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Il principe cattivo
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E-book300 pagine4 ore

Il principe cattivo

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Info su questo ebook

Non tutti i principi sono azzurri

Bad Boy Royals

Kain Badd è fantastico… almeno sulla carta. È ricco, affascinante ed è persino un principe. Peccato che, dopo aver trascorso appena pochi minuti insieme a lui, Sammy sia già riuscita a capire chi sia veramente. E l’ha odiato. Arrogante, possessivo e maledettamente sicuro di sé. Se non avesse accettato di organizzare il matrimonio di sua sorella, sarebbe stato il classico tipo da evitare con cura. Invece, dopo aver trascorso la notte con lui ed essersi svegliata nel suo letto, non desidera altro che dimenticare. Peccato che Kain non sia affatto d’accordo. E poi, nel bel mezzo del matrimonio, una retata della polizia trascina tutti in carcere. Kain non ha solo una brutta reputazione, la sua famiglia è in un giro molto pericoloso. E adesso Sammy si trova invischiata in un gioco di potere più grande di lei. Controvoglia, dovrà mettere la sua vita nelle mani di Kain. E potrebbe essere la cosa più stupida che abbia mai fatto. 

Un’autrice bestseller di USA Today

«Hai presente quando finisci un libro e vorresti essere amico dell’autore per chiamarlo al telefono e chiedergli… notizie di quello schianto del protagonista?»

«Leggere non è mai stato così sexy.»

«Come è possibile che non avessi ancora letto Nora Flite? Per fortuna ho rimediato e non smetterò più!»
Nora Flite
vive nel sud della California, dove il clima è sempre caldo e non occorre imbacuccarsi, cosa che odia dover fare. I suoi romanzi sono caratterizzati da protagonisti con un caratteraccio e leggermente ossessivi, perché le piace mettere un po’ di tensione nelle sue storie, e hanno un enorme successo oltreoceano. Il principe cattivo è il secondo romanzo pubblicato in Italia dalla Newton Compton, dopo Hard Love.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2018
ISBN9788822728661
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    Anteprima del libro

    Il principe cattivo - Nora Flite

    Capitolo uno

    Sammy

    Le sue dita si arrampicavano sulla mia coscia. Forse avevano squarciato i veli del mio vestito di organza, perché la mia pelle fremeva come se mi stesse toccando direttamente.

    Chi era, vorrai sapere.

    Con un completo blu navy che non rispecchiava la sua personalità da ragazzaccio, e un ghigno arrogante che invece gli calzava a pennello, Kain Badd era la più fastidiosa spina nel culo da quando avevo indossato per la prima volta un perizoma. Certo, il suo corpo era scolpito nel marmo e aveva gli occhi dell’azzurro che le riviste usano per i fotoritocchi con Photoshop… ma era un cazzone.

    Aveva pure un bel cazzo. Per favore, non chiedermi come lo so.

    Ma niente di tutto questo era importante, perché entro poche ore quel matrimonio sarebbe finito e io non avrei più dovuto rivedere Kain.

    Fino ad allora, ero costretta a stargli accanto e a sopportare i suoi costanti tentativi di eccitarmi, finché non fui completamente calda, malgrado il fastidio. Lo stronzo stava vincendo.

    Una musica fragorosa, echeggiante e piena di scampanellii riempiva l’aria. Scacciando di nuovo le dita di Kain, gli scoccai uno sguardo torvo. Sorrise mostrando i denti, come a dire che non gli importava se mi stavo arrabbiando. Il bastardo stava per conquistarmi e lo sapeva.

    Mi schiarii la gola e guardai la sposa che ci veniva incontro lungo la navata. L’abito le stava d’incanto, facendomi gonfiare di orgoglio. L’avevo fatto io, era frutto delle mie lacrime e del mio sudore. A giudicare dagli scatti delle macchine fotografiche, domani frotte di nuovi clienti avrebbero bussato alla mia porta.

    Ne è valsa davvero la pena. Dovevo continuare a ricordarmelo.

    Kain mi fece scorrere una mano su per la schiena, sussurrandomi all’orecchio: «Sta rubando la scena, ma sinceramente io ho occhi solo per te».

    Arrossendo, sibilai: «Taci e concentrati!».

    «È difficile quando vedo le tue tette che si sollevano a ogni minimo respiro».

