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Bruto
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Bruto
E-book407 pagine7 ore

Bruto

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Info su questo ebook

Bruto conduce una vita solitaria in un mondo dove la magia è all’ordine del giorno. È un gigante di due metri e trenta di bruttezza e dai natali ignobili. Nessuno, incluso Bruto, si aspetta che lui sia più di un operaio. Ma gli eroi si presentano in tutte le forme e dimensioni e, dopo aver subito una mutilazione per salvare il principe, la vita di Bruto cambia bruscamente: è chiamato a servire al palazzo di Tellomer come guardia per un singolo detenuto. Sembra facile, ma si rivela essere la sfida della sua vita.

Le voci di palazzo dicono che il prigioniero, Gray Leynham, sia uno stregone e un traditore. Quel che è certo è che ha trascorso anni nello squallore: cieco, incatenato, reso quasi muto da una balbuzie estrema. Sogna la morte della gente, e quei sogni si avverano.

Mentre Bruto si abitua alla vita di palazzo e comincia a conoscere Gray, scopre anche il proprio valore, in primo luogo come amico e uomo, poi come amante. Ma Bruto impara anche che gli eroi, a volte, devono affrontare scelte difficili e che fare ciò che è giusto può portare nuovi pericoli.

LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2015
ISBN9781623808808
Bruto
Autore

Kim Fielding

Kim Fielding is pleased every time someone calls her eclectic. Her books span a variety of genres, but all include authentic voices and unconventional heroes. She’s a Rainbow Award and SARA Emma Merritt winner, a LAMBDA finalist, and a two-time Foreword INDIE finalist. She has migrated back and forth across the western two-thirds of the United States and currently lives in California, where she long ago ran out of bookshelf space. A university professor who dreams of being able to travel and write full-time, she also dreams of having two daughters who occasionally get off their phones, a husband who isn’t obsessed with football, and a cat who doesn’t wake her up at 4:00 a.m. Some dreams are more easily obtained than others. Blogs: kfieldingwrites.com and www.goodreads.com/author/show/4105707.Kim_Fielding/blog Facebook: www.facebook.com/KFieldingWrites Email: kim@kfieldingwrites.com Twitter: @KFieldingWrites

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    Anteprima del libro

    Bruto - Kim Fielding

    Copyright

    Pubblicato da

    DREAMSPINNER PRESS

    5032 Capital Circle SW, Suite 2, PMB# 279, Tallahassee, FL 32305-7886  USA

    http://www.dreamspinnerpress.com/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio e ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.

    Bruto

    Copyright dell’edizione italiana © 2015 Dreamspinner Press.

    Brute

    © 2012 Kim Fielding.

    Traduzione di Stella Mattioli.

    Illustrazione di copertina di

    © 2012 Paul Richmond.

    http://www.paulrichmond.com

    Le immagini di copertina sono usate a soli scopi illustrativi e i soggetti ritratti in esse sono modelli.

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, o da qualsiasi sistema di deposito e recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per qualunque altra domanda, contattare Dreamspinner Press, 5032 Capital Cir. SW, Ste 2 PMB# 279, Tallahassee, FL 32305-7886, USA or http://www.dreamspinnerpress.com/.

    Edizione eBook italiano: 978-1-62380-880-8

    Prima edizione italiana: Aprile 2015

    Prima Edizione Dicembre2012

    Stampato negli Stati Uniti d’America.

    Capitolo 1

    LA MUSICA era la sua compagna.

    Bruto cantava di un amore perso in mare mentre sistemava la lastra di pietra in una posizione più comoda sulle sue larghe spalle, prima di ricominciare ad arrancare sullo stretto sentiero in salita. Canticchiava fra sé e sé, perché con la sua voce bassa e la sua incapacità di seguire la melodia, sapeva di cantare malissimo, e gli altri lo avrebbero guardato storto se avesse alzato la voce. Nessuno era abbastanza vicino da sentirlo, se teneva la voce bassa, e la musica gli dava l’impressione che il suo carico fosse più leggero e che il sentiero sotto i suoi piedi fosse meno pericoloso.

