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Delitti a sangue freddo
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Delitti a sangue freddo
E-book1.204 pagine16 ore

Delitti a sangue freddo

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Info su questo ebook

L’anatomista • 27 ossa • Il gioco del serial killer • La sostanza dei sogni • Stanotte ucciderò • Notte di neve • Un delitto inutile

La signora del giallo italiano

7 libri in 1

Su uno scoglio del lungomare di Napoli viene ritrovato il corpo nudo e mutilato di una giovane donna. Un macabro rituale che ha già fatto più di una vittima. Una squadra di profiler, guidata dallo psichiatra Tito Jacopo Durso, è alla disperata ricerca di qualche indizio sull’assassino, ribattezzato dalla stampa come l’Anatomista. Alla sua équipe la polizia ha deciso di affiancare una psicologa, Artemisia Gentile, esperta nella cura di vittime di abusi e maltrattamenti. Sarà proprio lei che Durso deciderà di usare come esca… Sempre a Napoli, nel bosco di Capodimonte, e precisamente nell’antico Condominio Badenmajer, sono scomparse alcune donne: senza legami, di passaggio in città, la loro assenza non viene notata. Solo Gloria, una ragazza instabile che soffre di claustrofobia, si è resa conto di qualcosa, e farnetica di scene raccapriccianti che accadrebbero nel condominio. Ma si sa, Gloria è pazza… Nel passato di Palazzo Badenmajer si nasconde la verità e bisognerà addentrarsi nelle sue viscere per scoprirla. Nei racconti che accompagnano questi due thriller, Diana Lama ci regala cinque storie in cui il sangue macchia ora il candore della neve, ora la tranquillità delle vacanze estive…

Un'autrice tradotta in 7 Paesi

Hanno scritto di Diana Lama:

«In controtendenza con i thriller d’oggi, dove detective succubi delle mode devono il loro successo alle più sofisticate tecniche di indagine […], questo giallo fa perno sull’imperscrutabilità delle passioni.»
Antonio Debenedetti, Corriere della Sera

«Un plauso va a questa signora del noir, Diana Lama, medico che si diletta a scrivere gialli con il gusto di chi da sempre si nutre del genere.»
la Repubblica
Diana Lama
Vive a Napoli, è medico specialista in Chirurgia del cuore e grossi vasi e lavora come ricercatrice universitaria. I suoi romanzi (Rossi come lei, Premio Alberto Tedeschi; Solo tra ragazze; La sirena sotto le alghe; Il circo delle meraviglie) sono tradotti in Francia, Germania, Russia e Canada. Ha pubblicato molti racconti, alcuni dei quali sono stati tradotti in USA e Gran Bretagna. Di recente una sua short story è stata pubblicata sul prestigioso «Ellery Queen Mystery Magazine». È fondatrice e presidente di Napolinoir, l’associazione dei giallisti napoletani, e creatrice del Premio letterario per ragazzi ParoleinGiallo. Con la Newton Compton ha pubblicato L’anatomista e 27 ossa e ha partecipato a diverse antologie.
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2016
ISBN9788854199897
Delitti a sangue freddo

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    Anteprima del libro

    Delitti a sangue freddo - Diana Lama

    L’anatomista

    Questo libro è per Chicco e per Lucia

    Capitolo 1

    Questa è una città che devi vedere prima di morire.

    Oppure è una città che ti uccide, una volta che l’hai vista.

    Michele Nuzzo non ha mai saputo interpretare il senso di un motto famosissimo riguardo al posto dove ha trascorso tutta la sua vita.

    Sa solo che il lungomare della città è uno dei più belli al mondo.

    Il marciapiedi si snoda in un’ellissi lunghissima su cui si rispecchia tutta la conca dei palazzi affacciati sull’acqua azzurra.

    In lontananza il Castel dell’Ovo è una gemma tufacea aggrappata agli scogli.

    A quell’ora del mattino non ci sono automobili, non ancora, e l’aria è come rarefatta. Il cielo e il mare si confondono in una caligine ovattata e sbiadita.

    Michele Nuzzo guarda l’orizzonte.

    Sarà una bella giornata, anche se è dicembre, e manca meno di una settimana a Natale. La pioggia della notte ha lavato i marciapiedi, che sono lucidi e puliti come la pelle delle pezzogne che spera di pescare.

    L’acqua piovana si è portata via anche l’immondizia, sciogliendola e trascinandola verso gli scarichi fognari già intasati. La città sembra ingannevolmente pulita, una sirena virginea e immota, ancora addormentata.

    Michele sa che è un’illusione: poco ancora e si ridesterà in un’orgia di clacson e motori scoppiettanti. In breve sarà un delirio di pullman con i motori imballati, gente vociante e scooter e motorini che sfrecceranno come zanzare tra un’automobile e l’altra.

    Scuote la testa. Nei suoi sessantasette anni di vita ha visto tante cose accadere in quella città, e sa che nessun cambiamento è efficace. Niente dura, la città resiste a ogni tentativo di violenza, riorganizzazione, ottimizzazione o pulizia.

    Scende con cautela dalla rotonda, ha le ginocchia un po’ rigide, e fa attenzione a non inciampare nelle pietre sconnesse e nei ciottoli sugli scalini. Un gatto tigrato dalla testa rotonda fugge via miagolando. Ha qualcosa in bocca, ma Michele non crede sia un topo. L’immondizia per le strade non è ancora arrivata ai livelli di guardia, come è successo la primavera scorsa. I sacchetti neri e lucidi sono ancora pochi, i cassonetti non sono intasati.

    Per i topi c’è ancora tempo, ma arriveranno anche loro, nei giorni di festa.

    Le sue scarpe scricchiolano sul percorso invaso dalla sabbia. Urta una lattina che rotola via sferragliando.

    Un gabbiano si alza in volo poco distante, emettendo il suo grido stridulo.

    Michele Nuzzo ama quell’ora e quel posto, e da quando è in pensione va spesso a pescare la mattina presto sugli scogli del lungomare. Dal camminamento le grosse rocce si estendono come una lingua nell’acqua. Massi grigi e squadrati con le superfici piatte incastrate tra loro, che si insinuano come spartiacque nel mare ingannevolmente azzurro.

    Michele si arrampica su quello più vicino con un certo sforzo, non è più un ragazzo, anche se non sta poi così male come vorrebbero fargli credere sua moglie e il cardiologo.

    Spesso c’è un vagabondo che dorme rannicchiato all’ombra sotto i primi scogli, ma è da un po’ che non si vede. Ormai fa troppo freddo per dormire in riva al mare.

    L’aria salmastra porta odore di alghe, lui dilata le narici e aspira: è pulita, solo un sentore di sabbia e mare, non c’è puzza di rifiuti marci, quasi un miracolo. È il segno che sarà una buona giornata di pesca: tornerà con qualcosa per pranzo, e forse non si sentirà inutile come gli capita sempre più spesso da quando è andato in pensione.

    Cammina lungo gli scogli verso la propaggine più avanzata, mantenendo l’equilibro sulle pietre dissestate, e traballando quando il piede si incastra in un anfratto tra una roccia e l’altra. Nella tracolla ha le esche e la canna, un panino piccolo con la provola e un thermos di caffè.

    Il gabbiano ha trovato compagnia. Adesso sono in tre, e insieme lanciano grida stridule sopra la sua testa, descrivendo ampie parabole con le grandi ali bianche. Michele alza gli occhi, facendosi schermo con la mano, perché il sole comincia a levarsi nel cielo. Gli uccelli sono grandi forme nere sullo sfondo chiaro, e chissà perché in quel momento una sensazione di malessere gli serpeggia fredda tra le scapole.

    Non è un’angina, no, e nemmeno un picco di pressione alta: ha imparato a riconoscerli e sa come comportarsi.

    No, è qualcosa che gli striscia sotto la pelle, come un ratto che corre via veloce con le sue zampette dalle unghie affilate, come un’ombra rapida davanti al sole in una giornata di estate.

    Un brivido, un attimo di gelo ed è sparita.

    Michele non si farà rovinare la giornata, ha la sua canna e le esche e pregusta il sorriso di Elvira quando tornerà con una preda degna di tal nome. Continua a camminare verso il suo scoglio preferito, e a mano a mano che si avvicina vede che è già occupato.

    Qualcuno si è steso proprio là in fondo, a prendere il sole.

    Ha scelto quel posto dopo molti esperimenti, è lì che la corrente porta i banchi di pesce che si avvicinano troppo alla costa. I pesci sono ombrosi, non amano movimento o rumore, e la persona che sta prendendo il sole, per quanto ora sembri immobile, forse addirittura addormentata, sicuramente non rimarrà così per sempre.

