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L'amore arriva sempre al momento sbagliato
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E-book339 pagine4 ore

L'amore arriva sempre al momento sbagliato

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Info su questo ebook

Se questo libro ti cambiasse la vita lo leggeresti lo stesso?

N°1 negli Stati Uniti

Ashlyn Jennings è una studentessa modello. Ama follemente leggere, soprattutto i drammi di Shakespeare, dentro i quali, spesso, cerca risposte alle domande che la vita le pone. E adesso di punti interrogativi ne ha molti, dato che ha appena perso sua sorella gemella e, come se non fosse abbastanza, sua madre è caduta in una grave depressione. Ashlyn deve andare a vivere con suo padre e la sua nuova famiglia nel Wisconsin. La devasta anche solo l’idea di trascorrere l’ultimo anno di scuola lontana dai compagni di classe, ma non può che fare le valigie. In viaggio verso la sua nuova casa incontra per caso Daniel Daniels, un uomo distrutto. Lui ha subìto due grandi perdite nella sua vita e sta cercando di rimettersi in sesto. Pensa a tutto meno che a trovare l’amore, ma l’incontro con Ashlyn è qualcosa che va oltre le semplici leggi della chimica. Entrambi cercano di dimenticare quello che hanno provato quel giorno, finché non si “scontrano” a scuola, dove essere allieva e professore non facilita affatto le cose…

Il libro più consigliato dai blogger americani

Uno strabiliante contagioso successo internazionale

Uno sguardo difficile da dimenticare, un’attrazione che non è solo questione di chimica

«Sigh. Che cosa posso dire? Che ho un enorme hangover da lettura e le lacrime (di felicità) sono ancora sul mio viso. Una storia veramente commovente che fa esplodere il cuore in mille pezzi per poi rimetterli insieme. Sicuramente un libro che è necessario leggere (anche più volte).»

«Questo è il tipo di storia che ti rimane nel cuore per molto tempo dopo che hai finito di leggerla. Brittainy C. Cherry ha scritto uno splendido romanzo e non vedo l’ora di vedere cosa ha in serbo per il futuro!»
Brittainy C. Cherry
È rimasta incantata dalle parole fin dal momento in cui ha fatto il primo respiro. Si è laureata alla Carroll University in Teatro e in Scrittura creativa. Brittainy vive a Milwaukee nel Wisconsin con la famiglia. È un’autrice di culto del genere Young e New Adult.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2016
ISBN9788854192454
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    L'amore arriva sempre al momento sbagliato - Brittainy Cherry

    Capitolo 1

    Ashlyn

    La morte non fa paura,

    la morte non è una maledizione.

    Avrei solo voluto che prendesse me per primo.

    Romeo’s Quest

    Oggi

    Mi sedetti su una delle panche più lontane, in fondo alla chiesa. Odiavo i funerali, ma d’altronde non c’era da stupirsene, no? Chissà se c’erano davvero persone che apprezzavano questo genere di cerimonie. Persone che partecipavano ai funerali come fosse un hobby, e che non si lasciavano sfuggire l’occasione di una bella ventata di tristezza. Che spasso, eh?

    Va bene. Va bene, adesso smettila.

    Ogni volta che mi si avvicinava qualcuno, la stessa storia. Ogni volta intravedevo quell’attimo di timore e titubanza, la malcelata convinzione di trovarsi di fronte a Gabby. «Stia tranquillo, non sono lei», sussurravo, prima che la persona in questione potesse fare qualcosa di avventato. «Non sono lei, no…», ripetevo tra me e me, agitandomi sulla panca di legno.

    Da bambina ero stata molto male, e dai quattro ai sei anni ero entrata e uscita dall’ospedale. Avevo un buco nel cuore, o qualcosa del genere. Dopo molte operazioni chirurgiche e innumerevoli preghiere, ero riuscita finalmente a tornare a una vita normale. Mia madre, all’epoca, era stata convinta che stessi per morire, e probabilmente adesso era delusa dal fatto che fosse invece toccato a Gabby, anziché a me.