    Cantava le canzoni sconce che risuonavano nella taverna posta sotto la sua stanza, e le malinconiche ballate cantate dalle donne che all’alba si ritrovavano intorno al pozzo; a volte mormorava persino le ninne nanne che a malapena ricordava, quelle che qualcuno gli aveva cantato da bambino.

    La notte precedente aveva piovuto e, anche se il cielo adesso era sereno, il terreno era scivoloso. Stava quindi attento a poggiare saldamente il piede, prima di fare un altro passo. Le dita nude affondavano nel fango, dandogli più aderenza. Una volta era riuscito a mettere da parte i soldi necessari per farsi fare degli stivali – nessuno di quelli già pronti erano abbastanza larghi per lui – ma, anche se erano ben fatti, non erano durati abbastanza e ora sapeva che non era il caso buttare via i suoi pochi spiccioli.

    Muoviti! il grido d’impazienza proveniva dalla cima della collina, ma Bruto lo ignorò. Non voleva rischiare di scivolare sul sentiero e finire sulle rocce sottostanti. Continuò a mettere un piede dietro l’altro, cantando di una tempesta e di un naufragio, fino a che, finalmente, la salita non terminò. Grugnì e lasciò che la lastra di pietra scivolasse per terra, dove cadde con un sordo s-ciaff.

    Senza neanche fermarsi per sciogliere i muscoli, si voltò per scendere di nuovo lungo il sentiero, per prendere un’altra lastra di pietra. Ma il capomastro gli afferrò il braccio. Darius era magro, il suo volto segnato e spigoloso era perennemente corrucciato. Sei lento, oggi. Il principe in persona sarà qui domani per ispezionare i nostri progressi, e sarà meglio avere dei fottuti progressi da mostrargli.

    Il sentiero è scivoloso.

    Non me ne importa un accidente e neanche al principe importerà. Muovi il culo.

    Le parole aspre non erano niente di nuovo, non ferivano. Per quanto Darius sentisse la pressione di dover finire il ponte in fretta, non poteva permettersi di perdere un lavoratore. Specialmente uno che era in grado di portare due volte il peso che ogni altro uomo poteva sopportare, e che riusciva a salire sui punti più insidiosi del sentiero meglio di un asino o di un cavallo. La grande taglia di Bruto e la sua forza gli assicuravano il lavoro, fino a quando la sua schiena avrebbe retto.

    Altri tre viaggi giù dalla collina, dove i fratelli Osred e Osric interrompevano il loro lavoro di cesellatura per sistemargli un altro blocco di granito nella rudimentale imbracatura che portava sulla schiena, e altri tre viaggi su per la collina, con il fango caldo sotto i piedi e una ninna nanna sulle labbra.

    Raggiunta la cima della collina, Bruto udì un forte rumore e una raffica d’imprecazioni. Non toccatelo, cazzo! gridò Darius a qualcuno. Aspettate Bruto.

    Così rimasero in attesa mentre Bruto si faceva scivolare la pietra giù dalla spalla: due dozzine di uomini che lo fissavano come se la colpa del disastro in corso fosse in qualche modo sua. Muovilo, gli ordinò Darius, indicando qualcosa con l’indice.

    Uno dei tronchi che dovevano servire per costruire la struttura – un enorme albero che era cresciuto nelle foreste del nord prima di essere abbattuto, privato dei rami e issato fin là con fatica – era caduto da un carro ed era rotolato via, e adesso si trovava in bilico sullo strapiombo per metà. Se il tronco fosse caduto nel fiume sottostante, sarebbe stato portato via dalla corrente: una perdita costosa.

    Non stare fermo lì come un idiota, Bruto. Muovi quel dannato coso.

    I cavalli potrebbero spostarlo.