    Michele ha la luce negli occhi, mentre continua ad avanzare con passo più stanco, ma gli sembra che sia una donna.

    Che idea, stare in costume da bagno a quest’ora, in un mattino di dicembre!

    Sarà una straniera, pensa, una di quelle che scendono dagli alberghi di lusso che si affacciano sul lungomare. Tipico degli stranieri. Arrivano senza sapere nulla della città, fanno un giro nelle isole, si avventurano incautamente nei ristoranti di Santa Lucia, non sanno nemmeno che è preferibile non indossare un Rolex o gioielli troppo vistosi.

    Sarà una di loro, pensa, abituata al freddo del Nord, e le sarà parsa una grande idea prendere il sole sul lungomare più bello del mondo poco prima di Natale.

    Sta per fare dietrofront e cercare a malincuore un posto dove non ci sia nessuno, quando si accorge che la donna, perché è una donna – vede i lunghi capelli scuri – non è in costume.

    È nuda, proprio nuda, la pelle chiara non è coperta da nulla.

    Michele è pur sempre un uomo, anche se ha sessantasette anni e la sera è sempre stanco. Ora è mattina presto, e così si avvicina.

    Che avventura da raccontare a Elvira!

    O forse da non raccontare: una bella straniera nuda sugli scogli del lungomare, probabilmente è una storia che sarà meglio conservare per gli amici durante la partita a scopone scientifico.

    Continua ad avanzare sui massi, qualche spruzzo gelato gli bagna le caviglie, il mare là fuori è più agitato.

    I gabbiani sopra la sua testa adesso sono più vicini, ma la donna rimane immobile e non dà segno di essersi accorta della sua presenza. Forse dorme, non sente nemmeno le grida rauche dei grandi uccelli lassù in cielo.

    Poi Michele si rende conto del silenzio. A parte le strida dei gabbiani non c’è alcun rumore su quel lembo pietroso. Tra le rocce grigie ce ne sono alcune bianche come ossa dilavate dal mare. L’acqua è sconvolta da piccole onde grigie con la cresta spumeggiante e candida, ma c’è silenzio. Il lungomare, gli alberi della Villa Comunale e i radi passanti sono lontanissimi, ora. Il cielo sopra la sua testa ha perso tutto l’azzurro, e sembra gravare come una nube fosca. I gabbiani sono neri in controluce e per un attimo lo afferra una voglia tremenda di scappare, ripercorrere i massi sconnessi fino alla spiaggetta e alla civiltà, lontano da quello scoglio troppo silenzioso e dai grandi animali che volano lenti sopra di lui.

    Vuole andare via, fuggire prima che la donna si accorga di essere osservata.

    Prima che giri la testa e lo guardi.

    E poi Michele capisce che non è una donna: troppo bianca, troppo immobile stesa sugli scogli a pancia in giù, i capelli neri che svolazzano al vento.

    È un manichino con la forma di una donna, un manichino perfetto e bellissimo che da lontano ingannerebbe chiunque.

    A Michele Nuzzo un’idea folle attraversa il cervello, un’idea sciocca e irrealizzabile per la quale probabilmente Elvira chiederebbe il divorzio, dopo avergli spaccato la testa.

    Non ha un posto dove conservare il manichino. Non ha modo di trasportarlo senza farsi vedere. Gli amici lo prenderebbero in giro senza pietà.

    Lui è iperteso e diabetico e ha già avuto due volte un dolore al petto che il medico ha definito preoccupante.

    Purtroppo il manichino dovrà rimanere dove sta, finché il mare alla prima tempesta riuscirà a portarselo via. Lui intanto può almeno avvicinarsi, guardarlo da vicino e toccare la sua pelle di plastica, soda ed elastica come quella di una ragazza giovane.

    I gabbiani hanno cominciato a schiamazzare in maniera assordante, sembrano disturbati da qualcosa. Forse da lui.

    Michele si sorprende a pensare che forse anche loro vogliono avvicinarsi al manichino, credendo che sia qualcosa di commestibile.

    Ora che è più vicino può vedere meglio i capelli neri, lisci come seta e aggrovigliati dal vento, il viso perfetto, bianco e immoto, e il corpo esile con le membra livide e sottili, la mano con le dita eleganti appena sopra il pelo dell’acqua. Michele si accorge che il manichino è anche rovinato, proprio al centro della schiena.

    Mentre si fa ancora più avanti per un attimo pensa che siano stati i gabbiani a provocare la lacerazione. Poi, in un istante di consapevolezza, capisce e cade in ginocchio sugli scogli. Non fa caso alla tracolla che aprendosi rovescia il suo contenuto sulla pietra grigia. Le punte acuminate e lucenti degli ami si sparpagliano tra le chiazze di acqua salmastra insieme alla massa brulicante di grassi vermi rosati, ma lui non può preoccuparsene.

    Sta vomitando con conati aspri e rauchi.

    Un dolore sordo gli stringe il petto come una mano feroce e pensa che finalmente avrà l’infarto che il suo medico, Elvira e lui stesso stanno aspettando da tempo.

    Capitolo 2

    Si sveglia e ha paura.

    È tutto buio, non c’è nemmeno la lucina da notte accesa.

    Chiama: «Mamma!», e sente l’eco della sua voce disperdersi nello spazio vuoto e nero davanti a lei. Chiama di nuovo, a bassa voce: «Mamma?», e anche il sussurro risuona come un fiato caldo nell’oscurità.

    Ha paura ma non piange, è grande ormai, i sette anni li ha compiuti da un pezzo, ma vuole la mamma.

    Ha freddo, con la mano tasta nel vuoto come una cieca, e trova una parete liscia, fredda. Ci sono due muri, e lei è proprio nell’angolo, rannicchiata in una coperta ruvida che puzza di umido su un pavimento duro.

    Non sa come è finita lì. Dove è la mamma?

    Sente il cuore che le rimbomba fortissimo nelle orecchie, e poi avverte anche un fruscio.

    Un fruscio che viene da qualche parte nel buio davanti a lei.

    Cosa c’è là dentro con lei?

    Non vede niente ma sa che c’è qualcosa.

    Stringe al petto le ginocchia e cerca di farsi piccola piccola, così forse scomparirà nel buio e la cosa che fruscia e striscia non la prenderà. Poi forse si sveglierà da quel bruttissimo sogno, e sarà nel suo letto, nella sua cameretta, e potrà correre nel lettone della mamma per abbracciare il suo corpo caldo e profumato.

    Forse si sveglierà da un momento all’altro.

    Forse.

    Ma intanto è da sola nel buio, con la cosa.

    Non può piangere, stringe forte gli occhi e le labbra e trattiene tutte le urla e le lacrime dentro di sé. Ha deciso che vuole essere coraggiosa.

    Forse la cosa non si è accorta che c’è anche lei.

    Ma adesso si trascina per terra, si sta avvicinando sempre di più, sempre di più, e lei si mette le mani davanti alla faccia e alla bocca perché sa che sta per urlare.

    E poi nel buio compare uno spiraglio di luce, così forte che le ferisce le palpebre serrate, e quando finalmente riesce a distinguere qualcosa, vede due gambe.

    Le gambe di un uomo grandissimo, nere contro la luce gialla e forte che c’è dietro.

    La sta guardando dall’alto, in silenzio, e non vede nulla se non le gambe che si perdono da qualche parte nell’oscurità. C’è un odore strano, come quello dell’alcol che la mamma usa per medicarla quando si sbuccia le ginocchia.

    La cosa si agita vicino a lei, così vicino che non sa se la terrorizza più lei o l’uomo. Le gambe sono sempre più vicine. Si pizzica fortissimo la parte morbida del braccio, cerca di farsi molto male con le unghie perché così si sveglierà. Stringe più forte che può, il dolore è tale che le lacrime si gonfiano negli occhi, ma il sogno non va via.

    La cosa si muove, e lei guarda, e ora che non è più così buio si accorge che ha braccia e gambe e capelli, ed è una bambina come lei, forse un po’ più grande.

    Non ha il tempo di provare sollievo.

    L’altra bambina parla, con una voce piccola e disperata: «Prendi lei. Ti prego Dottore, stavolta prendi lei».

    Capitolo 3

    19 dicembre

    Mitzi si svegliò di scatto cercando di identificare il rumore molesto che l’aveva risvegliata da un sonno pesante e sudato.

    Il cellulare ronzava sul comodino vicino al suo orecchio.