    Gli diedi un calcio sulla caviglia e feci un bel sorriso per la sposa. Luminosa e dorata, lei mi guardò con esultanza. Il denaro, la fama e la consapevolezza che il grande giorno di questa giovane donna era opera mia. Ne era valsa davvero la pena… Ma che diavolo succede?

    Oltre le teste della folla, vidi figure scure marciare tra i cespugli di rose. Gli elmetti scintillavano, quasi quanto le pistole.

    «A terra!», urlò qualcuno.

    Scoppiò il panico e tutti si agitarono, cominciando a correre e a spingere per andare via. Kain intrecciò le dita alle mie, poi uomini senza volto con il giubbotto antiproiettile lo colpirono violentemente e ci separarono.

    Un attimo dopo, uno degli uomini mi inchiodò a terra con tutto il suo peso. «Non ti muovere!». Me lo ordinò con ferocia, facendomi fischiare le orecchie. Muovermi? Stava scherzando? Non potevo neppure urlare, l’aria mi era uscita con violenza dai polmoni.

    Il rumore degli stivali, il ruggito della folla e, soprattutto questo, l’ululato delle sirene. Un braccio mi schiacciò la nuca, il metallo si chiuse attorno ai miei polsi.

    Mi stavano arrestando.

    Come diavolo era potuto succedere?

    Due giorni prima

    Probabilmente ero la peggiore imprenditrice che ci fosse al mondo.

    Mentre impacchettavo il meraviglioso abito di pizzo color avorio con gocce di cristallo cucite a mano, sapevo di avere ragione. Dopotutto, quell’abito mi era costato parecchie centinaia di dollari e avevo pensato di venderlo a poche migliaia, invece…

    L’avevo regalato.

    La giovane donna si sfregò le guance, non riuscendo a nascondere il velo di lacrime. Aveva cominciato a piangere da quando le avevo detto che era la fortunata Sposa Platino del Mese. Non era vero niente.

    Non era la bugia migliore che avessi escogitato, ma comunque aveva funzionato.

    Hazel era venuta nel mio negozio diverse volte insieme al suo fidanzato. Mi aveva ripetuto fino alla nausea quanto fosse eccitata per il suo matrimonio.

    Sposare l’uomo che adorava fin dalle superiori era il suo sogno.

    Aveva promesso di pagare il vestito entro la fine del mese precedente. Ma non era successo. Poi aveva detto che l’avrebbe pagato entro la fine della settimana, ma ancora niente. Non serviva essere una sensitiva per capire che era accaduto qualcosa di terribile. Hazel non era il tipo capace di fregarti.

    Il giorno prima, mentre guidavo in autostrada, avevo visto il suo fidanzato con un cartello: Senza lavoro, faccio qualsiasi cosa per soldi.

    Come molti altri, aveva perso il posto quando la locale fabbrica di sapone aveva chiuso, il mese precedente.

    Forse ero una pappamolle, una donna fragile o semplicemente… stupida, ma non avevo nessuna intenzione di lasciare quella povera ragazza senza l’abito dei suoi sogni.

    «Non potrò mai ringraziarti abbastanza», disse, tirando su col naso e ridendo nervosamente per la propria reazione.

    Io spinsi il pacchetto verso di lei con un gran sorriso. «Come ho detto, sei la vincitrice di questo mese! Non devi ringraziarmi per niente. Non dipende da me».

    Strofinandosi il naso, si strinse al petto la scatola. La sua faccia era tutta rossa da quanto era felice, un completo disastro. «Ti manderò le foto del matrimonio», promise.

    «Ci conto», risposi ridendo.

    Hazel non mi tolse gli occhi di dosso finché non arrivò all’uscita. Avevo paura che cominciasse a inchinarsi. «Sul serio», disse, spingendo la porta e facendo tintinnare il campanello. «Se non me l’avessi dato, non so che cosa avrei fatto. Avrei cancellato il matrimonio, perso la caparra, io…».

    «Shh shh shh!». Battei le mani. «Mandami quelle foto. Le appenderò sulla bacheca delle vincitrici del mese». Ovviamente, non esisteva nessuna bacheca.

    Il suo sorriso si allargò così tanto che le arrivò quasi alle orecchie. «Grazie. Hai un cuore d’oro».

    Quel complimento mi riempì d’orgoglio. Come era prevedibile.

    Ma un cuore d’oro non paga le bollette.