    Non ho intenzione di sprecare tempo per slegarli dal carro per poi doverli legare di nuovo.

    Bruto osservò il tronco per un momento, chiedendosi se sarebbe riuscito a spostarlo da solo e considerando la possibilità di cadere giù dal dirupo.

    Darius gli si avvicinò, le mani strette a pugni. "Non è così difficile. Anche tu sei in grado di capire cosa fare. Prendi quell’accidente e rimettilo a posto."

    Bruto valutò la possibilità di rifiutare, ma la sua sicurezza nel posto di lavoro arrivava solo fino a un certo punto. Se Darius avesse deciso che stava diventando un lavoratore troppo difficile, non avrebbe sprecato più tempo con lui. Avrebbe licenziato Bruto, assicurandosi che nessuno degli altri capomastri lo assumesse. Bruto non sapeva fare altro, oltre ai più semplici lavori manuali. A volte Darius lo definiva ‘un bue con le mani’; e senza più un lavoro, beh, Bruto aveva abbastanza denaro per sei settimane, forse due mesi se avesse mangiato molto poco. Una volta arrivato l’inverno, sarebbe morto di fame o di freddo.

    Gli altri operai rimasero immobili a guardare, forse nella speranza che Bruto sollevasse un po’ di trambusto. Da come lo guardavano certe volte, capiva che pensavano che la violenza gli venisse facile come a un orso dal brutto carattere. In realtà, non aveva alzato la mano su nessuno fin da quando era un ragazzo, ma immaginava che il suo aspetto fosse abbastanza inquietante. Darius non era amato: gli operai avrebbero gradito vedere lui preso a pugni, e Bruto licenziato. O forse speravano semplicemente in una distrazione dal lavoro.

    Qualunque cosa gli altri uomini volessero, Bruto non l’avrebbe concessa. Fece un cenno d’assenso rivolto a Darius e si diresse verso il tronco caduto. Rimase a osservarlo per qualche momento. Forse sarebbe riuscito a trascinarlo fino al carro, ma le sue braccia – nonostante la loro lunghezza – non sarebbero riuscite ad avvolgere il largo fusto. Dovrete legarmi al tronco, disse, rivolto a nessuno in particolare.

    Percependo la possibilità di assistere a una nuova forma di divertimento, diversi uomini si misero all’opera. Con qualche difficoltà, riuscirono a legare una spessa corda intorno al tronco, per poi passare l’altra estremità della corda a Bruto, che improvvisò una sorta di bardatura per se stesso. Respirò a fondo alcune volte, piegò le ginocchia e iniziò a tirare.

    All’inizio non accadde nulla, fatta eccezione per la corda che gli affondò dolorosamente nel petto e nelle spalle. Per un attimo si preoccupò che la sua maglia potesse strapparsi. Non era certo che avrebbe potuto sopportare un altro rammendo, e ne possedeva solo un’altra. Forse avrebbe fatto meglio a toglierla, prima di legarsi la corda attorno al busto. In quel caso si sarebbe ferito la pelle, ma non era una novità per lui. La pelle sarebbe guarita. Ma era ormai troppo tardi. Inspirò di nuovo ed espirò tirando con tutta la sua forza.

    Il tronco si mosse appena. Sfortunatamente, iniziò anche a rotolare, spostandosi verso l’orlo del precipizio. Ancora pochi piedi e tutto il tronco sarebbe precipitato giù, trascinandolo con sé. A differenza del tronco, era difficile che lui potesse sopravvivere alla caduta. Avvertì un accenno di panico mentre arretrava di qualche centimetro, i piedi che scivolavano nel fango mentre cercava disperatamente di guadagnare terreno. Aiutatemi! gridò, ma nessuno si mosse. Tutti si limitarono a osservare i suoi sforzi, un’espressione morbosa sui loro volti. Se avessero avuto più tempo, probabilmente avrebbero anche scommesso sul suo successo. Bruto si chiese quali sarebbero state le quotazioni.