    Mentre lo cercava nella penombra tra i libri, le pillole e la sveglia anche l’ultimo brandello del sogno si dissolse. Le rimase come un’ombra addosso, qualcosa di angoscioso e indistinto, come spesso le capitava quando sognava. Non cercava mai di ricordare gli incubi che visitavano le sue notti.

    Il telefono aveva smesso di suonare. Sul display non appariva il numero, ma solo la dicitura sconosciuto. Erano quasi le sei, ancora troppo presto per alzarsi. Il primo paziente della giornata sarebbe arrivato più tardi.

    Scese dal letto, e si diresse scalza verso il bagno. Il vecchio pavimento di cotto era fresco sotto i suoi piedi e a lei piaceva dormire solo con una larghissima maglietta di seta, sia in estate che in inverno. Rabbrividì mentre il sudore le si raffreddava addosso. Un sudore vischioso che sapeva di paura. Doveva essere stato proprio un brutto sogno, uno dei peggiori.

    Qualcosa di oscuro si agitò nel profondo della sua mente, ma aveva imparato da tempo a sbarrare velocemente le porte che dovevano restare chiuse.

    «Artemisia Gentile, sei una vigliacca», sussurrò alla sua immagine riflessa nello specchio sopra il piccolo lavabo di acciaio.

    Il suo bagno era tutto bianco, piastrellato con infinite tessere dal pavimento al soffitto, e non c’era nulla se non l’acciaio che attenuasse il biancore. Attraverso la tenda velata, la luce del primissimo mattino entrava con una piacevole sfumatura di verde. Il vantaggio di avere un giardino, pensò. Si assicurò che la porta fosse chiusa a chiave, anche se sapeva bene di essere sola in casa.

    «Vigliacca», ripeté senza sorridere al suo riflesso. La donna nello specchio la guardava seria.

    Con i capelli corti del colore delle foglie in autunno e il naso spruzzato di lentiggini appariva più giovane dei suoi ventinove anni. Forse era anche un po’ troppo magra. La bocca era la parte di sé che preferiva, piccola ma con il labbro inferiore ben delineato. A seconda delle circostanze poteva farla sembrare imbronciata, sensuale o intimidita, ma la vera Mitzi era nascosta dietro gli occhi, che erano grandi e alla luce del giorno di un grigio chiarissimo, quasi trasparente. Di sera o quando era pensierosa diventavano della stessa tinta di uno stagno melmoso e ugualmente insondabili. Uno psicologo le aveva detto che erano gli occhi di un’assassina. Lei aveva riso, e poi aveva cambiato psicologo.

    Il tessuto leggero della maglietta metteva in evidenza i capezzoli. Le maniche corte coprivano le braccia toniche ma non celavano completamente una sottile cicatrice rossastra sul bicipite sinistro. Aggrottò le sopracciglia e tirò più giù il tessuto. Per fortuna era dicembre. Amava l’inverno, che le permetteva di nascondersi meglio.

    I capelli erano una massa arruffata, li assestò rapidamente con le dita senza preoccuparsi di pettinarli. Sulla fronte un ciuffo si fermava alle sopracciglia, e il taglio corto evidenziava gli zigomi e la mascella delicata. Non aveva più portato i capelli lunghi da quando era bambina.

    Rabbrividì. «Non sono più una bambina».

    Pronunciò le parole senza quasi rendersene conto. Era un riflesso condizionato. Non sono più una bambina, non sono più una bambina. Ripeté il mantra nel silenzio della sua testa.

    Capitolo 4

    Il corridoio di pietra sembra assorbire ogni rumore.

    Da un lato e dall’altro si aprono camere molto grandi e buie, perché non hanno finestre da cui possa entrare la luce del giorno. Il pavimento di alcune di esse è di terra battuta, e le pareti di tufo, ma il percorso che le collega alla scala è di pietra, lisce e solide lastre di pietra che sembrano ingoiare ogni suono.

    Non ci sono più urla, ora, e nemmeno gemiti, suppliche o pianti silenziosi.

    Non c’è nulla.

    In una stanza il frigorifero e il congelatore ronzano come grossi animali acquattati nell’angolo più buio.

    Nel contenitore di vetro il liquido oscilla lievemente, registrando il passo di qualcuno che scende i gradini. I libri sullo scrittoio antico sono tanti. Le figure anatomiche sono illustrate con dovizia di particolari, anche se non sempre con l’accuratezza scientifica necessaria. Alcuni dei volumi sono molto antichi. Il corpo umano ha sempre affascinato medici e studiosi, e per tanto tempo la dissezione di cadaveri è stata l’unico mezzo per arrivare a comprendere l’anatomia dei viventi. Ci sono voluti molti corpi, tanti vagabondi trovati morti per strada. Un numero incalcolabile di defunti di cui nessuno ha richiesto indietro i cadaveri.

    L’Anatomista pensa che sia giusto così. La morte di alcuni individui può essere utilizzata per allargare le conoscenze scientifiche a vantaggio di molti.

    Ha da qualche parte uno splendido testo dove resti umani in cera sono fotografati in maniera eccellente. C’è perfino una donna, bellissima, con lunghi capelli neri e il ventre squarciato a mostrare un nascituro incompleto custodito all’interno. Quando sfiora quell’immagine con la punta delle dita, l’Anatomista si chiede spesso chi sia stata la modella, e con quanta buona grazia si sia assoggettata a quel compito.

    La scienza ha sempre fatto i suoi passi avanti procedendo per approssimazione, ovunque come in quella città.

    Anzi, proprio in città c’è una scuola di medicina che è stata famosa in tutto il mondo. C’è il ricordo ancora vivo di uno scienziato stregone che nel Settecento fece un’arte dello studio del corpo umano. Un principe famoso già ai suoi tempi per l’immensa cultura e la curiosità ancora più grande.

    Si narra che avesse iniettato una sostanza nel sistema circolatorio di uno schiavo e di una schiava per far solidificare vene e arterie e capire come funzionasse la circolazione cardiaca. Per alcuni sono un inganno costruito con cera e fil di ferro, ma vere o false che siano le sue creazioni sono ancora esposte in città, meta di turisti e curiosi di ogni paese. L’Anatomista si aggira spesso tra i visitatori del museo.

    Secondo la leggenda la schiava era incinta, e uno dei due scheletri circondati dalla filigrana del sistema sanguigno ha infatti recato per molto tempo nell’utero una cosa più piccola, piccola come un feto, finché qualcuno non l’ha trafugato.

    Questo è uno dei misteri della città, ma ce ne sono tanti, e i libri ne celano altri ancora.

    Ci sono tantissimi volumi nella stanza, con disegni colorati che mani ormai diventate polvere hanno tracciato con attenzione. I testi di medicina più antichi sono imperfetti, pagine tagliate irregolarmente e immagini imprecise, ma sono i più belli.

    L’Anatomista lo sa, come sa che è tornato il momento che il sotterraneo si riempia di nuovo di voci e urla, suppliche e bisbigli.

    Scende l’ultimo scalino, percorre a lunghi passi la caverna il cui soffitto si perde nel buio e si affaccia nel corridoio illuminato dalle torce.

    Il riflesso dell’oro e dell’argento balugina nei suoi occhi insieme al guizzo delle fiamme, e i suoi occhi diventano rossi.

    Capitolo 5

    Dapprima Mitzi non riconobbe la voce al telefono.

    «Dottoressa Gentile». In sottofondo si sentiva il chiasso di molte voci che parlavano contemporaneamente. «Sono Gianuaria. Mi trovo a San Gregorio Armeno con Gemma. Mi aiuti! Sono sola e non so cosa fare! Venga subito, la mia bambina sta male!».

    La comunicazione fu interrotta di colpo.

    Se glielo avessero chiesto, Mitzi avrebbe ammesso che il primo paziente da cui aspettarsi complicazioni e difficoltà era proprio Gianuaria Esposito.

    Era già in ritardo per l’appuntamento della mattina al suo studio, e ormai era evidente che non sarebbe venuta. Ma non era di quello che Mitzi si preoccupava. No, il problema era che Gianuaria fosse con Gemma, la sua bambina di sette anni. Sola con lei.

    Mitzi si vestì velocemente, rimpiangendo di non avere nessun amico da poter chiamare e da cui farsi aiutare. C’erano solo conoscenti, e nessuno da poter disturbare in una situazione potenzialmente rischiosa come quella. Prese un giaccone e una sciarpa, la comodissima sacca di pelle nera che usava come borsa e il telefono. Chiuse tutte le serrature e attraversò di corsa il piccolo giardino.

    Fu tentata di avvisare la polizia, ma scartò subito l’idea: la Esposito era una paziente cui la legava il segreto professionale. Non poteva tradire il rapporto di fiducia che stava tentando di instaurare con lei.