    Quando aveva saputo della malattia di Gabby, nostra madre aveva iniziato a bere. Certo, faceva di tutto per tenercelo nascosto, ma ci avevo messo poco a scoprirlo. Una sera ero entrata in camera sua per controllare che stesse bene: l’avevo trovata in lacrime, scossa dai singhiozzi, sdraiata tra le lenzuola. E quando mi ero avvicinata per abbracciarla, ero stata letteralmente travolta dall’odore di whiskey.

    Non mi ero stupita però: mia madre non se l’era mai cavata bene nelle situazioni difficili, e l’alcol era sempre stato la sua soluzione preferita per affrontare i problemi. Si era spesso ricoverata per disintossicarsi, e quando accadeva io e Gabby eravamo costrette a trasferirci dal nonno: non conservo un bel ricordo di quei periodi. Dopo l’ultima volta aveva promesso che ci avrebbe dato un taglio, per sempre.

    In chiesa, mia madre sedeva in prima fila accanto a Jeremy, il suo compagno, l’unica persona in grado di assicurarsi che si lavasse e si vestisse tutte le mattine. Non ci eravamo parlati granché prima del funerale: la malattia di Gabby ci aveva reso tutti egoisti. Mia madre aveva sempre preferito mia sorella a me, e non era un segreto: Gabby aveva i suoi stessi gusti, le piacevano le creme di bellezze e i trucchi, i reality in tivù. Quando Gabby e la mamma stavano insieme non facevano altro che ridere e divertirsi un mondo, mentre io mi rintanavo sul divano, chiusa in camera, a leggere i miei libri.

    I genitori dicono sempre di amare tutti i propri figli incondizionatamente e di non avere un preferito, ma questo è impossibile, perché a volte capita che un figlio ti assomigli a tal punto da poter quasi giurare che Dio lo abbia creato a tua immagine. Ecco, questo era il caso di Gabby e di mia madre. Ma succede anche che ti venga fuori una figlia che, nel tempo libero, legge il dizionario perché trova le parole divertenti. Indovinate di chi sto parlando, invece?

    Mia madre mi voleva bene, certo, ma non le andavo a genio, ne ero sicura. Per me non era un problema, perché ci pensavo io a colmare questa lacuna con il mio affetto, che valeva doppio.

    Jeremy era un uomo perbene e mi chiesi se sarebbe stato in grado di restituirmi la madre di un tempo, quella che avevo conosciuto prima della malattia di mia sorella. Quella che rideva sempre. Che riusciva a sopportarmi, anche se eravamo come il giorno e la notte. Che mi voleva bene, anche se non le andavo a genio. Quella mamma che mi mancava così tanto.

    Sospirai, grattandomi via lo smalto nero dalle unghie delle mani. Il sacerdote continuava a parlare di Gabby come se la conoscesse, ma in realtà non l’aveva mai vista. Non eravamo mai andate in chiesa, ed era ipocrita che il funerale si svolgesse proprio lì. Mia madre diceva sempre che la chiesa era dentro di noi e che Dio si poteva trovare in ogni cosa, per cui non c’era ragione di recarsi in un posto specifico ogni domenica. Probabilmente intendeva solo dirci: Be’, io la domenica preferisco dormire.

    Mi mancava il respiro. Non sarei riuscita a rimanere in quella chiesa un minuto di più. Per essere un luogo di fede e di preghiera, era così soffocante. Quando attaccarono l’ennesimo inno, pensai, ommioddio, ma quanti inni esistono?! Poi mi voltai impaziente verso l’entrata e infine mi decisi: mi alzai e uscii. La calura estiva, quell’anno più opprimente che mai, mi schiaffeggiò all’improvviso e prima ancora di poter raggiungere i gradini della chiesa grondavo già sudore. Mi sistemai il vestito nero che ero stata obbligata a indossare e cercai di non barcollare sui tacchi dall’altezza non proprio familiare.