    La corda gli faceva male al torace e alla schiena. Ma era meno doloroso che cadere giù dal dirupo e sfracellarsi sulle rocce frastagliate, pensò. Ruggì e spinse di nuovo in avanti, e stavolta il tronco si mosse con lui. Il pubblico rispose: alcuni degli uomini esultarono, altri sibilarono di disappunto. Li ignorò, ansimando mentre poneva un piede davanti all’altro. Il carico era più leggero adesso che aveva preso lo slancio, ma era comunque molto pesante. Il cuore sembrava un animale che cercava di fuggire dalla gabbia nel suo petto e i polmoni gli dolevano. Il sudore gli colava lungo la faccia, pungendo nei piccoli tagli e nelle abrasioni che si era procurato nel corso della giornata. Ma si piegò di più e continuò a tirare.

    Non si accorse che aveva gli occhi chiusi fino a quando non sbatté contro il carro. Solo allora permise alle gambe di cedere, e cadde sul terreno soffice, dove rimase steso sulla schiena, ansimando alla ricerca di ossigeno e godendosi la sensazione di essere stato liberato dal suo peso.

    Muovete quei culi pigri! ringhiò Darius. Rimettete quel dannato tronco sul carro.

    Bruto rimase steso sulla schiena mentre gli altri lo slegavano dal tronco. Furono necessari tutti gli uomini per sollevare il grosso albero. Qualcuno pestò la mano di Bruto, ma il terreno soffice gli impedì di farsi troppo male. Il tronco emise un rumore sordo, quando venne posto di nuovo sopra gli altri. Bruto era ancora sdraiato quando i cavalli portarono via il carro.

    Alzati, disse Darius, colpendo leggermente con il piede la gamba di Bruto.

    Mentre si alzava lentamente, Bruto avvertì ogni centimetro dei suoi due metri e trenta di altezza, e ognuno dei suoi centoquaranta chili. Non per la prima volta, desiderò essere un uomo di taglia normale, a cui venivano dati compiti ordinari da svolgere. Ma aveva imparato molto tempo prima – prima ancora di conoscere le parole adatte a esprimere il pensiero – che desiderare era inutile.

    Torna al lavoro, ordinò Darius.

    Ho finito, per oggi.

    Darius sollevò lo sguardo per vedere il cielo. Abbiamo ancora un’ora di sole.

    Bruto scosse la testa. Ho finito.

    Ti tratterrò la metà della paga giornaliera.

    Non era giusto, lo sapevano entrambi. Bruto aveva già lavorato più di ogni altro uomo, senza contare il salvataggio del tronco. Ma Darius era testardo, e Bruto sapeva che il senso di giustizia non era fra le qualità del capomastro. Si limitò quindi a scuotere le spalle, a voltarsi e a iniziare la discesa lungo il sentiero.

    La gente lo fissava mentre arrancava lungo la strada che portava al villaggio ma, come al solito, i passanti non incrociavano il suo sguardo. Per un certo periodo, alcuni anni prima, aveva provato a sorridere e a salutare le persone, ma nessuno ricambiava mai il suo sorriso o gli augurava buona giornata, quindi aveva rinunciato. Almeno quel giorno nessun anziano faceva cenni mentre gli passava accanto, e nessun bambino lo derise o lo chiamò ‘orco’. Ma era comunque una lunga camminata e la schiena gli pizzicava per il fango secco che aveva accumulato.

    Il padrone del White Dragon – un uomo tarchiato chiamato Cecil – era cugino di Darius, così come un’alta percentuale degli abitanti del villaggio. Quelli che non erano direttamente imparentati erano indebitati in qualche modo con la famiglia Gedding. Il padre di Darius era stato per anni lo sceriffo e adesso il posto era occupato dal fratello maggiore di Darius. Il prete del piccolo tempio era un altro fratello e la guaritrice era una zia. Quindi, se il padrone gli faceva pagare un sovrapprezzo per la camera c’era poco che Bruto potesse fare. Gli altri operai avevano famiglia, e vivevano in piccole capanne ai confini della città – affittate dai Gedding, ovviamente – ma Bruto aveva una stanzetta al White Dragon, con un letto troppo piccolo e i topi nel muro.

