder sparire la sua mano nel denso piumaggio dell’uccello. Non poteva permettersi di pagare il dovuto per vendere al mercato principale. «Vendo agli uomini che lavorano nel vicolo dietro il Duomo. Orafi, lavoratori del cuoio, pittori, scultori».

    «Gli artisti di Firenze», disse l’uomo.

    Beatrice alzò le spalle. Gli studi che visitava con il suo carretto appartenevano a uomini di nome Lippi, Granacci. Facevano dipinti d’altare ornati di foglie d’oro, sedie di mogano intarsiate d’avorio, corpi nudi da lastre di marmo di Carrara. Ma non aveva mai tempo di ammirare il loro lavoro. Era troppo da paesani. E inoltre, avrebbe potuto tradire il suo interesse per l’arte, una strada che le ragazze non avevano assolutamente diritto di tentare. «Dovrei andare ora», disse.

    «Questo bel pappagallo non appartiene a una gabbia né alla Toscana», rispose lui, come se lei non avesse parlato. Seppellì il viso nelle piume morbide e accarezzò l’uccello. Poi, senza preavviso, lo sollevò in aria e aprì le mani. Il pappagallo strillò e prese il volo.

    «Se n’è andato!». Beatrice guardò il cielo, il suo cuore si sollevò pieno di gioia pur sapendo che quel gesto era stato molto audace. L’uomo aveva liberato l’uccello più bello, che era volato nel cielo come un angelo.

    «Maestro, per favore, hai finito?», chiese il bel giovane dalla carrozza.

    Beatrice spinse impulsivamente una giara di olio d’oliva verso l’uomo chiamato maestro. Il suo viso irradiava pace. «Per voi», disse, poi sollevò le maniglie del carrello. Qualcuno non visto diede un colpo sul sedere di Beatrice. Lei si tenne stretta al suo carretto, rifiutandosi di cedere il passo. «Da quanto tempo mancate da qui?»

    «Da più anni di quanti ne hai tu».

    «Ho quattordici anni, signore».

    Lui annuì.

    «Con il vostro permesso, signore, posso portarvi altro olio d’oliva?»

    «Parli come un vero mercante fiorentino». C’era il grido dei galli e degli asini che passavano e lei si avvicinò per cogliere le sue parole. «…al monastero?», disse lui. Poi si ritirò nella carrozza. «Santissima Annunziata», disse infine sopra la sua spalla.

    «La conosco», disse lei. Conosceva tutte le strade di Firenze. «Vicino a San Marco».

    Il conducente della carrozza fischiò forte e guidò i cavalli nel caos. Beatrice si spinse avanti, a piedi. Giunta ai controlli, chinò la testa e allungò la moneta a una guardia.

    «Mostra il tuo volto». Le strappò il cappuccio dalla testa.

    Il sudore le formicolava sulla schiena. Strinse le labbra, rendendole sottili come quelle di un ragazzo. «Il mattino ha l’oro in bocca», disse lei, inorridita dal suo odore e dai suoi denti marci e rotti. «Posso passare? Ecco il mio quattrino».

    Uno dei balestrieri sul muro gridò con rabbia alla guardia. A Beatrice sembrò che tutti gli occhi fossero su di lei.

    «Faccia a terra!», ordinò la guardia.

    Si preparò a quello che sarebbe successo. Era sempre una guerra incivile quella tra i contadini e le guardie. «Guardia, posso passare?», disse lei.

    «Ah? Il cane del villaggio sa parlare?».

    Le altre guardie abbaiarono eccitate, saltando nei loro stivali, godendosi l’umiliazione. Gli altri che erano in fila dietro di lei restarono in silenzio.

    «Signore, valoroso soldato dello Stato», disse il maestro, improvvisamente al suo fianco. Sentì la sua mano sulla schiena, che la allontanava dalla guardia più vicina.

    Un altro soldato si fece strada a gomitate e gridò a gran voce: «È quasi inverno, ma qui c’è qualcuno in verde estivo». Aveva braccia muscolose e un’uniforme impeccabile, con il giglio rosso araldico cucito brillantemente sul gilet di seta. Scosse la testa disgustato alla vista della calzamaglia rosa dell’uomo e aprì il mantello con il pugnale, rivelando la fodera di seta color zaffiro.

    «Un regalo del duca Sforza di Milano». L’uomo fissò la guardia negli occhi.

    «Una storia verosimile», disse la guardia, godendosi lo scherno. «Da parte di un vecchio libertino». Risate ovunque, anche da parte di coloro che stavano in fila per vedere meglio l’interrogatorio dell’uomo in abito stravagante che difendeva una contadina.

    «Infatti, signore, e voi siete da lodare per la vostra mente

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