    La mise era stata una scelta di Gabby in persona (quando era ancora in vita, naturalmente). Qualcuno potrebbe pensare che per me fosse strano indossare proprio quel vestito, ma mia sorella era fatta così, non c’era da stupirsi. Diciamo che era un po’ ossessionata da queste cose. Parlava della sua morte da sempre, da prima ancora di ammalarsi, e desiderava che al suo funerale fossi più bella che mai. Il vestito mi stringeva un po’ sui fianchi, ma non mi lamentavo. Con chi avrei potuto farlo, d’altra parte?

    Mi sedetti in cima alla scalinata della chiesa e mi appoggiai ai gomiti. Che noia, i funerali. Osservai una formica muoversi a zig zag sul gradino, spaventata e confusa, senza un istante di tregua. «Be’, sembra proprio che io e te abbiamo tante cose in comune, Signora Formica».

    Mi riparai gli occhi con una mano e alzai la testa al cielo azzurro. Stupido cielo azzurro, sembrava così contento! Nonostante la mano, il sole riuscì ugualmente a raggiungermi e a scaldarmi, infiammandomi di rimorso e senso di colpa.

    Abbassai la testa e fissai con attenzione il cemento dei gradini, muovendo nervosa la punta dei piedi. Non ne ero sicura, ma sospettavo che la solitudine fosse una malattia. Una malattia disgustosa e contagiosa, che si insinuava lentamente nell’organismo e finiva per sconfiggerti, anche se facevi di tutto per combatterla.

    «Disturbo?», chiese qualcuno dietro di me. Questa è la voce di Bentley o sbaglio?

    Mi voltai e lo vidi lì, in piedi, con una specie di portagioie di legno tra le mani. Mi sorrise, ma i suoi occhi sembravano tristissimi. Diedi un colpetto sul gradino accanto a me, e lui fu rapido ad accettare il mio invito silenzioso. Gabby aveva scelto anche l’abito di Bentley, che indossava una giacca blu sopra una T-shirt sdrucita dei Beatles. Probabilmente la gente in chiesa aveva disapprovato quell’accostamento bizzarro, ma Bentley se ne fregava di quello che pensavano gli altri. A lui importava solo di una ragazza, e di quello che voleva lei.

    «Come va?», chiesi, posandogli una mano sul ginocchio.

    Mi guardò dritto negli occhi e abbozzò una risata mesta, ma entrambi sapevamo che stava soffrendo. Povero ragazzo. Prima che potessi dire qualcosa, posò la scatola di legno accanto a sé e si nascose il volto tra le mani, poi si raggomitolò in posizione fetale sui gradini. Mi pareva quasi di sentire distintamente il rumore del suo cuore che andava in mille pezzi. Avevo visto Bentley piangere una volta sola, prima di quel momento, ed era stato quando era riuscito a trovare i biglietti per il concerto di Paul McCartney. Ma quella volta aveva pianto di gioia.

    Vederlo in quello stato mi fece sentire impotente, mentre l’unica cosa che avrei voluto fare era prendere tutto il suo dolore e scaraventarlo fuori dal suo corpo, lontano da lì, per sempre.

    «Mi dispiace tanto, Bentley», sussurrai mentre lo cingevo con le braccia.

    Lui singhiozzò ancora per qualche istante, poi si strofinò gli occhi. «Sono un cretino, scusami. Mi sono lasciato completamente andare. L’ultima cosa di cui hai bisogno è vedere qualcuno ridotto in questo stato. Perdonami, Ashlyn», si scusò. Era il ragazzo più dolce che avessi mai incontrato. Ed è sempre un peccato quando ragazzi come lui soffrono, perché il loro cuore è più sensibile di quello degli altri.

    «Non devi scusarti con me». Intrecciai le dita e mi posai il mento sulle mani.

    Bentley si sporse verso di me e mi diede un colpetto sulla spalla. «E tu come stai?», chiese, rivolgendomi il suo solito sguardo premuroso. Se solo mia sorella avesse potuto vedere quanto era preoccupato per me, si sarebbe sciolta. Forse da dove si trovava in quel momento, nell’altra vita, insieme a Tupac e alla mamma di Nemo, adesso stava sorridendo soddisfatta.