    C’era un pozzo nel cortile dietro la locanda. I cavalli sbuffavano nelle stalle mentre Bruto si toglieva la maglia e si versava in testa un secchio d’acqua. Sotto la piccola tettoia dietro la taverna si trovava una vasca di metallo ammaccato, ma era troppo stretta per lui. Cecil gli faceva pagare due monete di rame per ogni utilizzo, quindi Bruto la utilizzava raramente: di solito in inverno inoltrato, quando non sopportava l’acqua fredda del pozzo. Quel giorno, comunque, l’acqua del pozzo gli regalò una bella sensazione. Utilizzò la maglia come spugna improvvisata per togliersi il grosso del fango rappreso, promettendosi di lavarla prima di andare a letto. Per il momento, comunque, si guardò il petto, dove si stavano già formando dei lividi, linee rosse e gialle sui grossi muscoli. Al mattino sarebbe stato dolorante. Si sciacquò i piedi e bevve due tazze di acqua, prima di salire le scale fino alla sua camera.

    Poiché di solito lavorava da subito dopo l’alba fino al tramonto, era raro per lui vedere la sua stanza alla luce del sole, e il caldo splendore del tardo pomeriggio certamente non migliorava le cose. Le tavole di legno del pavimento erano nude e scheggiate, i muri erano solcati da anni di sudiciume, il letto e il piccolo tavolo traballavano. La coperta era piena di toppe, le tende erano poco più che stracci. Tutta la stanza puzzava di fumo, di unto e di birra. E quando sollevò il coperchio della cassapanca in cui teneva i suoi pochi averi, i cardini cigolarono.

    All’interno si trovava l’altra maglia, pulita e ripiegata con cura. In origine era stata fatta per un uomo molto più piccolo, e il sarto vi aveva aggiunto strisce di stoffa ai lati e sulla parte posteriore perché andasse bene anche a Bruto. Non era esattamente alla moda, ma non aveva senso cercare di migliorarla. Bruto la indossò, si passò una mano fra i capelli umidi – che erano di nuovo cresciuti troppo – e scese al piano di sotto.

    Cecil gli rivolse uno sguardo cupo quando Bruto entrò nella stanza principale della taverna. È presto, grugnì.

    Bruto non perse tempo a rispondere. Attraversò la stanza con la testa bassa, ignorando gli sguardi degli altri clienti, e si sedette su una panca in un angolo lontano. Era il punto più buio della taverna, anche ora che l’ultimo dei raggi del sole penetrava dalle porte aperte. Lo stesso giorno in cui Bruto si era trasferito al White Dragon, quando era ancora un ragazzo mezzo cresciuto, Cecil gli aveva ordinato di sedersi lì. Non voglio alterare l’appetito di nessuno, gli aveva detto allora; Bruto non aveva osato rispondere che il cibo del White Dragon ci riusciva benissimo da solo.

    Appena Bruto si fu sistemato, Cecil gli portò un boccale di aspra birra annacquata e un piatto di latta pieno di… qualcosa. Il più delle volte, Bruto era contento che nel buio del suo angolo fosse quasi impossibile riconoscere il cibo. Qualunque cosa ci fosse nel piatto, aveva sempre lo stesso sapore: insipido con qualcosa che ricordava la selvaggina, pieno di grasso e con dei pezzi mollicci che una volta forse erano verdure. C’era sempre un grosso pezzo di pane raffermo per mangiare il sugo, cosa che Bruto faceva sempre, perché un corpo come il suo aveva bisogno di tutto il cibo che riusciva a mangiare.