    La fiducia era tutto nel suo lavoro: era una psicologa e operava come privata o come consulente del tribunale. I casi riguardavano principalmente abusi su donne, minori o comunque elementi deboli della società. Non si soffermava mai a lungo sui motivi per cui preferiva, anche nell’attività privata, seguire sempre quello stesso genere di pazienti, considerato il suo passato. Anni di terapia le avevano dato sicurezza e consapevolezza, almeno in superficie, ma ancora si inoltrava nei labirinti della propria mente come su una passerella in equilibrio instabile su un abisso. E comunque di una cosa era certa: finché non fossero emerse prove di un crimine commesso da Gianuaria, l’avrebbe protetta.

    Il problema era la natura del crimine. C’era un’indagine in corso, con tutti i rallentamenti burocratici e gli intoppi che il coinvolgimento di bambini comportava.

    La giornata era cominciata con un tiepido sole che faceva ben sperare, pur essendo dicembre avanzato. La sua Mini verde scuro di seconda mano scintillava alla luce come nuova. Mitzi la coccolava come una figlia. L’aveva lavata il giorno prima, e l’interno profumava di detersivo per pelle. Fece manovra e si diresse lungo il viale che immetteva in una strada più caotica e trafficata.

    La sua casa era una piccola struttura a se stante, poco più di una vecchia foresteria, ma non tanto lontana dagli altri palazzi da farla sentire isolata, in fondo a un viale di un quartiere signorile. Tre pini marittimi svettavano in un giardino che si affacciava sui quartieri più vecchi della città. Da un lato del suo piccolo appezzamento Mitzi poteva vedere un mare di tetti e terrazze, una specie di presepe che continuava verso il mare, interrotto ogni tanto dalla guglia di un campanile o dalla sommità di un antico palazzo nobiliare.

    Si immise nel traffico cercando di raccogliere le idee.

    Gianuaria Esposito chiuse il cellulare e il sorriso le scavò una fossetta sulla guancia pallida. La soddisfazione le accendeva gli occhi, di un azzurro profondo. Aveva un viso innocente, dai tratti purissimi.

    «Ecco, ora arriverà di corsa». Scese un paio di scalini mentre senza voltarsi parlava con la persona che la seguiva. «Qui già non c’è più campo». Rimise il cellulare nella tasca dei jeans e fece qualche altro gradino. Poi si fermò, come assalita da un pensiero improvviso.

    Si girò e chiese: «Le farai molto male?». Sorrideva.

    Mitzi tamburellava con due dita sul volante. Avrebbe voluto avere le ali, per arrivare prima. Forse Gemma era in pericolo. Il caso di sua madre era molto complicato, e l’indagine non aveva ancora chiarito i fatti. Poteva forse trattarsi di un semplice caso di maltrattamento di minori oppure essere molto peggio. Comunque, era già un miracolo che qualcuno si fosse accorto che quella bambina era in pericolo.

    A quell’ora del mattino la città si andava risvegliando. Mancava meno di una settimana a Natale e Mitzi si trovò ben presto imbottigliata nel traffico di un incrocio. Deviò, ma la strada che aveva imboccato era ugualmente intasata di macchine incolonnate. Non c’era modo di fare marcia indietro, ma intanto il tempo passava. Cominciò a tormentarsi l’angolo del pollice con l’unghia dell’altro dito e solo quando avvertì una fitta di dolore si rese conto di quel che stava facendo. Si succhiò la goccia di sangue. Era nervosa, stava perdendo minuti preziosi.

    Minuti in cui a una bambina in pericolo poteva succedere qualunque cosa.

    Gianuaria Esposito non aveva certamente avuto una vita serena. Da piccolissima aveva perso entrambi i genitori, e fino a cinque anni era stata cresciuta da una zia tossicodipendente in un basso della Sanità, uno dei quartieri più malfamati della città, un posto nel quale i poliziotti si rifiutavano di intervenire se non erano in numero considerevole. Dopo la morte della zia la piccola Gianuaria era passata da una famiglia in affido all’altra, e a quindici anni lavorava già in una casa di appuntamenti nell’elegante quartiere di Chiaia.

    Proprio lì era stata salvata da quello che lei definiva l’amore della sua vita, un uomo molto più grande di lei che l’aveva sposata e resa madre prima dei diciotto anni. A venticinque Gianuaria era già una vedova, con tre bambini e una rendita modestissima che l’aveva obbligata a lavorare come cassiera in un negozio di articoli per presepi. Dopo qualche tempo era diventata l’amante di uno dei proprietari, un uomo più vecchio che aveva accolto in casa propria lei e i bambini. Pochi mesi ancora e il più piccolo dei suoi figli, un bimbetto malaticcio di nemmeno due anni, era morto di polmonite. Ancora un anno ed era morto il secondogenito, un altro maschietto dal carattere vivace che tendeva a cadere dalle scale o dai tavoli e a rompersi ossa con frequenza allarmante.

    L’ingorgo non accennava a diradarsi. Mitzi cercò un modo per svicolare tra le altre auto incolonnate che si muovevano troppo lentamente.

    Le vetture la stringevano da tutti i lati, ognuna cercando di trovare un pertugio per sgusciare avanti. Non appena si aprì un varco vi si infilò velocemente, ma non poté evitare che un’altra vettura inchiodasse davanti a lei, sfiorandole il paraurti. L’energumeno al volante cercò di scendere, con l’aria di uno che non accetta di avere torto, soprattutto con una ragazza. Le stava gridando qualcosa mentre apriva la portiera, qualcosa che lei non aveva certamente voglia di sentire. Ingranò la retromarcia e con una rapida fuga si svincolò dal caos.

    «Brava Mitzi: sei sempre la più in gamba quando si tratta di scappare». Le mani le tremavano. Non si era ancora abituata alla guida nervosa e aggressiva tipica degli automobilisti di quella maledetta città. La via ora era libera, accelerò sperando di arrivare in tempo.

    Capitolo 6

    «Non mi guardare con quella faccia. So perfettamente a cosa stai pensando».

    Sasà Arciello era in grado di annusare il cattivo umore del giudice Giamundo già a parecchi metri di distanza. Si era allenato a non alterare minimamente la sua mimica facciale in nessuna occasione, ma evidentemente il vecchio sapeva leggergli nel pensiero.

    «D’accordo, a prima vista può non sembrare la persona ideale. Sono certo che Durso farà di tutto per non accettarla nella Squadra». Giamundo lo guardava dal basso. Sedeva sprofondato nella poltrona di pelle dallo schienale alto che lo faceva somigliare a un anziano rospo rattrappito e rugoso. Sasà era in piedi davanti a lui a braccia conserte, immobile.

    L’altro continuò con voce stizzita: «La tua disapprovazione è inutile. So perfettamente quello che faccio».

    Questo era sicuro. Il giudice sapeva sempre quello che faceva.

    «È una psicologa altamente specializzata nel lavorare su vittime di abusi e traumatizzate». La voce del vecchio aveva assunto quasi una nota petulante. «D’altra parte con la sua esperienza personale…».

    Secondo Sasà il problema era proprio quello, ma il giudice Giamundo avrebbe dovuto saperlo meglio di lui. Aveva studiato con attenzione tutti i rapporti che Sasà aveva preparato. Entrambi conoscevano la persona in questione dentro e fuori.

    «Ci sarà utilissima se troveremo una vittima ancora in vita».

    Cosa estremamente improbabile, ma Sasà annuì.

    «Inoltre dati i suoi trascorsi è sicuramente in grado di intuire molto sul modus operandi di questo assassino», continuò Giamundo.

    Ma per questo esistevano i profiler, e nella Squadra ce ne erano di ottimi. Lo stesso Durso era uno psichiatra esperto di profiling criminale. Sasà non si permise nemmeno di sbattere le palpebre. Stava cominciando a sudare. Nella stanza faceva come sempre troppo caldo. Il vecchio era freddoloso.

    «È un volto televisivo», insisté, «potremo utilizzare la sua notorietà per far uscire sui giornali e in trasmissione le notizie che vogliamo».

    Al giudice Giamundo sarebbe bastato schioccare le dita per avere a disposizione qualunque canale televisivo nazionale. Non aveva certo bisogno di una piccola trasmissione su un’emittente locale che si occupava di stalker, serial killer, abusi sessuali e psicologici. Sasà cominciava a stancarsi. Facesse pure quello che voleva.

    Strusciò un piede sul tappeto. Sentiva una goccia di sudore iniziare a scorrergli sgradevolmente sull’attaccatura dell’orecchio.