    Il semplice pensiero che non fossi l’unica a soffrire mi fece stare subito meglio. Per Gabby, Bentley aveva significato il mondo intero, ma per lui Gabby era stata il mondo intero. Lui aveva due anni più di noi. Lo avevamo incontrato alle superiori, quando era al terzo anno. Gabby era al secondo e io ancora al primo, perché ne avevo perso uno per via della malattia.

    Nel giro di poche settimane, Bentley sarebbe ripartito per il Nord, dove avrebbe cominciato il secondo anno di college. Studiava medicina, cosa alquanto ironica, visto che in quel preciso momento stava soffrendo per una ferita che nessuna cura avrebbe potuto guarire.

    «Tutto bene, Bent». Era una bugia, e lui lo sapeva, ma andava bene così. Non mi avrebbe fatto altre domande. «Hai visto Henry, dentro?», chiesi, lanciando una breve occhiata al portone della chiesa.

    «Sì, ci siamo scambiati due parole. Gli hai parlato?»

    «No, e non ho parlato nemmeno con mia madre. Non ci parlo da giorni, a dire il vero». Bentley colse il tremolio nella mia voce, e mi attirò a sé per confortarmi con un abbraccio.

    «Tua madre è solo molto triste, ma non è cattiva e non vuole ferire nessuno, credimi».

    Sfiorai con le dita i gradini, tastando la superficie ruvida con i polpastrelli. «La mamma avrebbe preferito che fosse successo a me», mormorai. Una lacrima mi scivolò sulla guancia e guardai Bentley: sembrava molto colpito da quelle parole. «Non riesce nemmeno a guardarmi perché… be’, sono la gemella cattiva, quella che è sopravvissuta».

    «Cosa dici!», esclamò indignato. «Ashlyn, non c’è niente di cattivo in te».

    «Come fai a dirlo?»

    «Be’, sai», raddrizzò la schiena e mi rivolse un sorriso smagliante, «sono un dottore, io. Quasi». Non potei fare a meno di ridere. «E per essere precisi… L’ultima volta che io e Gabby abbiamo parlato, non faceva altro che ripetere quanto fosse felice che non fosse capitato a te».

    Mi morsi il labbro inferiore, cercando di ricacciare indietro le lacrime. «Grazie, Bentley».

    «Ci mancherebbe, amica». Mi strinse a sé un’ultima volta. «E adesso, passiamo alla cosa più importante». Prese la scatola di legno che aveva posato accanto a sé, la sollevò e me la mise in grembo. «Da parte di Gabby. Mi ha detto di dartela e riferirti di aprirla dopo il funerale, stasera. Non so cosa contenga. Non me l’ha svelato. So solo che è per te».

    Guardai la scatola di legno: era una specie di scrigno, che accarezzai piano con i polpastrelli. Cosa poteva esserci dentro? Perché era così pesante?

    Bentley si alzò e si infilò le mani in tasca, poi fece qualche passo verso la chiesa. Udii il battente del portone che si apriva e poi il rumore dei singhiozzi, fino a quel momento confinato all’interno, si riversò fuori, giungendo fino alle mie orecchie. Non alzai lo sguardo, ma sapevo che Bentley era ancora lì.

    Si schiarì la gola e si prese qualche momento prima di parlare. «Stavo andando da lei per chiederle di sposarmi».

    Lo scrigno di legno mi premeva contro le cosce, e sul mio viso sentii il calore penetrante del sole estivo, che mi riversava addosso la sua luce. Senza voltarmi, annuii. «Lo so».

    Fece un profondo sospiro, poi si voltò e rientrò in chiesa. Io rimasi seduta ancora un po’, chiedendomi se il sole di quel pomeriggio mi avrebbe sciolto in un mucchietto insignificante di ossa, proprio lì, sui gradini. La gente gravitava intorno alla chiesa, eppure nessuno mi prestava attenzione. Erano tutti troppo occupati a vivere la propria vita per notare la mia che, in qualche modo, si era fermata.