    Mangiò in fretta, sciacquando via il sapore con lunghi sorsi di birra, e non passò molto prima che il suo piatto fosse pulito e il boccale vuoto. E dei del cielo, se era stanco. Non sapeva neanche quanti anni avesse – ventisette o ventotto, pensava – ma in quel momento gli sembrava di averne ottanta, con ogni muscolo e ogni giuntura che dolevano quando si alzò per attraversare la taverna. Né Cecil, né sua moglie né suo figlio gli augurarono la buonanotte. Non lo facevano mai.

    Per fortuna si era ricordato di portarsi dietro la maglia sporca, quindi non fu costretto a risalire le scale per andarla a prendere. La lavò meglio che poté nel trogolo posto dietro il pozzo, sperando che il pezzo di sapone caustico togliesse lo sporco senza bucare il tessuto sottile. Ma quando alzò la maglia, sospirò vedendo alcuni nuovi strappi. I suoi tentativi di rammendare erano a dir poco scarsi, ma avrebbe comunque dovuto attendere il giorno successivo. In quel momento era troppo stanco per vedere bene.

    Yffi, il garzone delle stalle, zoppicò fuori un attimo prima che Bruto salisse le scale. Gli rivolse un mezzo sorriso, che Bruto ricambiò. Nato con un piede storto e il labbro superiore malformato, Yffi era appena poco più fortunato di lui. Era un Gedding – lo era sua madre – e questo gli aveva garantito un lavoro che poteva svolgere. Dormiva nelle stalle, su balle di paglia che probabilmente erano più comode del letto di Bruto, e si era messo i soldi da parte, così che un giorno avrebbe forse potuto sposare la timida ragazza che lavorava nella cucina dello sceriffo. Yffi non prendeva mai in giro Bruto, a volte trovava qualche momento per scambiare con lui quattro chiacchiere, e Bruto si sforzava di non invidiarlo.

    Le scale sembravano particolarmente ripide e cigolanti quella sera, e i rumori dalla taverna si sentivano tramite il pavimento di legno della sua stanza: grida e scoppi di risa, piatti di latta e boccali che venivano sbattuti, e passi pesanti di chi indossava gli stivali. Nessuno cantava quella sera, il che era un peccato, perché Bruto era troppo stanco per canticchiare fra sé e sé. Appese la maglia bagnata alla sua unica sedia, si tolse i pantaloni, la maglia e i calzoncini e li ripose per la mattina successiva. Nudo, salì sul letto. Doveva rannicchiarsi in modo che i piedi non uscissero dal bordo, e doveva sistemarsi in modo da evitare la maggior parte dei rigonfi nel materasso; ma era ormai abituato da tempo a queste manovre, così gli ci vollero pochi istanti per cadere in un sonno senza sogni.

    I galli iniziarono a cantare ben prima del sorgere del sole, e presto i rumori del mattino echeggiarono nel cortile. Dei, se era dolorante. Si alzò – lentamente – e si stiracchiò, sperando di eliminare così alcuni dolori muscolari. Si toccò con attenzione i lividi lasciatigli dalla corda, poi si grattò i peli sul petto. In maniera automatica, la sua mano si spostò in basso fino ad afferrare il pene, che era sempre inutilmente eretto come ogni mattina. Era l’unica parte ottimista che era rimasta di lui, a volte si chiedeva quando avrebbe rinunciato anch’essa.

    Una volta l’anno, durante la Festa della Luna Settembrina – quando anche Darius era obbligato a dare il giorno libero ai suoi operai – Bruto raccoglieva le monete di rame che aveva risparmiato in una borsa di stoffa e intraprendeva il viaggio di tre ore di durata per la città reale di Tellomer. A testa alta, sopportava gli sguardi e le prese in giro che erano solitamente peggiori di quelle nella sua città natale, dove almeno gli abitanti erano abituati a lui. Lo squallido angolo dove si trovavano i bordelli era pressoché deserto il pomeriggio di festa, quando le persone passavano il tempo con le proprie famiglie e solo i più disperati fra gli uomini e fra le donne vendevano se stessi. Bruto andava sempre verso la casa più buia e triste, quella senza neanche un nome o un’insegna, dove il tenutario accigliato gli faceva pagare il doppio rispetto alle solite tariffe e dove le prostitute litigavano su chi sarebbe stata obbligata a servirlo. Bruto rimaneva nel piccolo ingresso sporco, fingendo di mantenere ciò che rimaneva della propria dignità.