    Non appena uscì, mi accasciai dietro il bancone e nascosi la faccia tra le mani. Sono un’idiota. Regalare ciò che mi serviva per tenere a galla il mio negozio di abiti da sposa era pura follia. Ecco cos’è, pensai tra me e me. A un certo punto, sono diventata pazza.

    Avevo aperto il negozio solo tre mesi prima. Era successo in fretta e in modo caotico. Il ritorno al mio paese natale era stato ancora più caotico. Non che avessi avuto altra scelta; quale figlia non si affretterebbe a tornare per prendersi cura della madre malata?

    A ogni modo, ero tornata ed ero decisa a trarre il meglio dalla situazione.

    Purtroppo, ero anche la mia peggior nemica.

    Sospirando, mi schiaffeggiai le guance per riprendermi dal momento di malumore. Concentrati. Metti su un po’ di musica e renditi utile. Accesi la radiolina e mandai avanti le canzoni finché non trovai Hide Away di Daya. L’intro al pianoforte mi diede una scossa e mi guidò fuori dal mio nascondiglio dietro il bancone.

    Era quello che mi serviva. La musica riusciva sempre a entrarmi nelle ossa e a cancellare le preoccupazioni. Era come una magia, mi costringeva a seguire il suo ritmo frenetico, mi ordinava di dimenticare tutti i miei problemi.

    I miei errori.

    Saltellando, afferrai un abito nuziale dall’espositore. Era scintillante, chilometri di tulle. Volevo solo spostarlo su un manichino per mettere a punto i nastri sul corsetto che non avevo ancora finito. Quando iniziò il ritornello della canzone, feci ruotare il vestito.

    Improvvisai un ballo nel negozio con quell’abito bianco tra le braccia, facendo ondeggiare i fianchi e oscillare i capelli. Ridendo, piroettai con il vestito come se fosse un amante…

    E mi ritrovai a fissare i freddi occhi azzurri dell’uomo più bello sulla faccia della Terra.

    Sussultai e arrotolai il vestito come se fosse uno straccio bagnato da strizzare. Lo straniero socchiuse gli occhi e il suo sorriso mi colpì dritto al cuore. Ero divisa tra il rapimento e l’umiliazione.

    «Io… ehm… salve!». Tossendo, corsi ad abbassare il volume della radio. «Come posso aiutarvi?».

    Lui non parlò, lo fece la donna alle sue spalle. «Oh, santo cielo». Mi venne incontro e mi afferrò i polsi con lunghissime e scomode unghie dorate. I suoi occhi color zaffiro erano puntati sull’abito che avevo in mano. «Questo è il vestito più grazioso che abbia mai visto!».

    Lui la guardò. Finora aveva guardato me? «Bene», disse. «Se riesci a trovare il vestito che ti piace così in fretta, finiremo prima».

    Un lampo di delusione mi riportò con i piedi per terra. Ovviamente è il suo fidanzato.

    Com’era possibile che un tipo così sexy fosse ancora single? Nella mia testa, smisi di vivere il mio breve matrimonio immaginario con l’Affascinante Straniero e mi concentrai sulla giovane donna. «Dunque, cerchi un vestito da sposa?»

    «Direi che cerco il mio quinto abito nuziale», rise. Ammiccando, mi porse la mano. «Francesca Badd, con doppia d». Scosse il petto per sottolineare la battuta. «Piacere di conoscerti, bambola».

    Avevo sentito bene? Il suo cognome era Badd? Sorridendo le strinsi la mano e guardai oscillare gli enormi anelli dorati che portava alle orecchie. Sentivo l’odore della sposa incontentabile a chilometri di distanza. Cinque vestiti? Oggesù. «Piacere, Sammy. Sarei lieta di mostrarti un po’ di cose, sai già cosa ti piace?».

    Francesca indicò l’abito tra le mie braccia. «Quello. Mi piace quello. Lo voglio!».

    L’uomo si schiarì la gola. «Questa mocciosa è abituata a ottenere sempre quello che vuole».

    Lei si girò di scatto, facendo dondolare i capelli raccolti in alto. «Per favore, ignora mio fratello. È un piccolo cagacazzi».

    «Non usare le parole piccolo e cazzo nella stessa frase con me».

    «Bada a come parli, Kain!». Mi indicò. «Stai facendo il maleducato davanti a questa gentile signora!».

    Io arrossii, ma non per le parolacce. Ero una donna adulta e le mie orecchie erano diventate insensibili alla mancanza di tatto e alle volgarità già da un bel pezzo. Il motivo della mia agitazione era uno soltanto.