    Il portone della chiesa si aprì di nuovo: era Henry stavolta. Non disse niente e si sedette abbastanza lontano per evitarmi l’imbarazzo di quel momento. Si frugò nelle tasche, tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne accese una. Una nuvoletta di fumo gli uscì dalle labbra, e per un istante fui rapita dalle volute ipnotiche che si levavano per aria prima di dissolversi.

    «Non credi sia di cattivo gusto fumare sui gradini di una chiesa?».

    Henry scrollò un po’ di cenere dalla sigaretta prima di parlare. «Be’, visto che hanno appena seppellito una delle mie figlie, penso proprio di potermi concedere una sigaretta qui, sui gradini, e fanculo a tutti. Almeno per oggi».

    Risi, e il sarcasmo pervase ogni centimetro della mia voce. «Mi sembra coraggioso da parte tua chiamarci figlie dopo diciotto anni di telefonate una volta l’anno, il giorno del nostro compleanno, e la cartolina di rito a Natale». Senza contare che era passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che era venuto a trovarci dal Wisconsin, dove abitava.

    Nella sua vita non aveva certo aspirato a ricevere il primo premio come papà dell’anno, e io ormai mi ero messa il cuore in pace. Arrivare proprio oggi e recitare il ruolo del padre in lutto però gli doveva costare fatica, nonostante se ne stesse lì a fumare sigarette.

    Si limitò a sospirare, evitando di rispondere. Rimanemmo seduti in silenzio, intenti a guardare la gente che passava. Quel tanto bastò per farmi sentire in colpa per averlo aggredito.

    «Scusa», mormorai. «Non intendevo ferirti», anche se non ce n’era bisogno perché non avrebbe reagito alle mie odiose provocazioni.

    Infine Henry mi parlò, rivelandomi la ragione per cui mi aveva raggiunto là fuori. «Ho parlato con tua madre. Sta passando davvero un brutto momento». Non spiccicai parola. Certo che stava passando un brutto periodo! La sua figlia preferita era morta! «Abbiamo deciso che è meglio se vieni a stare da me», proseguì. «Potrai frequentare il terzo anno nel Wisconsin».

    Stavolta risi di cuore. «Sì, certo, Henry». Almeno il suo senso dell’umorismo era ancora integro. Un senso dell’umorismo un po’ bizzarro, ma sempre divertente. Mi voltai verso di lui e scorsi un’espressione severa nei suoi occhi verdi, che avevano la mia stessa sfumatura di colore. Verdi, come quelli di Gabby. Mi si contrasse lo stomaco e iniziai a piangere. «Stai dicendo sul serio? Non mi vuole più?»

    «Non è proprio così…». Gli tremava la voce: aveva paura di farmi del male.

    Era proprio così, invece. Mia madre non mi voleva più con sé. Altrimenti perché avrebbe dovuto spedirmi nella terra delle mucche, del formaggio e della birra? Sapevo che stavamo passando un periodo terribile, ma succede inevitabilmente a tutte le famiglie dopo un lutto. Si soffre. Si cammina sui pezzi di vetro. Si grida, quando non se ne può più, e poi si piange anche, e si battono i piedi. Si crolla. Tutti insieme, però.

    Il mal di stomaco delle settimane precedenti rifece capolino; mi sentii svenire, e mi disprezzai. Non farlo davanti a Henry. Non cedere davanti a lui!

    Mi sollevai, stringendo lo scrigno di legno sotto il braccio sinistro. Mi spolverai il vestito sulla schiena con la mano destra e feci qualche passo verso il portone della chiesa. «Va bene», mentii, mentre ero già nel panico al pensiero di quello che mi aspettava. «In fondo… A chi importa essere buttato fuori di casa in un momento del genere?».

    * * *

    Era passata una settimana dal giorno del funerale, e mia madre era rimasta quasi sempre da Jeremy. A essere sincera, non era esattamente così che avevo immaginato di trascorrere le ultime settimane estive, piangendo da sola in casa, tutto il giorno. Era patetico, senza ombra di dubbio. La cosa positiva era che negli ultimi dieci minuti ero riuscita a non piangere. Una piccola vittoria.

