Sott'la Naja. Vita e guerra d'alpini
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Anteprima del libro
Sott'la Naja. Vita e guerra d'alpini - Mario Mariani
Sott'la Naja. Vita e guerra d'alpini
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1918, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728309872
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
PREFAZIONE
Camerati,
Metto questi miei pochi mazzi di rododendri sulle vostre panche, sulle vostre brande, sui para petti delle vostre trincere per l’ora del riposo, della siesta, per l’ora che precede e per quella che segue il silenzio.
Omaggio che v’era dovuto.
L’opera è impari all’amore, impari al soggetto.
Facile mi sarebbe stato dipingere i mille avvolgimenti dell’anime culte e malaticcie che ogni giorno s’incontrano dovunque e che si rivelan vanitosamente con abbondanza di gesti e di parole civettando con tutti e mettendo a mostra in Vetrina le loro cancrene morali.
Per voi era tutt’altra cosa. L’opera dell’artefice doveva purificarsi per voi, trovare la semplicità solenne della colonna jonica o del robusto arco romano ovvero una costruzione geometrica primordiale simile alla piramide.
Io non sapevo e non ho saputo parlare di voi che non parlate mai, che siete i grandi fanciulli taciturni della nostra razza proteiforme.
I nostri geni divennero, nella contemplazione de li eroi giovinetti che la patria, dal grembo laborioso, ogni decennio esprime per la maraviglio di chi sa intendere, scultori.
Essenzialmente scultore fu Dante, scultore sempre, anche quando dipingeva e martellava sonetti, fu il Buonarroti, scultori furono il Machiavelli e il Guicciardini, scultore fu Lorenzino parlando di sè e scultore l’Aretino in quelle sue nobilissime pagine nelle quali si accosta con somma reverenza all’agonia d’un purissimo eroe: Giovanni delle Bande Nere.
Io feci dunque lo sforzo di raffigurarmi le pagine bianche come facce di blocchi di granito, imaginai di scarpellarvi su a gran forza perchè le vostre figure sbozzate sbalzasser vive fuor del marmo come io le avevo viste nella vita e nella morte.
Ero conscio di dover superare enormi difficoltà quando posi mano a l’opera e sono oggi conscio di non averle superate. Dico questo a voi non per modestia chè la modestia è una ipocrisia o una qualità dei gentiluomini; noi siam soltanto galantuomini e di certi aggeggi della buona società non sappiam che fare. Noi abbiamo anzi spesso l’immodestia terribile di quelli che tacciono.
Dunque, solo per sincerità,dico a voi che non sono riuscito a dire di voi compiutamente, ma se che se altri ci si provasseforse non m’arriverebbe nemmeno al ginocchio.
Io però fino alla vostra statura non mi son potuto alzare.
E di questo soltanto mi dolgo e di questo vi domańdo perdono.
La semplicità e la grandezza — spesso sinonime — includono e concludono un enigma, un mistero.
Se a me il genio non facesse schifo dal giorno in cui tutti gli sgrammaticati d’Italia si son messi a urlare che genio ed ignoranza son la stessa cosa, che genio e stramberia s’equivalgono e me l’han ridotto, povero genio, meritamente la sputacchiera di tutti gli uomini di senso comune, se a me il genio come esso oggi s’intende, non facesse schifo, dunque, io oserei dire che solo il genio può decifrare o creare — comprendere vuol dire forse superare, vuol dire sempre uguagliare — figure e anime come le vostre.
Di che son materiati i sorrisi di Leonardo?
Di che la divina, splendida giovinezza del Prometeo di Benvenuto e del David di Michelangelo?
Con un nulla forse si renderebbe il miracola umano del duro montanaro che vince sereno la fatica, la sofferenza, la paura, la morte e si scava la tomba con una linea rettangolare di ingenuo eroismo?
Con un nulla… ma da chi? Non da me certo.
Io mi sono sforzato di rendervi così come siete, non solo nella vostra guerra, ma nella vostra vita di fanciulloni, di ragazzacci.
Forse anche avrei dovuto calcare un pò più su quel tasto.
Ma poi… avrebbero detto che esageravo.
Perchè ormai anche l’eroismo è diventato di maniera.
L’eroe per certa gente è… è un manichino che abbiamo imbastito su alla bellemeglio noi giornalisti — ci ho avuto sì la mia parte di colpa anch’io — e che deve morire con questo e quel gesto e che deve dire queste e quelle parole.
La commedia e la rettorica sono talmente entrate in noi che noi amiamo recitando, odiamo recitando e dovremmo anche morire, per dar gusto al colto pubblico, recitando. Oh! no…. Questo poi no.
Perchè la morte è una cosa seria. Parola d’onore!
A me il mal di montagna e forse anche un po’ i colloqui con la morte han fatto un curioso effetto: son diventato un originale, ma di una specie curiosissima. Son tanto originale che, per disdegno delle femmine che amano torcendo il collo e le mani come Lyda Borelli finirei per innamorarmi d’una stiratrice, son tanto originale che quando odio qualcuno e qualcosa lo dico con una maleducazione che fa rizzare i capelli in testa ai filistei, son tanto originale da non poter nemmeno sentir la puzza degli originali e da amar voi alpini che non lo siete punto.
Malinconie, queste, camerali. Non parliamone più. Val meglio ammirare.
C’è, del resto, dei momenti nei quali mi chieggo s’io non abbia fatto male a cercar di parlare di voi?
Forse, a voi silenziosi, s’addiceva il silenzio. E voi l’amor del silenzio mi avevate insegnato sulle vette dove l’alpino non ha sopra di sè altri che Dio.