    È suo fratello? Non il suo fidanzato?

    Per la seconda volta, guardai distrattamente dalla sua parte e me lo mangiai con gli occhi. La camicia grigio scuro gli aderiva ai pettorali e svaniva sotto la cinta, facendo risaltare i fianchi snelli, mentre i jeans stretti mostravano i muscoli delle gambe.

    La pelle perfetta era ornata da tatuaggi a spirale intorno alle braccia. Ne scorsi anche uno che spuntava vicino alla clavicola. Non andavo matta per gli uomini tatuati, ma per lui avrei fatto un’eccezione.

    Sentendomi incredibilmente stupida… e incredibilmente sollevata, mi diressi ai camerini. «Sono felice che ti piaccia questo vestito! Vieni a provarlo. Non è finito, ma non dovrei metterci più di una settimana. Quand’è il matrimonio?».

    Francesca aprì la tendina, prendendo l’abito. Prima di tuffarsi nel camerino mi rivolse un sorriso dolcissimo e disse: «È dopodomani».

    La tendina si chiuse e lo stomaco mi cadde sotto i tacchi.

    Il ragazzo – Kain? – rimase accanto a me, con le mani nelle tasche. «È così che facciamo le cose nella nostra famiglia. Spontaneo e disorganizzato dovrebbe essere il nostro motto». La sua risata mi riscaldò, ma non abbastanza da farmi dimenticare la realtà della situazione.

    «Francesca», dissi scegliendo con cura le parole. «Magari preferisci dare un’occhiata ai miei lavori finiti».

    Uscì dal camerino tenendo su il corsetto con un braccio. L’abito splendeva alla luce che entrava dalle grandi finestre. L’avevo concepito in modo che il tulle ricadesse come la neve dai fianchi di una montagna, mentre la parte di sopra era di un bianco extra-cremoso che risaltava in contrasto con la sua abbronzatura.

    Ammirandosi allo specchio, la donna scoppiò a ridere. «Che importa? È il mio vestito! È questo, sono sicura! Kain, come sto?». Lui aprì la bocca, ma lei gli impedì di parlare. «Non è bellissimo? Ah, lo adoro!».

    Nonostante il respiro accelerato, mi sforzai di continuare a sorridere. Odiavo deludere la gente.

    «Senti… Francesca. Ti sta d’incanto…».

    «Lo so, è vero?!».

    «Ma due giorni non mi bastano per finirlo».

    Guardandosi allo specchio, si pulì i denti e fece un verso nasale. «Non capisco».

    Kain tese una mano e la appoggiò sul mio fondoschiena. Le sue dita erano bollenti; ne ero fin troppo consapevole. «Dai un’occhiata ai nastri, Francesca».

    Lei fece una giravolta, fissando il corsetto con occhi ridenti.

    Confusa, mi lasciai condurre da Kain verso l’ingresso del negozio. Quando mi lasciò, continuai a sentire le sue dita fantasma. «Senti», disse. «Quanti soldi ti servono per garantire che quel vestito sia pronto in tempo?».

    Scossi la testa. «Il problema non sono i soldi. Dovrò stare alzata tutta la notte e lavorarci anche domani per finirlo. E anche così, non sono sicura di farcela».

    Lui tirò fuori il telefono e cominciò a digitare. «Dimmi il numero magico, su».

    «Non c’è nessun numero magico. Mi stai ascoltando? Dovrei ammazzarmi di lavoro per finirlo!».

    I suoi occhi d’acciaio mi scrutarono dalla testa ai piedi, con una tale intensità che mi sembrò di avere le sue mani addosso. «Non ho smesso di ascoltarti da quando hai aperto quella bella boccuccia, dolcezza. Se non vuoi darmi un prezzo, lo deciderò io».

    Strinsi i pugni e mi feci forza. Ero pronta a dargli una lezione: come osava parlarmi in quel modo?

    Kain girò il suo telefono, mostrandomi lo schermo. Lesse il numero ad alta voce, per fortuna, perché mi si era offuscata la vista davanti a tutti quegli zeri. «Ti bastano ventimila dollari?».

    Sentivo la lingua troppo pesante, biascicavo. «Ventimila… dollari?».

    Il suo sorriso disse che non stava scherzando.