    «E comunque, non vedo perché dovrei giustificarmi davanti a te!». Gli occhi di Giamundo erano neri e opachi come ossidiana, ma ora emanavano scintille. «Avrò questa Artemisia o Mitzi comediavolosichiama Gentile nella Squadra, e ne farò quello che voglio! Che tu sia d’accordo o no!».

    Dopotutto, del destino della Gentile, a Sasà non importava più di tanto. Giamundo avrebbe fatto di testa sua, come sempre. Ma di una cosa era certo: i motivi per cui la bella psicologa era stata reclutata a sua insaputa erano ancora tutti nascosti nella testa di Giamundo. Come pure era sicuro che la Gentile avrebbe creato problemi, e grossi anche.

    Mentre usciva dallo studio del giudice si disse che comunque, nulla di ciò che sarebbe successo poteva essere peggio di quello che l’Anatomista aveva fatto fino a quel momento alle sue vittime.

    Si sbagliava.

    Capitolo 7

    Il cuore è un organo cavo muscolare. È sospeso con la sua base ai grandi vasi. Occupa nella cavità toracica una posizione asimmetrica con l’apice diretto anteriormente, verso il basso e a sinistra. Le sue quattro sezioni sono appaiate per funzionare a due a due, ogni paio consistente di un atrio a parete sottile e di un ventricolo a parete spessa, separati a sinistra dalla valvola mitrale o bicuspide e a destra dalla valvola tricuspide. Atri e ventricoli sono divisi dal setto interatriale e dal setto interventricolare.

    Una dissezione efficace dell’atrio destro deve procedere lungo il solco della cresta terminale dall’orifizio della vena cava superiore fin giù a quello della cava inferiore, cercando di non ledere la Valvola di Eustachio. Il ventricolo destro verrà invece più facilmente inciso di lato al solco interventricolare anteriore, cosa che permetterà di lasciare integra la valvola tricuspide e la trabecola setto-marginale con i suoi due fasci moderatore e settale.

    Per esplorare invece le cavità sinistre i tagli si praticheranno sulla parete postero-laterale del ventricolo, così da lasciare integri i muscoli papillari anteriore e posteriore e gli attacchi delle corde tendinee; poi si inciderà nella porzione di atrio sinistro compresa tra lo sbocco delle vene polmonari di destra e sinistra, in modo da avere accesso alla fossa ovale e poter osservare la mitrale in situ dalla faccia atriale.

    Sottoterra il giorno e la notte sono indistinguibili, e a volte l’Anatomista, immerso nelle sue gratificanti occupazioni, perde il senso del tempo. Sono le occasioni migliori, quando non sa più perché è lì e perché fa quello che fa.

    Non si riconosce nel soprannome che gli è stato affibbiato, anche se è tecnicamente corretto: a tutti gli effetti è un anatomista.

    L’aria è fredda, con un sentore di umido, di terra e di qualcos’altro.

    Dilata le narici e aspira con soddisfazione. Se chiude gli occhi riesce anche a vederlo, una marea oscura e rossa che si agita lentamente dietro le sue palpebre.

    Ma ora basta, non è il momento di lasciarsi distrarre, c’è così tanto da fare. Consulta i testi che ha davanti: il Testut, ovviamente, e poi il Netter, l’Atlante di Anatomia Topografica per eccellenza, il Raso, Tecnica e Diagnostica delle autopsie, e il Testut-Jacob. Sfoglia le pagine sottili con le lunghe dita eleganti, si sofferma sulle immagini dettagliate, con l’indice segue i termini latini, aspira l’odore della carta vecchia e porosa, appoggia i palmi sulle copertine telate.

    Il colore prediletto per quelle vecchie rilegature dei tomi medici è quasi sempre il rosso. Il colore del sangue. Gli sembra appropriato.

    Chiude il Testut quasi con rammarico, poi sorride mentre rivolge la sua attenzione agli altri volumi sullo scrittoio. Sono libri che hanno a che fare con l’arte più che con la scienza medica, ma sono ugualmente fondamentali.

    Vuole fare le cose per bene.

    Il cuore è stato il passo iniziale, un risultato parziale ma interessante.

    Sa bene che non troverà quello che vuole al primo tentativo, ed è disposto a cercare per tutto il tempo che gli resta. Il materiale non manca, si è documentato a sufficienza prima di passare alla parte pratica. La teoria viene sempre prima, e lui ha iniziato solo quando si è sentito pronto.

    Si guarda attorno nello spazio che ha destinato alla sua opera.

    Una cornice degna, per un lavoro che gli sopravviverà.

    Il cuore è adagiato come un dono prezioso su una tela bianca di lino. Il liquido di conservazione ne ha alterato il colore che dal rosso brunastro, screziato dal giallo del grasso pericoronarico, è virato al grigio rosato.

    Ogni taglio di sezione è stato eseguito correttamente, potrebbe farne fotografie da confrontare con quelle dei suoi testi sul Museo di storia naturale di Firenze. Il setto interatriale può apparire integro a un osservatore superficiale, ma non a lui che ha avvertito sotto le dita guantate il leggerissimo aumento dello spessore che è rivelatore. I lembi della valvola tricuspide sono tesi come piccole vele fragili e allo stesso tempo robustissime, le corde tendinee li ancorano ai muscoli papillari.

    Insinua l’indice sotto la corda che sottende il lembo anteriore della valvola mitralica. Sente il tessuto sottile, sa che potrebbe spezzarlo con facilità, ma sa anche che potrebbe sollevare l’intero cuore appeso a quel filamento dall’apparenza delicata.

    Il cuore umano è fatto per resistere, per contrarsi e rilasciarsi sessanta o settanta volte al minuto, ogni minuto, per tutta la vita di una persona.

    Sfila i guanti che rimangono appallottolati per un attimo come spiacevoli grumi marroni sull’orlo del tavolo. Poi uno cade a terra. Con l’indice nudo percorre il tessuto del muscolo cardiaco. Affonda l’unghia nella carne morta, e la graffia.

    Sente un’emozione gonfiargli il petto. È bellissimo. Tutto quel che sta facendo è bellissimo. Quel cuore è bellissimo. Potrebbe farne un disegno, appenderlo da qualche parte e guardarlo ogni giorno.

    Forse lo farà.

    Adesso però c’è altro di cui occuparsi. Alza la testa e ascolta. Nulla proviene dalle camere che si affacciano sul corridoio di pietra alle sue spalle. Nessun rumore dai piani superiori.

    Lui sa che nel sottosuolo le mura antiche sono ancora più massicce, e che la pietra non propaga il suono. Sa che ci sono porte di legno pesanti come ferro e che alcune delle camere sono insonorizzate. È difficile che un rumore possa filtrare, ma lui ascolta lo stesso, e sorride soddisfatto al silenzio. L’odore dell’alcol aleggia lieve nell’aria.

    L’Anatomista dilata le narici, aspira l’aria fredda e increspa le labbra. Fra poco andrà a controllare, ma non ha fretta.

    Non ha bisogno di affinare l’arte della pazienza, ha imparato da molto tempo ad aspettare.

    Capitolo 8

    Durante il mese di dicembre San Gregorio Armeno, nel cuore della città vecchia, vive di vita propria, un’esistenza sovraffollata e turbolenta.

    Il resto dell’anno non è altro che una strada incuneata tra vecchi palazzi, antiche chiese con freschi claustri odorosi di fiori e botteghe anonime che si affacciano sull’acciottolato dissestato. Un percorso in discesa, oppure in salita, a seconda di come lo si guardi, che si inoltra nel ventre della città. Una strada come le altre.

    Nel periodo che precede il Natale, invece, si trasforma in un microcosmo brulicante di esseri umani e mercanzia, il cuore pulsante della città. Ogni negozio vomita sulla strada bancarelle stracolme di merce, e la gente si incanala in una fiumana continua di corpi in movimento su e giù per la strada stretta e affollatissima. Orde di passanti vi sono calamitate fin dalla mattina presto, con le macchine fotografiche e i portafogli ben stretti in mano. Guardano la mercanzia, la valutano, contrattano e si fanno trasportare dalla fiumana di altre persone in un estenuante percorso obbligato.

    A San Gregorio Armeno si vendono pastori. Pastori di terracotta per il presepe, di dimensioni che vanno da pochi millimetri a statue grandi più di un metro. In ogni casa della città a Natale c’è un presepe che aspetta di venire decorato e abbellito con nuove casette di sughero e piccoli personaggi in terracotta.

    Dicembre è il mese giusto per comprare tutto quello che serve.

    Ovviamente è anche il mese in cui San Gregorio Armeno si trasforma in un girone dell’inferno.