    Percorsi il corridoio e mi appoggiai contro lo stipite di quella che una volta era stata la nostra camera da letto. Era lì, poggiato sulla mia cassettiera. Lo scrigno delle meraviglie. L’intera vita di Gabby, o perlomeno quella che aveva sognato di vivere un giorno, era in quella scatola. Me lo sentivo. Prendetelo per un sesto senso, o percezione extrasensoriale tra gemelli, ma io lo sapevo. Era una scatola di legno, piccola e semplice, e avrei dovuto aprirla la sera del funerale, e invece era rimasta lì, sul mobile: mi ero semplicemente limitata a fissarla, senza fare altro.

    La sollevai. Sul fondo trovai la chiave, la presi e mi spostai sul mio letto, all’angolo destro della stanza, lanciando un’occhiata triste al letto sulla parete opposta. Mi rannicchiai contro il muro e inserii la chiave nella serratura. Con il fiato sospeso, sollevai il coperchio, e subito le lacrime mi velarono lo sguardo. Con un gesto rapido mi asciugai gli occhi e inspirai a fondo, cercando di tornare a respirare normalmente. Due secondi. Non avevo pianto, negli ultimi due secondi. Un’altra piccola vittoria.

    Nella scatola c’erano tantissime buste da lettera. In cima campeggiavano una tonnellata di plettri della vecchia chitarra di Gabby. Era stata una musicista sorprendente, e aveva sempre cercato di insegnarmi a suonare quella sua maledetta chitarra, ma io ero riuscita soltanto a farmi venire i calli alle dita e perdere del tempo prezioso che avrei potuto impiegare per terminare il mio romanzo.

    Mi sentii subito male al pensiero di non essermi impegnata di più per renderla felice: Gabby invece aveva trovato il tempo di aiutarmi a portare avanti il libro, che altrimenti non avrei mai finito.

    In un angolino dello scrigno c’era un anello: l’anello di fidanzamento che le aveva dato Bentley. Lo accarezzai per un istante, prima di rimetterlo al suo posto. Bentley era la persona più vicina a un fratello che avessi mai avuto e gli augurai mentalmente di riprendersi presto, e così tornare a essere il ragazzo divertente e amorevole di sempre.

    Per il resto, c’erano solo lettere. Quintali di lettere. Le buste erano almeno quaranta, tutte numerate, contrassegnate da una frase e sigillate da un cuore disegnato a penna. Sulla prima c’era scritto: Leggimi per prima. Posai la scatola sul letto, la presi e lentamente la aprii.

    Cara sorellina,

    L’apparizione improvvisa di quelle parole scritte da Gabby mi lasciarono di sasso. Ero divisa in due: da un lato mi veniva da piangere alla vista di quella grafia così familiare, dall’altro mi scappava da ridere per come si rivolgeva a me: Cara sorellina. Alla nascita mi aveva battuto di soli quindici minuti, e non aveva mai smesso di farmelo notare, chiamandomi sorellina o mocciosa. Continuai a leggere, divorata dal desiderio di aprire subito tutte le lettere, dalla prima all’ultima, per sentirmi di nuovo in contatto con lei.

    Prima di tutto voglio dirti una cosa: ti voglio bene.

    Sei il mio primo amore, e il più profondo. Sì, so che queste lettere possono sembrare un po’ morbose, ma carpe diem, giusto?

    Ho chiesto a Bentley di raccomandarti di aprirle la sera del funerale, ma so che probabilmente avrai aspettato un giorno o due…

    «O sette», mormorai, e non potei fare a meno di sorridere quando lessi la riga successiva.

    O sette. Sai, mi sembra che abbiamo lasciato così tante cose in sospeso…

    Che ci siano così tante cose che non potremmo fare insieme!

    Mi spiace di non poter essere lì per il tuo diploma, per esempio.

