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La felicità è...
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E-book351 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Siamo a metà degli anni '70, anni resi difficili dalle crisi energetiche-petrolifere, dal flagello dell'inflazione e, soprattutto in Italia, dal problema degli attentati terroristici e della lotta armata: gli anni di piombo e la strategia della tensione. La vita, invece, soprattutto nelle città provinciali e nei paesi, scorre lenta come sempre. È una storia semplice, ma piena di sentimenti, valori e.... il luccichio incessante dei ricordi.
Federico in un pomeriggio inoltrato di giugno conosce e si innamora di Aurora, ma l'estate scorre via senza che i due ragazzi si frequentino per davvero. La paura di amare si impadronisce dell'adolescente Aurora.
Amico del cuore di Federico è Gilberto. I due amici vivono e condividono le passioni, le paure, le contraddizioni del loro tempo: la stupenda musica pop e progressive, lo sport ed il calcio in particolare, l'amore per il mare e la natura, ma anche le problematiche della droga, del lavoro, della corruzione, dell'inquinamento e del terrorismo. Nel loro vivere semplice, a volte gioiosamente monotono, si domandano cosa sia la felicità, se esiste per davvero, se sia effimera.
Il pomeriggio della vigilia di Natale, Federico incontra, riconosce e abbraccia la felicità. Le stelle più luminose, quelle dei valori fondamentali della nostra vita, magicamente si accendono nella cornice della notte di Natale, si stringono e compattano  intorno alla stella più grande e luminescente di tutte: l'amore. 
 
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2021
ISBN9788833469225
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    Anteprima del libro

    La felicità è... - Francesco Ragozzino

    Prefazione

    Sono un bancario, anzi ex bancario, in quanto da qualche mese sono in pensione.

    Negli ultimi anni della mia vita lavorativa, ho accarezzato l’idea di scrivere un libro, che raccontasse i bei momenti che hanno accompagnato il mio percorso lavorativo. Erano gli anni in cui si lavorava con serietà, passione e dedizione, ma che nello stesso tempo si riusciva ad avere un coinvolgente e sentito rapporto con i colleghi. Sui luoghi di lavoro si era sereni, spesso in empatia fra noi e, aggiungerei, con i clienti. Lo scambio di idee, opinioni, suggerimenti, su questioni lavorative, ma anche non lavorative, erano parte delle nostre giornate. A volte il rapporto diveniva confidenziale, facendo crescere la serenità, la gioia di lavorare ed il senso di appartenenza, in un ambiente di lavoro, che rimaneva tuttavia frenetico e rivolto ai risultati aziendali. Poi il mondo delle banche è cambiato drasticamente, anzi è cambiato il mondo sempre più affannosamente veloce, sempre più proiettato solo al risultato, al profitto e sempre meno attento alla gente, alle persone.

    Forse proprio in questa fase di cambiamento, ho sentito dentro di me il bisogno ed il desiderio di rifugiarmi nei ricordi del passato. Quello dei miei vent’anni, negli anni Settanta. Quelli in cui il mondo era ancora quello che guardavamo con i nostri occhi, che percepivamo con palpitazione nei nostri cuori, dove era ancora importante la parola data e la stretta di mano, dove la tecnologia sfrenata non ci aveva ancora rubato la mente. Il consumismo, unito alla voglia del benessere a tutti i costi, non ci aveva ancora imprigionato l’anima.