    Non era certo il posto ideale per dare appuntamento a qualcuno, ma Gianuaria ha lavorato lì, e quella è la ragione per cui ora Mitzi procede a spintoni tra la gente indaffarata e chiassosa.

    Al momento la donna è ricoverata in una struttura protetta, da dove in teoria non potrebbe uscire se non accompagnata. Quel giorno Mitzi avrebbe dovuto incontrarla per il quarto colloquio dall’inizio della terapia. Nell’attesa che le indagini sulle morti dei suoi figli maschi fossero completate, il giudice aveva infatti stabilito che venisse seguita, anche per evitare che tentasse il suicidio.

    Fin dal primo incontro Mitzi si era resa conto che la possibilità che la donna si facesse del male era remota. D’altra parte, aveva appreso con sollievo che la piccola Gemma era stata sottratta alla tutela materna.

    La bambina l’aveva vista in una serie di foto scattate durante l’ultimo ricovero. Aveva grandi occhi neri e pensosi e sembrava molto più piccola dei suoi anni. Una corona di lividi le segnava le gambe magre. Era difficile provare compassione per sua madre, fissando lo sguardo vecchio e rassegnato e il corpicino gracile e tumefatto di sua figlia.

    Morti i due bambini più piccoli, a Gianuaria era rimasta la primogenita, Gemma, che nonostante l’apparenza era evidentemente di costituzione robusta.

    Si era fratturata un braccio, due dita di una mano e uno zigomo, era stata operata per un’appendicite acuta ed era sopravvissuta alla sua prima polmonite con complicanze pleuropericardiche, prima che un assistente sociale si iniziasse a insospettire.

    Mitzi aveva guardato più volte le copie delle cartelle cliniche, fotografie, referti ospedalieri e tutto il materiale documentale raccolto per ricostruire le vicende della disgraziata famiglia.

    Gianuaria e il suo amante erano stati presto incriminati, soprattutto dopo che il giudice per le indagini preliminari aveva fatto riesumare i due piccoli defunti. I cadaverini recavano tracce di maltrattamenti protratti nel tempo, e davanti all’evidenza delle prove fisiche i due avevano cominciato ad accusarsi a vicenda. Il giudice aveva disposto perizie psicologiche per entrambi. La bambina aveva fatto in tempo a perforarsi un timpano e ustionarsi la mano sana, prima di venire affidata a una casa-famiglia.

    Come era potuto succedere che ora si trovasse per strada con la madre, senza alcuna protezione? Mitzi non aveva tempo da perdere con inutili domande. Sapeva solo che Gemma era con ogni probabilità in pericolo, e che sua madre era l’ultima persona al mondo con cui avrebbe dovuto essere.

    Ma dove diavolo era Gianuaria? Mitzi si muoveva in una bolgia chiassosa e sudata di persone, un fiume in piena che scorreva senza sosta. Caparbiamente cercò di farsi largo tra i corpi per raggiungere la bottega dove la donna aveva lavorato fino al suo arresto. La poliziotta che in genere accompagnava la Esposito non rispondeva al cellulare e Mitzi non aveva il recapito del giudice e della struttura dove la donna avrebbe dovuto essere sotto sorveglianza.

    Il percorso lungo San Gregorio Armeno era un’ordalia di spintoni, gomitate, spallate contro spallate, soverchiato dal muggito persistente e sordo di centinaia di voci che cercavano di sopraffarsi l’una con l’altra. A fatica però si avvicinava sempre di più al negozio di cui Gianuaria le aveva parlato a lungo. Era una bottega di solida tradizione, situata verso la metà della discesa.

    A un certo punto le sembrò di scorgere più avanti, tra la folla, una figura femminile dai lunghi capelli neri. Era vicino a una bancarella stracarica di fontane di sughero e plastica da cui zampillavano piccoli getti di acqua. Non poteva esserne certa a quella distanza, ma le pareva che Gianuaria trascinasse qualcuno per mano.

    Correre era impossibile. Mitzi cercò di insinuarsi tra due persone davanti a lei, una donna strillò, l’uomo al suo fianco si girò con fare minaccioso. La donna stringeva la tracolla della borsa che Mitzi aveva inavvertitamente tirato. Passarono secondi preziosi per chiarire l’equivoco, ormai la testa bruna era scomparsa, ma poco più giù Mitzi riconobbe sull’insegna il nome del compagno di Gianuaria, Abbatangelo Pastori & Presepi. Un altoparlante diffondeva un canto natalizio inglese: God Rest Ye Merry Gentlemen. Era una musica del quindicesimo secolo che le piaceva molto e che ormai si sentiva dappertutto nel periodo di Natale.

    Solo pochi anni prima in quei vicoli sarebbe stato normale ascoltare Tu scendi dalle stelle o Quanno nascette ’o Ninno a Betlemme. La città impermeabile si sta contaminando, pensò con un involontario sorriso.

    Si precipitò nella bottega attraverso un uscio angusto. All’interno lo spazio era maggiore di quanto l’ingresso facesse supporre: il negozio era a conduzione familiare, una serie di stanzette con le pareti completamente coperte da scaffali stracolmi di statuette di terracotta di ogni forma, colore e dimensione. Alcuni commessi e molti clienti dialogavano a gesti cercando di capirsi nel chiasso che proveniva dalla strada. Un vecchio stava riordinando una mensola che ospitava pecore. Pecore accovacciate, in piedi, pecorelle, caproni, peliati, da statuine di mezzo centimetro fino a creazioni ben più grandi.

    «Cerco Gianuaria Esposito, mi è sembrato entrasse qui dentro. Lavorava per lei, vero?», chiese in affanno.

    «Chi, quella zoccola?». Il vecchio la squadrò torvo con occhi color carbone, poi si concentrò per allineare perfettamente una fila di pecore tutte uguali. La sua mano tremava leggermente. Dopo una pausa, continuò a voce più bassa. Il vociare degli avventori nel negozio copriva le sue parole e Mitzi riuscì a stento a sentire.

    «Mi ha rovinato un figlio. Un ragazzo che aveva un avvenire, e lei me lo ha rovinato. Sta in prigione, adesso, ma mio figlio quei bambini non li ha mai toccati». La guardò con occhi asciutti e fermi. «Quella è una creatura malvagia. Se rimette piede qua dentro la ammazzo con le mie mani».

    Le dita dalle nocche robuste strinsero il corpicino di un animaletto di terracotta e con un debole scrocchio spezzarono le gambe della bestia. Il vecchio guardò il danno con aria assente.

    «È un peliato, vede?». Le mostrò il piccolo tronco su cui erano dipinti peli radi. Sembrava un asinello glabro. «È uno scherzo di natura. Un incrocio. Un bastardo». Sputò le parole con disprezzo. «Porta scalogna. Come Gianuaria».

    Mitzi girò la testa freneticamente per il locale angusto. Eppure le era sembrato che Gianuaria entrasse proprio lì dentro. Davanti a lei si aprivano altre due salette di esposizione, si addentrò lasciando il signor Abbatangelo a contemplare le sue pecorelle. Un commesso le si avvicinò; aveva occhi scurissimi e lo stesso naso camuso del vecchio. Dalla somiglianza lei dedusse che si trattasse di un altro figlio.

    «Cercava qualcosa?», chiese con garbo.

    «No, stavo seguendo qualcuno, e mi è sembrato entrasse qui», rispose Mitzi incerta. «Lei la conosce, credo. Gianuaria Esposito. Mi ha detto che sarebbe venuta qui con sua figlia».

    Il volto del giovane si rabbuiò. «Non sarebbe la benvenuta. Ma non è in galera?».

    Mitzi stava per rispondere quando delle urla coprirono il chiasso del negozio. Dalla sala in fondo emerse un uomo che ne sorreggeva un altro in divisa. Il poliziotto era pallidissimo e il sangue che colava da una ferita sulla fronte gli aveva imbrattato tutta la camicia.

    «Era con Gianuaria Esposito e sua figlia?», gli chiese Mitzi. «Dove sono?», lo incalzò mentre lo facevano sedere su una sedia. I commessi respingevano le facce curiose che si affollavano nel negozio. Il trambusto era aumentato ancora, ma Mitzi non aveva occhi che per il poliziotto.

    «La figlia?», chiese l’uomo confuso. «La bambina non è qui. Non so dove sia. Gianuaria mi ha chiesto di accompagnarla a prendere delle valigie». Si tamponò la fronte dove sotto la ferita si stava gonfiando un bubbone violaceo. «Lo so, è stata una leggerezza da parte mia».