    Mi spiace di non poter bere fino a svenire insieme a te alla festa dei nostri ventun anni.

    Mi spiace di non essere lì quando firmerai le copie del tuo primo libro.

    Mi spiace così tanto di non poter essere lì ad abbracciarti quando soffrirai per amore, e di non poter essere la tua damigella d’onore il giorno delle tue splendide nozze.

    Ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me, Ash.

    Ho bisogno che tu la smetta di sentirti in colpa.

    Subito! Falla finita, ci siamo capite?

    Ho bisogno che tu vada avanti. Sono io che sono morta, non tu.

    Ricordi? Quindi, alla pagina successiva trovi la lista delle cose che devi fare prima di morire. Già, ci ho pensato io a scriverne una per te, perché so che tu non lo faresti mai.

    Ogni volta che porterai a termine un’azione, ci sarà una lettera ad aspettarti, proprio come se fossi accanto a te.

    Forza, adesso leggi la lista. E non aprire MAI una lettera prima di aver depennato una voce dall’elenco.

    E per l’amor del cielo, Ash, fatti una doccia, datti una pettinata e truccati un po’, sembri la ragazzina dell’Esorcista.

    Mi spiace tanto che tu stia soffrendo per colpa mia, e che ti senta così sola e perduta.

    Ma credimi… Stai andando alla grande, mocciosa.

    Gabrielle

    Voltai la pagina e fissai la lista delle cose da fare prima di morire. Non ero affatto sorpresa di quanto fosse accurata: Gabby non aveva tralasciato nessuna delle cose che avremmo voluto fare insieme e di cui eravamo solite parlare. L’elenco comprendeva paracadutismo, leggere tutto Shakespeare, e poi ancora innamorarmi, pubblicare un romanzo, organizzare un incontro divertente con i miei lettori a base di tè e cupcakes, diventare mamma di due gemelli, uscire con il ragazzo sbagliato ed essere ammessa all’Università della California. Altre voci della lista rispecchiavano piuttosto i desideri di Gabby, e non tanto i miei, però: dimenticare Henry, imparare a piangere di gioia e a ridere nei momenti tristi, ubriacarsi e ballare in un bar, restituire a Bentley l’anello, prendersi cura della mamma, ricreare la famosa scena del Titanic.

    La porta di casa si aprì e mia madre entrò nel soggiorno. Riposi la lettera e chiusi la scatola, poi uscii dalla mia camera e mi fermai a qualche passo da lei. Mi fissava, con il volto rigato di lacrime e la bocca socchiusa come se fosse in procinto di dirmi qualcosa. Scrollò le spalle, poi rimase in silenzio. Sembrava sconvolta, logorata. Distrutta.

    «Domani vado da Henry», annunciai. Per un breve istante, mia madre rabbrividì. Considerai l’ipotesi di dirle che avevo cambiato idea e che sarei rimasta lì a casa insieme a lei, ma prima che potessi proporglielo, parlò.

    «Va bene, Ashlyn. Hai bisogno che Jeremy ti accompagni alla stazione?».

    Feci di no con la testa. Il cuore martellava senza tregua contro il petto, e mi sforzai con tutta me stessa di mantenere il controllo.

    «No. Me la caverò. E solo perché tu lo sappia, sarà un trasferimento definitivo». La voce mi si spezzò, ma trattenni le lacrime. «Non tornerò indietro. Ti odio, mamma, mi stai abbandonando proprio quando ho più bisogno di te. Non ti perdonerò mai».

    Abbassò gli occhi al pavimento, la schiena ricurva. Poi mi guardò un’ultima volta prima di voltarsi e tornare verso la porta. «Fai buon viaggio».

    E con queste parole, mi lasciò lì. Sola, ancora una volta.

    Capitolo 2

    Ashlyn

    Ricorda sempre il nostro primo sguardo.

    E ti prometto che non avrai bisogno di altro.

    Romeo’s Quest

    L’indomani giunse in un baleno. Ero seduta fuori dalla stazione ferroviaria, in cima a una grossa

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