    Così durante le mie emozionanti e silenziose camminate mattutine del sabato, dentro i primi bagliori di luce, con lo sguardo rivolto al mare e all’alba, che delicatamente si affacciava sul golfo, ho sentito il desiderio di scrivere un libro, che toccasse però i sentimenti. Avrei voluto evitare la parola libro, perché definire libro quello che mi accingo a scrivere, forse è troppo impegnativo e solenne. Sarei più propenso a definirlo corteccia, così come deriva etimologicamente la parola libro dal latino (LIBRUM indica una delle tre parti della corteccia dell’albero, la più interna e morbida). Corteccia nel senso di protezione del fusto... dell’albero dei ricordi. Protezione da un mondo che va ormai verso un’altra direzione, che per quanto accetti di riuscire ad adeguarmi, non è più la mia direzione. Mi sono chiesto perché in molti di noi comuni mortali, si senta il bisogno di scrivere. Forse per raccontare qualcosa delle proprie conoscenze, esperienze. Per esprimere i propri desideri, timori. Per raccontare la propria vita o quella degli altri. Per suggerire, consigliare, comunicare il proprio pensiero. Per trovare un briciolo di immortalità, eternità. Le motivazioni potrebbero essere tante e varie. Mi sono chiesto perché in me è spuntato questo fiore emotivo e quale è stato il seme che lo ha fatto germogliare. Ho cercato lungo quelle bellissime passeggiate silenti, assorto nei pensieri ispirati dal chiarore del mattino, la risposta. Non è stata immediata, ma frutto di una sentita riflessione. Sì, forse il mio motivo è la corteccia dei ricordi, quelli vissuti con sentimento, protetti con nostalgia, lì nelle pagine, e avvolti nella copertina del tempo. Avere la possibilità di vivere e far rivivere immagini di un mondo lontano – persone care che non ci sono più – o che abbiamo ormai perso. Ricordi da sfogliare, che fanno compagnia e possono consolare, quando quel nostro mondo lo vediamo smarrito e ancor più allontanarsi irrimediabilmente. Le forze diminuiranno, la memoria potrebbe non venire più in nostro aiuto ed ingannarci nei meandri del tempo.

    La storia semplice, usuale come tante e in parte autobiografica, è ambientata negli anni Settanta. Perché gli anni Settanta? Forse semplicemente perché sono stati gli anni della mia giovinezza ed ognuno di noi, credo, sia portato ad enfatizzare e ricordare con nostalgia gli anni in cui si era giovani e si era più inclini a sognare che a guardare la realtà. Quei sogni che poi spesso si perdono nel tempo, lungo il cammino della vita. Sogni che si condivideva fra noi ragazzi: un mondo di pace, di giustizia, di amore, di uguaglianza, di solidarietà. Un mondo che si voleva cambiare, ma che invece ha cambiato molti di noi. Un mondo molto più semplice o, semplicemente, un mondo con più sentimenti.

    Voi ragazzi di quegli anni, ve li ricordate? Vi ricordate la musica straordinaria? Le partite del campionato di calcio, ascoltate alla radio o viste alla TV? Ma solo un tempo e solo la domenica sera in differita, o il mercoledì con la coppa dei campioni. Chi possedeva un pc a casa? Nessuno! E i telefonini ve li ricordate? Certamente no, perché non c’erano ancora! Quante altre cose non c’erano e quante invece c’erano o erano diverse da oggi. La musica affascinante e coinvolgente, con la nascita di decine e decine di gruppi pop, rock e progressive. Tanti dischi stupendi: i nostri 33 giri in vinile da ascoltare allo stereo (per chi se lo poteva permettere) o le musicassette pirata, comprate sulle bancarelle delle feste o riprodotte da amici, che si offrivano con piacere per la duplicazione. Sì, perché la musica era una gioia, un piacere profondo, che doveva essere condiviso. Doveva essere e appartenere a tutti noi. La bellezza di The dark side of the moon dei P. Floyd, di In the court of Crimson King dei King Crimson, di Selling England by the pound dei Genesis e di tanti e tante opere discografiche del periodo, doveva raggiungere il cuore di tutti noi, nessuno escluso. Anni straordinari ed irripetibili della musica, che sentivamo nostra, di quei dischi e musicassette che ci passavamo ripetutamente fra noi. Quella musica che quasi sempre ascoltavamo con il mangiacassette o mangianastri. Sì, è così che si chiamava il nostro strumento per ascoltare i brani musicali. Pochi di noi, infatti, avevano lo stereo e chi lo possedeva, quando usciva un nuovo disco, ci invitava a casa ad ascoltarlo. Poi se piaceva, ce lo riproduceva sul nastro magnetico. Con il tempo ed un pizzico di umorismo, ho capito forse il perché si chiamava mangianastri, perché i nastri delle musicassette, abbastanza di frequente, venivano mangiati, nel senso che si bloccavano e attorcigliavano tra la testina di lettura magnetica e la rondella di trascinamento. E noi, lì a bloccare immediatamente il tutto, a sganciare il nastro sottile e, quando si spezzava, effettuavamo una precisa unione chirurgica, armati di forbicine, nastro adesivo trasparente e… tanta, tanta calma e pazienza.