    La bambina era al sicuro, il pensiero attraversò rapido la mente di Mitzi. Gemma era in salvo e questa era la cosa più importante.

    «Siamo entrati nel negozio, c’era tanta gente e mi ha detto di aspettarla sopra. È andata nel retrobottega. Io volevo seguirla ma come uno stupido mi sono lasciato convincere». Chiuse gli occhi. Aveva un viso anonimo e il sangue accentuava il grigiore malsano della sua pelle. «È stata una leggerezza da parte mia».

    «Quella donnaccia è sempre molto convincente», ammiccò il giovane Abbatangelo in tono solidale.

    «Già». Il poliziotto non aveva la forza di annuire. «Mi aveva detto che gli Abbatangelo non volevano più tenere la sua roba. Due valigie in cantina. Ho fatto una stupidaggine, ma è una ragazza così dolce. Non immaginavo che avrebbe tentato di scappare».

    Suo malgrado Mitzi pensò che Gianuaria dovesse avere usato tutte le sue arti seduttive sul pover’uomo.

    «È stato tutto preordinato. Probabilmente si è organizzata con un complice».

    «Io non ho visto nessuno», sospirò il poliziotto, che evidentemente pensava alle ripercussioni sul lavoro. «Mi sono detto che tanto valeva farmi una sigaretta, mentre aspettavo, e sono uscito in strada». Si fermò, con aria confusa.

    Il colpo in testa doveva essere stato forte, Mitzi non voleva mettergli fretta, ma bisognava cominciare a cercare Gianuaria. E questo voleva dire scendere in cantina per trovare una traccia. Un brivido la scosse, ma non era di freddo.

    Il poliziotto continuò: «Poi, quando sono rientrato ho visto che dal retrobottega si scendeva in cantina. Ho pensato che le potesse servire aiuto, mi sono affacciato sulle scale. Non si vedeva molto bene e così sono rimasto in cima agli scalini. L’ho chiamata, non mi ha risposto. Volevo aspettare ancora, ma ho sentito un rumore provenire da sotto, e così ho deciso di scendere».

    «È stato imprudente da parte sua».

    L’uomo si passò una mano sulla guancia e guardò il sangue che la chiazzava. «Ora lo so». Tirò un grosso respiro. «È successo tutto molto in fretta. Ero sulle scale quando la luce si è spenta. Qualcosa mi ha colpito e sono caduto».

    «Ne è sicuro?»

    «Non lo so», confessò sconsolato, la testa china a scrutarsi le mani sporche di sangue con aria incredula. «Sono ancora confuso, è stato molto veloce, non ho avuto il tempo di capire niente». Sospirò. «Un attimo prima stavo scendendo per gli scalini con una luce fioca, quello dopo ero al buio per terra. Forse sono inciampato e solo dopo ho battuto la testa».

    «È sotto shock», intervenne l’uomo che l’aveva sorretto e che si era allontanato per telefonare. «Ho chiamato un’ambulanza, sarà qui a momenti».

    Mitzi ne dubitava. San Gregorio Armeno avrebbe opposto una muraglia invalicabile di corpi a qualunque mezzo avesse cercato di penetrarvi.

    «È sceso giù in cantina?», chiese all’uomo che sembrava un altro componente della numerosa tribù degli Abbatangelo.

    «No, solo la prima rampa. La porta era aperta e mi sono avvicinato per chiuderla. Ho sentito un lamento e mi sono affacciato». La guardò con un’espressione imbarazzata. «Soffro un po’ di claustrofobia, ma avevo sentito un altro gemito, e così… Non si vedeva niente e ho inciampato sul suo corpo dopo la prima svolta, così l’ho riportato sopra. Si deve essere fulminata la lampadina».

    «Mi accompagna? Voglio vedere se le valigie ci sono ancora o se Gianuaria le ha portate via».

    «Quali valigie?», chiese l’uomo, e Mitzi avvertì una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco.

    Sulle scale lui le cedette il passo e le consegnò una torcia elettrica. Mitzi andò avanti e si accorse che era rimasto qualche scalino oltre la soglia, riluttante a spingersi più in basso.

    Non poteva dargli torto. Il sotterraneo davanti a lei era tenebroso come una bocca infernale. Oscure reminiscenze le si agitarono nella mente, come ali di uccelli impazziti dal terrore che volano in una stanza buia. Non voleva scendere là sotto. Non voleva ritrovarsi in trappola, non più.

    Mitzi sei una stupida. Sentì la propria voce nelle orecchie, come se fosse reale. Non hai nulla da temere. È solo la cantina di un negozio. Non c’è nessuno lì sotto.

    «La aspetto qui, va bene?». La voce di Abbatangelo le arrivò distorta come se fosse lontanissimo. «Se non torna tra qualche minuto però la vengo a salvare!».

    Mitzi non trovò lo scherzo divertente, ma la polizia sarebbe arrivata a breve, e Gianuaria era sotto la sua responsabilità.

    Riprese a scendere, ripetendosi che non c’era rischio di restare intrappolata nelle viscere di quella cantina. Nessun rischio.

    Percorsi pochi metri, il buio era denso, freddo e umido di muffa. Gli scalini erano leggermente scivolosi. Si teneva con la mano destra al corrimano di ferro, mentre con la sinistra scandagliava lo spazio davanti a sé con una torcia elettrica. Il gelo le serrava le dita in una morsa. Il raggio di luce mostrava ora la parete di fondo scrostata e macchiata, ora il pavimento ingombro di scatoloni di cartone, un po’ più in basso. Un’ombra saettò veloce appena oltre il cono luminoso, la mano le tremò illuminando una sagoma contorta che dopo un attimo Mitzi riconobbe come un canterano dai cassetti divelti e semiaperti. La cantina si spalancava come una bocca tenebrosa sotto di lei.

    Alla svolta urtò con lo stivale qualcosa di morbido. Temette fosse un topo, ma il raggio di luce della torcia le mostrò un mucchietto di stracci sporchi.

    Proseguì nella discesa facendo saettare la torcia qua e là.

    In lontananza percepì il suono della sirena di un’ambulanza. Il mondo là sopra brulicava di persone, di vita e di luce. Fece un grosso respiro. L’odore di muffa e umidità le risvegliava sensazioni del passato.

    Arrivò al pavimento di terra battuta prima di quanto si aspettasse e continuò a tastare avanti col piede cercando un altro scalino. Una muraglia di oscurità le si parava davanti, e il raggio di luce della torcia non riusciva a penetrare che in minima parte. La sua mano tremante lo faceva oscillare, mettendo in evidenza ora un’arcata semi dirupata, ora una catasta di quelle che sembravano vecchie brandine di ferro, ora un angolo ingombro di scatoloni e detriti. Mitzi fece pochi passi esitanti, e con la coda dell’occhio vide qualcosa che la torcia aveva inquadrato di sfuggita.

    Un corpo riverso al suolo, esile come quello di un bambino. Le gambe fasciate nei leggins di jeans erano contorte in modo innaturale, i capelli neri e lunghi e una maglia metà chiara e metà scura. Una mano bianca e tesa artigliava il terreno con le dita contratte da un ultimo spasimo. La torcia illuminò spietatamente le nocche sbiancate come se le ossa avessero bucato la pelle. Non c’era bisogno di essere medici per capire che Gianuaria Esposito era morta contorcendosi nella polvere.

    Mitzi le si inginocchiò accanto, e si rese conto che la maglia che la donna indossava, di un tessuto originariamente chiaro, era impregnata dal sangue denso e scuro che ancora colava lentamente dalle ferite profonde sul torace e sull’addome. Non riuscì a contare quante fossero.

    Capitolo 9

    «Che cosa?», la gradevole voce baritonale di Pietro Gnarra era salita di un’ottava.

    «Sei impazzito Durso? Perché pensi di accettare? È una dilettante, con una storia devastante alle spalle, e tu la vuoi inserire nell’indagine sul serial killer peggiore degli ultimi dieci anni? Devi essere per forza impazzito nelle ultime ventiquattro ore e io non me ne sono accorto».

    «A rigor di termini non lo si può ancora definire un serial killer, Pietro». Nulla nell’espressione del viso di Durso lasciava supporre che si stesse divertendo.

    Gnarra passeggiava su e giù lungo lo stretto perimetro della stanza. Durso rimase immobile, seduto con le braccia rilassate, e l’altro a poco a poco si calmò.

    «Non sei pazzo». Sospirò a malincuore dopo averlo osservato per un po’. «Siccome sono un ottimo profiler me ne sarei reso conto». E con un sospiro si sedette sulla poltroncina di fronte alla scrivania. «E allora se non sei pazzo, spiegami». Il ciuffo ribelle di capelli neri gli cadeva sulla montatura degli occhiali. Durso sapeva che ci vedeva benissimo, ma li usava per vezzo. Gnarra sorrise: «Allora? Come ti sta ricattando Giamundo?»