    Ventimila dollari. Con quelli, i miei problemi economici sarebbero svaniti. Avrei potuto estinguere il crescente debito di mia madre con l’ospedale e tenere a galla il negozio. Chi sono questi due? Non avevo mai sentito il cognome Badd, ma erano così ricchi da buttare ventimila dollari per il vestito della figlia come niente fosse?

    Nel retro del negozio, Francesca mi chiamò: «Sammy! Hai un velo da abbinare al vestito?».

    Lanciai uno sguardo a Kain. Aveva l’aspetto e l’odore di un predatore, un fresco aroma di pino e serico muschio. Era un uomo che otteneva sempre ciò che voleva. Se mi ero chiesta perché Francesca si fosse portata dietro il fratello per scegliere l’abito, ora lo sapevo. Chi poteva dirle di no con Kain nei paraggi?

    Allontanandomi da lui, gridai: «Ce n’è solo uno!».

    Non guardavo più Kain, ma la sua espressione era stampata nella mia testa. Era stranissimo lo sguardo che mi aveva rivolto. Si era comportato come se tra noi ci fosse stato uno scontro. Anzi, come se avesse vinto.

    In quel momento, capii tutto di lui. Non importava quanto fosse bello e atletico… o se si muoveva come l’acqua di un fiume; quel tizio era un arrogante di prima categoria, fino al midollo.

    Kain portava guai.

    E credetemi, sapevo riconoscere l’odore dei guai.

    La mia vita ne era stata piena.

    Capitolo due

    Sammy

    Rimasi alzata tutta la notte, come avevo detto.

    Prima usai il caffè.

    Poi feci ricorso alle bevande energetiche.

    Alla fine, quando arrivarono le prime ore tra la notte e il giorno, guardai le fatture dei creditori con le scritte in rosso impilate sulla mia scrivania. Era l’ultima spinta di cui avevo bisogno per completare il lavoro.

    Sbadigliando per la milionesima volta, mi strofinai furiosamente gli occhi. Alla luce dell’alba, che aveva lo stesso colore del sorbetto all’arancia, il vestito splendeva come un’armatura di bronzo. Era uno dei miei lavori migliori e immaginare come sarebbe stato indosso a Francesca bastò quasi a dissipare la stanchezza.

    Quasi.

    Sbadigliando, barcollai verso la doccia. Se volevo incontrarla oggi per le prove del vestito, dovevo rimettermi in sesto. Lasciai penzolare il capo sotto il violento gettito d’acqua, chiusi gli occhi e canticchiai.

    L’ultima volta che avevo passato la notte in bianco era al college. Avevo deciso di mostrare una serie di abiti lunghi d’alta moda per la mia tesi finale. Era un’impresa folle. Mi lasciò con le dita sanguinanti e un odio viscerale per le reti metalliche.

    Ma quella collezione mi era valsa il lavoro dei sogni a New York.

    È stato bello, finché è durato. Ridendo tra me e me, mi scostai i capelli bagnati dalla faccia. Smettila di pensarci. Ormai non ha più importanza. Inoltre, che me ne facevo dello stile di vita frenetico e degli impieghi ben pagati di New York?

    Non mi concessi di rispondere alla domanda.

    Mi avvolsi un asciugamano intorno al corpo e camminai a piedi nudi sulle mattonelle fredde, diretta in camera. Le persiane erano aperte, puntavano dritte sul palazzo di fronte. Non avendo voglia di dare spettacolo, mi avvicinai in punta di piedi e tirai la cordicella.

    Con una magistrale dimostrazione di fattura artigianale, le persiane si staccarono dal telaio della finestra.

    Trasalendo, saltai indietro appena prima che mi cadessero sui piedi. Rimasi lì al sole mattutino, con solo un asciugamano indosso e una cordicella rotta nel pugno.

    Nell’appartamento di fronte, un vecchietto mi fissava stupefatto.

    Respirando forte dalle narici, mi guardai intorno in cerca di una soluzione. In un angolo, accanto a una pila di scatoloni non ancora svuotati, c’erano alcuni fogli di cartone. Ne presi uno, strappai un po’ di nastro adesivo e mi misi di fronte alla finestra.

    Allora l’asciugamano cominciò a scivolare.

    Con nient’altro che un pezzo di cartone tra me e l’estraneo, gemetti. L’inizio della giornata non lasciava ben sperare. Digrignando i denti, fissai con il nastro adesivo quel patetico rimpiazzo di una tenda.