E ho taciuto due anni. Poi mi ha ripreso il mio male. Fu forse un tradimento…
E anche di questo vi domando perdono.
Voi, i vostri ricordi, li rugumate come una cica a lungo soli Io li scrivo.
Ma se un giorno… Ah! questo poi no; questo è il mio secreto. Ciascuno ci ha il suo.
Fratelli, sono passati due anni. Dieci volte l’ala della morte m’ha schiaffeggiato senza portarmi via. E tra voi ho ruminato il mio dolore e tra voi ho masticato l’ultima mia giovinezza e oggi sono una virilità calma che ride, una forza contenuta che domina. Sento il sangue che mi batte nelle arterie con una piena torrenziale, sento che potrei paralizzare un avversario solo guardandolo in faccia o ridendogli in faccia, sento che se afferrassi un uomo alla gola dovrebbe o inginocchiarsi o schiantarsi.
E tutto questo lo debbo al vento della montagna ed a voi.
Io sono salito sulla montagna sfatto, macro per le lunghe notti d’amore, d’ozio, di lavoro, incerto ancora intorno ai mici pensieri che davan del capo contro le muraglie di sciocchi pregiudizi millenari… E sulla montagna ho ritrovato me stesso.
Questo lo debbo a voi, camerati.
E non potendo testimoniarvi in altro modo la mia gratitudine v’offro questo libro.
Monte Grappa. Marzo 1918.
IL SERGENTE PAOLETTA
N oi eravamo coscritti.
E sentivamo di fronte ai vecchi, noi cappelloni, tutto l’avvilimento dei novizi, tutta la timidità degli apprendisti, tutta la inferiorità degli iniziandi.
E le ragioni dell’avvilimento, per noi cappelloni del tempo di guerra, eran le cento volte più forti di quelle che tenevan sottomessi i cappelloni del tempo di pace.
Perchè di fronte a noi gli anziani non erano soltanto anziani, ma eroi e noi non eravamo soltanto coscritti, ma imboscati.
Secondogeniti del sole noi avevamo guardato partire i primogeniti con gli occhi asciutti e con un pochino di invidia in cuore, ma eravamo rimasti a casa in grazia dell’età, degli affari, della famiglia ad attendere alle faccende nostre, aspettando tranquilli il nostro turno.
E il nostro turno era venuto dopo un anno.
Da un maggio a un altro avevamo atteso.
E in quei piccoli dodici mesi era passato sull’Italia un vento d’epopea, la storia aveva scritto pagine e pagine a caratteri d’oro e di sangue. Il sangue dei primogeniti.
Noi ci si alzava, in quell’anno di aspettazione, la mattina e ci batteva sulle imposte con il sole un nome: Sabotino.
Alla trattoria a mezzogiorno si faceva metter dal cameriere le frutta in fresco e un altro nome ci ammiccava dalle pagine di un giornale: San Michele.
Ci si sdraiava comodamente sur una poltrona per sorbire una tazza di caffè e un amico buttava là sbadatamente: Podgora
Si mordeva la carne profumata di una donna e un grido nostro, un singhiozzo di piacere ci ricordava, con il suo nome, il nome di Santa Maria di Tolmino.
Per quelli che sentivano, tutta la vita era un rimorso.
Io so che non volevo più bene al mio letto, che non amavo più l’amore. Giornalista e corrispondente di guerra correvo come un forsennato dal Monte Nero ai Sei Busi, dal Freikofel al Pasubio, passavo le notti nei tuguri del Zagòra o nelle trincee di Pal Grande, ma quando la mia macchina rombando mi riportava in una città popolosa e mi vedevo attorno una gaiezza di vita e di colori, un chiacchiericcio di femmine, un pettegolezzo d’uomini facevo schifo a me stesso e a petto a quelli che avevo lasciato da poco, a petto ai melmosi, sbrindellati, pidocchiosi fantaccini della trincea, io, il giornalista, lo scrittore, l’esteta, mi sentivo un miserabile.
Mi davan fastidio le mie cravatte, mi vergognavo di portare le scarpe basse di copale e di non portare le mollettiere e, se mangiavo qualcosa di buono, mi pareva di doverne arrossire come se lo togliessi di bocca a quelli che soffrivano di più e che lo meritavan di più.
E contro quelli che, trovandosi nelle mie stesse condizioni, non se ne avvilivano, nutrivo un sentimento d’odio di disprezzo che talvolta s’esternava in rumorosi scoppi d’ira. Una volta al ristorante della stazione di Vicenza avendo sentito un bellimbusto di quelli con la striscia sul braccio affermare che in trincea c’era andata la parte peggiore della nazione perchè gli intelligenti la guerra dovevan dirigerla e non farla, feci accadere un parapiglia e dovetti pagare sette franchi di chicchere rotte.
Andai via cantando:
P’annà a pijà Trieste ce vonno assai sordati
levatele le strisce a tutti gl’imboscati.
Se finirà sta guerra faremo una gran festa
a tutti gl’ imboscati gli taglierem la testa.
Poi mi avevan finalmente chiamato e m’ero liberato dei miei rimorsi. Potevo respirare a pieni polmoni. Due o tre mesi d’istruzione che a me parevano eterni e poi avrei potuto andare lassù anch’io, a combattere, a patire come gli altri, a fare il mio dovere, a riparare con le sofferenze quell’anno di ritardo, di vacanza, di imboscamento.
E il nostro battaglione di reclute aveva come ufficiali e graduati istruttori tutti uomini che avevano già fatto la guerra, che erano già stati feriti, che facevano la loro convalescenza istruendoci, che venivano dal Monte Nero o dal Potoce, che ci raccontavano nel pomeriggio,