    «Sicuramente in questa città può ostacolarci moltissimo, se vuole», disse lo psichiatra con noncuranza.

    «Ma questo non ti ha mai impedito di fare quello che vuoi». Pietro non si sarebbe fatto ingannare facilmente.

    «Diciamo che mi sembra di poter utilizzare in maniera conveniente questo nuovo membro in aggiunta alla Squadra». Durso si concesse un sorriso a labbra strette.

    «E allora», Gnarra sorrise di rimando e per un attimo i suoi denti bianchissimi lo resero simile a un lupo affamato, «che Dio aiuti questa piccola dottoressa Gentile!».

    Capitolo 10

    Seduta sotto l’obelisco nella monumentale Piazza del Gesù Nuovo, Mitzi cercava di riprendere il controllo per potersi rimettere alla guida della sua auto. Le strade attorno erano transennate, la gente era stata convinta con grande difficoltà ad allontanarsi da quel dedalo di viuzze per permettere alla polizia di svolgere il proprio lavoro, ma lì nella piazza tutto era all’apparenza normale.

    Gli studenti di un liceo classico delle vicinanze sciamavano nella piazza barocca, confondendosi con i ragazzi del centro sociale che poco più giù si riconosceva per le mura imbrattate di disegni vivacemente colorati con lo spray. Nessuno sapeva che poco distante da lì era stata massacrata una giovane donna, ma probabilmente la notizia avrebbe lasciato indifferenti quei ragazzi che, seduti sotto l’Obelisco dell’Immacolata, gesticolavano e vociavano, concentrati sulle vacanze natalizie che cominciavano proprio quel giorno.

    Mitzi avvertì la ben nota sensazione di rabbia e di impotenza. Aveva capito subito che sarebbe stato meglio non accettare quella paziente, ma in quel momento non le era di alcun conforto ricordarlo.

    Gianuaria Esposito era una donna graziosa, una brunetta vivace con un dolce sguardo ceruleo che dimostrava molto meno dei suoi ventinove anni. L’aspetto da ragazzina indifesa non poteva però cancellare le cartelle cliniche dei suoi bambini, i referti che parlavano di fratture trascurate, febbri non curate, iniezioni inutili, e tanti altri orrori.

    Durante l’ultimo incontro era stata accompagnata da una poliziotta imponente e silenziosa che si era sistemata in fondo allo studio a braccia incrociate, una donna alta e massiccia poco incline al sorriso. Vicino a lei Gianuaria sembrava ancora più giovane e fragile.

    Aveva guardato Mitzi con aria dimessa, stringendosi nel maglione largo come se avesse freddo.

    «Dottoressa Gentile, quando potrò riabbracciare mia figlia?»

    «Non lo so Gianuaria, vedremo cosa dirà il giudice», aveva risposto lei con tono neutro, senza fissarla negli occhi grandi e supplichevoli.

    «Ma il suo parere sarà determinante, vero dottoressa? Ho così bisogno di abbracciare la mia piccina!».

    E di ustionarle l’altra mano, aveva pensato Mitzi. Oppure farle ancora iniezioni di acqua e sale tra le dita dei piedi.

    «Vedremo fra qualche altro incontro», aveva ripetuto cercando di non manifestare il senso di ripugnanza che provava.

    Il suo ruolo nei confronti di quella donna era di tutela psicologica. Dopotutto era una malata, ma l’ipotesi che stava formulando lasciava poco spazio di manovra. La Sindrome di Munchausen per procura è infida e di difficile evidenziazione, ma in quel caso Mitzi era quasi certa della sua diagnosi.

    «È così delicata. Ho paura che non la curino come si deve».

    La Esposito si lamentava torcendosi le mani. «Sa se le stanno facendo le sue siringhe di vitamine? Ne ha tanto bisogno!».

    Mitzi aveva letto dal referto medico che sulla piccola Gemma erano state riscontrate trentanove lesioni infette ascrivibili a iniezioni suppurate. Non aveva avuto nemmeno la forza di guardare le fotografie.

    «Ne riparleremo in una delle prossime sedute».

    Si era alzata in piedi imitata dalla donna. L’atteggiamento dimesso e la testa china non ingannarono però Mitzi, che aveva colto il lampo di odio feroce che le aveva arrossato per un istante gli occhi.

    «Quando sarò libera tornerò a trovarla, dottoressa Gentile. Verrò con la mia Gemma e le porterò un bel regalo». Gianuaria le aveva sorriso dolcemente uscendo con la poliziotta. Al ricordo Mitzi sentiva in bocca un sapore acido che non se ne sarebbe andato via tanto facilmente.

    Sapeva bene che la Munchausen per procura era una delle patologie mentali più subdole, per la giovane età delle sue vere vittime. In quella infida variante un genitore, in genere quello di sesso femminile, infligge ferite e provoca malattie ai figli indifesi perché ha un bisogno patologico di attenzione. Bisogno spasmodico di poter essere considerata una madre coraggiosa e sventurata. Gianuaria non era un’eccezione.

    Adesso era morta, e forse Gemma, crescendo, l’avrebbe ricordata come una mamma normale, ma il mistero del suo omicidio non sarebbe stato semplice da risolvere.

    Le ultime ore non erano state facili per Mitzi. Era stata ripetutamente interrogata da un poliziotto supponente e di bell’aspetto che aveva requisito il negozio di pastori e vi si era acquartierato con una schiera di tecnici della Scientifica e altri uomini in divisa e in borghese che si muovevano nello spazio angusto. Il vecchio Abbatangelo con le mani nei capelli, rintanato in un angolo, continuava a biascicare: «Quella zoccola! Quella grande zoccola è venuta a farsi ammazzare proprio qua!».

    Una scena surreale cui a Mitzi non era parso vero di sottrarsi. Il poliziotto arrogante era stato interrotto mentre le chiedeva per la quinta volta come mai si fosse trovata lì proprio al momento giusto per scoprire il cadavere della sua paziente. Sembrava pensare che Gianuaria l’avesse uccisa lei. Un altro poliziotto gli si era avvicinato: «Ranieri! C’è il giudice. Dice di non toccare nulla. Stanno arrivando quelli».

    Ranieri si era girato con un moto di fastidio e Mitzi, seguendo il suo sguardo, aveva intravisto un vecchio dall’aria arcigna scortato da due uomini in divisa.

    Il poliziotto l’aveva congedata frettolosamente, affidandola a un tecnico della Scientifica che le aveva preso le impronte e registrato i suoi dati. Mentre si puliva le mani chiazzate dall’inchiostro, Mitzi aveva girato la testa e si era resa conto che gli occhi malevoli del vecchio giudice, e quelli scuri e corrucciati di Ranieri, la stavano fissando con insistenza, mentre confabulavano.

    Se ne era andata di corsa prima che decidessero di trattenerla.

    Ora, sotto l’obelisco, Mitzi stentava a comprendere in cosa si fosse trovata coinvolta.

    Per un momento, sugli scalini immersi nel sole, la cantina umida con il corpo di Gianuaria le sembrò lontanissima. Chiuse gli occhi e cercò di catturare sul viso tutto il calore di quella tiepida giornata di dicembre.

    Dall’altra parte della piazza qualcuno la osserva. La piccola dottoressa non sarà una bellezza tradizionale, ma ha degli zigomi perfetti che sostengono tutta la delicata architettura facciale del suo viso. E le palpebre! L’Anatomista è sempre stato particolarmente sensibile al fascino delle palpebre chiuse, a quel lieve rigonfiamento che fa supporre ci possa essere una lacrima annidata dietro, al fremito che lascia immaginare che stiano per schiudersi.

    Le figure marmorizzate conservate nella Cappella del principe stregone hanno palpebre così realistiche. Sembra quasi che i loro occhi si muovano nel sogno. La cappella è vicina, forse scenderà a fare un giro tra le magnifiche creazioni del principe, per trarre ispirazione. Gli piacciono le palpebre chiuse, ha guardato per ore il volto immoto e bianco di Cecilia, prima di decidersi a lasciarla andare.

    Il fatto che lui sia affascinato dall’interno del corpo umano non significa che non sia in grado di apprezzare l’esterno.

    Cecilia era bellissima, appoggiata al parapetto sul lungomare, con i lunghi capelli neri che danzavano davanti al suo viso quasi volessero trascinarla in acqua. Gli ha sorriso per un istante, prima che i

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