    Feci un passo indietro, tirai su l’asciugamano per coprirmi meglio il seno e osservai il mio lavoro. In fondo, non è tanto peggio delle persiane. Dovevo andarmene alla svelta da quell’appartamento di merda, ma non ero riuscita a trovare di meglio con il mio budget e in così poco tempo.

    Non che fossi cresciuta nella bambagia, ma venivo dalla classe media ed ero abituata alle comodità. Era stato solo quando era morto mio padre, l’anno prima, che tutto era andato a rotoli. Non aveva l’assicurazione sulla vita e quei pochi soldi che avevamo messo da parte erano andati dritti ai dottori di mia madre, con l’aggravarsi della sua malattia.

    Ma le cose cambieranno. Ventimila dollari sarebbero bastati a rimettere tutto a posto.

    Grattandomi la testa bagnata, stavolta non fermai l’asciugamano quando cadde a terra. La stanza era al buio; andava bene così, non avevo bisogno di molta luce per trovare dei vestiti puliti.

    Quando riuscii a infilarmi un paio di jeans e una blusa nera, si erano quasi fatte le dieci.

    Entrai nel cucinino e mi preparai un caffè con la moka. Fissai ansiosamente la macchinetta mentre usciva il caffè, tamburellando con le unghie. Stava ancora sputacchiando quando tirai via la caffettiera e versai il nirvana nero nella mia tazza a forma di testa di cavallo.

    Mi sedetti e presi una sorsata lunghissima. Cazzo, era buonissimo. Proprio quello di cui avevo bisogno.

    Avevo solo ventitré anni, ma ero già troppo vecchia per le nottate. Non si faceva sempre un gran parlare di quanto fosse importante dormire? E del fatto che ogni ora di sonno persa è un giorno di vita in meno?

    Potrei giurare di averlo sentito dire da un dottore. In televisione, ma era pur sempre un dottore.

    Presi il telefono e cercai indicazioni per l’indirizzo in cui avevo l’appuntamento con Francesca. Quando Google Maps mi disse che ci voleva più di un’ora di macchina, mi andò il caffè di traverso.

    Viveva a Newport? Dannazione, non l’avevo messo in conto quando avevo calcolato i tempi. Raccolsi l’abito da sposa incellofanato e posai la tazza nel lavandino, con delicatezza. Anche se andavo di fretta, non volevo scheggiarla. Era la mia preferita, un regalo di mio padre.

    Gettai tutto sul sedile posteriore della mia vecchia ma cara Dodge Avenger e feci una smorfia per la luce del sole accecante. Era quasi arrivata l’estate e il cielo aveva quel colore blu primario che trovi solo nei giocattoli per bambini.

    Frugando nel cruscotto, scovai un paio di occhiali da sole extralarge. I Gucci color bronzo erano un reperto del mio periodo newyorkese, me li ero regalati dopo aver ottenuto il lavoro da Filibert’s Bridal.

    Era un pesante promemoria del comodo avvenire che avevo gettato via. Avevo un buon motivo per farlo, ricordai a me stessa. E poi… mi sono appena aggiudicata ventimila dollari. È più di quanto abbia guadagnato in quattro mesi da Filibert! Le cose si mettono bene per me.

    Con determinazione, indossai gli occhiali da sole e schiacciai il pedale del gas.

    Una volta finito questo lavoro, mi sarei comprata qualcosa di ancora più bello dei miei occhiali Gucci come ricompensa.

    * * *

    Non può essere il posto giusto.

    Alzai gli occhi, poi li riportai sulla mappa del mio telefono, chiedendomi cosa stesse succedendo. Come mai il GPS si era rotto? Perché era rotto. Non c’erano altre spiegazioni. Perché altrimenti mi avrebbe portato qui?

    Il lungo cancello in ferro battuto si estendeva davanti a me come un paio di braccia conserte. Era minaccioso ma allo stesso tempo stranamente bello, come può esserlo un falco in picchiata. La villa dietro il cancello era strabiliante.

    Non riuscivo proprio a credere che quello fosse il posto giusto. D’altronde, avrebbero pagato una cifra da capogiro per quel vestito. Possibile che i Badd vivessero qui? No, non riuscivo a crederci. Avevo visto gente sprecare un sacco di soldi per un matrimonio: non significava che erano ricchi, solo… disperati.

    E quello che avevo di fronte andava al di

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