    Alla fine, veniva incaricato qualche povero ragazzo, di solito il più vecchio e il più usato, che faceva a Bruto dei segni impazienti, invitandolo a seguirlo in una piccola stanza posteriore. Bruto desiderava sempre poter accarezzare la pelle soffice, indugiando sulle zone più morbide. Ma se ci avesse provato il ragazzo – o meglio, l’uomo, di solito quelle persone erano più grandi di Bruto stesso – avrebbe fatto una smorfia di disgusto. Quindi alla fine nessuno dei due si spogliava. Bruto si toglieva i pantaloni, così come faceva il ragazzo, c’era un frettoloso contatto delle labbra e della lingua bagnata sul pene di Bruto, e poi il ragazzo si voltava e mostrava il posteriore perché lo usasse.

    Quando Bruto tornava a casa ogni anno, si riprometteva di non tornare mai più in quella casa di Tellomer ma, quando tornava il giorno di festa, lo faceva di nuovo. Era l’unica occasione in cui qualcuno lo toccava, e anche se si trattava di carezze di poco significato, sospettava che si sarebbe disidratato e sarebbe morto se ne fosse stato privato. O ancora peggio, che avrebbe perso la sua umanità e che sarebbe diventato il mostro che tutti pensavano che fosse. Mancavano ancora mesi alla festa e quella mattina non aveva tempo per le uniche altre carezze di cui faceva esperienza: quelle della sua mano destra. Guardò male il suo pene prima di indossare i calzoncini, i pantaloni e la maglia (adesso asciutta) che aspettava ancora di essere rammendata.

    Le sue abitudini del mattino cambiavano raramente. Usava il vespasiano che si trovava in un angolo del cortile, si lavava e si rasava alla meglio nel trogolo; poi entrava in taverna, dove Cecil gli passava in silenzio una ciotola di porridge gommoso e della carne stopposa. A volte Bruto era fortunato: se Cecil era di buon’umore e le galline avevano deposto tante uova, riceveva anche un uovo o due. Non era una di quelle mattine. Mangiò la colazione e prese il paiolo di metallo che era stato lasciato sul bancone. Il paiolo conteneva il suo pranzo, che era generoso in quanto a porzioni ma non più gustoso degli altri pasti del White Dragon.

    Come Bruto si avvicinò al fiume, i suoi lunghi passi gli fecero superare alcuni degli altri uomini diretti al lavoro. Sembravano un po’ nervosi, e Bruto si ricordò, in ritardo, che quel giorno il principe avrebbe ispezionato il ponte. Gli unici nobili che Bruto avesse mai visto avevano oltrepassato il villaggio in sella ai loro bei destrieri. Non sapeva come comportarsi alla presenza di un membro della famiglia reale. Immaginava che fosse meglio tenere la testa bassa e i piedi in movimento, recitando la parte della bestia stupida.

    Il principe non era ancora arrivato al cantiere e Darius si stava facendo prendere dalla frenesia. Diversi membri della sua famiglia stavano con aria impaziente ai piedi della collina: lo sceriffo e sua moglie, il sacerdote e tre dei suoi accoliti, l’ex sceriffo e altri membri anziani del clan Gedding, una mezza dozzina dei mercanti più facoltosi del villaggio. A parte il prete e i seguaci, che erano tutti vestiti di bianco, tutti indossavano gli abiti più eleganti. Gli orli delle gonne indossate dalle donne toccavano la sporcizia.

    Smettetela di stare a bocca aperta! strillò Darius a nessuno in particolare. Siete pagati per lavorare, non per rimanere lì impalati come fottuti sciocchi. Alcune donne risero e gli uomini corsero a occupare i propri posti di lavoro. Osred e Osric iniziarono a lavorare un blocco di pietra, dandogli la forma di un cubo approssimativo. Il loro compito era quasi completo. In una settimana circa avrebbero prodotto abbastanza pietre da costruire le fondamenta del ponte. Gli altri uomini si affrettarono su per il sentiero per assemblare i componenti del ponte, che erano già stati preparati. Bruto trovò la corda e l’imbragatura di tela che si era tolto il pomeriggio precedente, e se le legò intorno al petto e alla schiena. Gli faceva un po’ male, ma almeno le strisce di tela erano abbastanza larghe da non penetrare a fondo nei brutti lividi.

    Osric e Osred sistemarono una pietra nell’imbragatura, e Bruto iniziò la sua prima salita del sentiero. Era metà mattina quando il principe arrivò con il suo seguito. Bruto, in quel momento, stava scendendo dalla collina e sentì gli zoccoli dei cavalli prima ancora di vederli. Fu sollevato nel vederli finalmente arrivare, perché la folla in attesa si stava facendo impaziente, e il linguaggio di Darius diventava sempre più pungente. Il capomastro aveva preso uno dei frustini che si usavano per spingere in avanti i cavalli che trainavano i carri, ed era chiaro che desiderava poterlo usare sui suoi uomini.

    Bruto non interruppe il suo lavoro all’arrivo del principe. Rimase ad aspettare che gli sistemassero un altro blocco di pietra sulla schiena, ascoltando le esclamazioni della folla che salutava il visitatore reale. Bruto era di nuovo sul sentiero verso la collina, prima che il principe fosse smontato da cavallo.

    Ma quando Bruto scese di nuovo, il principe era ancora lì in piedi, a parlare a voce alta con lo sceriffo degli alti costi per i trasporti. Bruto gli scoccò un’occhiata mentre aspettava Osric e Osred. Il principe Aldfrid era un uomo di alta statura di circa trent’anni. Era attraente, con una folta chioma di capelli biondi e un pizzetto a punta. Ma se non fosse stato per il comportamento rispettoso delle persone che gli stavano intorno, Bruto non avrebbe mai immaginato che quell’uomo fosse il figlio del re. Indossava dei semplici vestiti da viaggio – senza dubbio di buona fattura, ma privi di decorazioni e di banalità. Contrastavano in maniera evidente con i vestiti degli abitanti del villaggio, facendoli sembrare pacchiani e forse anche un po’ sciocchi. Bruto si era appena permesso un piccolo sorriso a qual pensiero quando il principe Aldfrid voltò la testa e lo vide. "Cos’è quello?" chiese il principe con voce risonante.

    Darius si accigliò. Nessuno. Solo uno degli operai.

    Il principe Aldfrid rise. Sembra più come alcuni degli operai. Mentre i Gedding e gli altri osservavano sospettosi, il principe si avvicinò a Bruto, squadrandolo da capo – un capo molto in alto – a piedi.

    Bruto non sapeva cosa fare. Avrebbe dovuto inchinarsi? Avrebbe dovuto dire qualcosa? Si sentiva due volte più grande di quanto fosse in realtà, e tre volte più brutto. Finì per rimanere immobile come una stupida statua.

    Chi sei? chiese il principe, chinando la testa di lato.

    Io… sono…

    Bruto, terminò Darius al posto suo. Non è nessuno d’importante, Vostra Altezza. Trasporta cose. Ora, se desiderate parlare con uno dei nostri muratori…

    Desidero parlare con Bruto, lo interruppe il principe. Immagino che sia capace di parlare.

    Le sue parole erano canzonatorie, ma Bruto vide solo buon umore

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