    Appassionati, come siamo ed eravamo, di sport e soprattutto di calcio. La domenica pomeriggio dalle 14,30 ci ritrovavamo per ascoltare tutto il calcio minuto per minuto, a volte a casa di qualcuno di noi, altre volte con la radiolina a pile e transistor che portavamo con noi per strada. Ascoltavamo la radiocronaca delle partite le gesta dei nostri eroi all’aria aperta, lì nella piazzetta o giù al cortile, dove potevamo tirare i calci e rincorrere il nostro amato e compagno esclusivo di giochi: il pallone. «Scusa Ameri...scusa Ameri...», Sandro Ciotti interrompeva per dire a tutti che Gigi Riva aveva fatto un gran goal di testa o in rovesciata e noi, con l’immaginazione, vedevamo il gesto atletico straordinario ed aspettavamo con gioia di poterlo ammirare in televisione a Novantesimo minuto e poi ancora a Dribbling e, infine, alla Domenica Sportiva. Le TV private in quegli anni non c’erano ancora (almeno nelle nostre zone) o erano pochissime. La RAI aveva solo il primo ed il secondo canale, il tutto in bianco e nero e alle 18,30 della domenica ci faceva vedere, in differita, un tempo della partita di calcio più importante della giornata di campionato di serie A. La nostra domenica finiva spesso così ed il lunedì mattina, con i libri sottobraccio, si tornava a scuola, avvolti dalla nostalgia di una domenica semplice, ma bella davvero. I cellulari non li aveva nessuno. In alcune delle nostre abitazioni non c’era ancora il telefono fisso, quello di colore beige con la tastiera tonda, che bisognava girare e rigirare per comporre il numero. I nostri contatti erano porta a porta, nel senso che si andava direttamente a casa dell’amico e si bussava al portone di casa o per vedersi ci si dava appuntamento il giorno prima, fissando luogo e ora. Se una ragazza ti piaceva, per rivederla dovevi capire dove abitava, la scuola che frequentava e dove andava a passeggiare... se usciva. Dovevi cercare i suoi occhi per capire se c’era una reciproca simpatia e trovare una scusa, un motivo e soprattutto il coraggio di avvicinarla. I genitori erano molto severi con i figli ed ancor più con le ragazze. Gli amoretti si intrecciavano tra i banchi di scuola, nel cortile prima dell’entrata in aula, all’uscita o alla ricreazione e, in estate, in riva al mare o sotto l’ombrellone. Il telefono di casa era un sorvegliato speciale dei genitori. Provare a chiamare un azzardo.

    Noi ragazzi dei paesi di mare, amavamo l’estate perché c’erano tante più occasioni per vedersi, conoscersi, per frequentarsi (soprattutto le ragazze che venivano in villeggiatura). Le giornate più lunghe e la calura estiva ci facevano trascorrere tutti i mesi estivi sulla spiaggia o sugli scogli vicini al mare: si iniziava a fine maggio e si finiva a fine settembre. Allora le scuole riaprivano il primo ottobre.

    Già… la scuola, dove fra dibattiti, assemblee, cineforum, scioperi e contestazioni si discuteva eternamente: la giustizia, la democrazia, il comunismo, l’uguaglianza, la solidarietà, la libertà, la destra e la sinistra. Lungo i corridoi e nei cortili della scuola, si faceva anche a botte, ci si rincorreva e si rincorrevano soprattutto le idee e i sogni. Nello spazio autogestito si invitava alla non violenza, alla autoresponsabilità. Poi la sera il TG ci informava che un altro personaggio di spicco del mondo industriale, del giornalismo, del mondo politico o della magistratura era stato gambizzato e poi, alzando il tiro, ucciso. Le brigate rosse di Curcio e Franceschini avevano formato il partito armato. Gli attentati dell’ultra destra reazionaria colpivano i treni e le piazze. Non passava settimana senza scontri fra fazioni di destra e sinistra o con la polizia. Spesso, troppo spesso, qualcuno rimaneva sul selciato senza vita.

    Le passeggiate domenicali a piedi o in bicicletta invece, ci dicevano che la crisi energetica e petrolifera aveva lasciato un’abitudine positiva nella nostra vita. La crisi petrolifera del 1973, ci rese consapevoli dell’importanza del risparmio energetico e dell’ecologia.

    Il mondo, e l’Italia in particolare, viveva gli ultimi anni prima che i computer e l’era digitale afferrassero le nostre menti ed il nostro mondo, mutando drasticamente le relazioni sociali.

    Introduzione

    La storia che vorrebbe raccontare i sentimenti, i valori importanti della nostra vita, si svolge nelle città di Formia e Gaeta, negli anni Settanta: nel 1975, fra l’estate ed il Santo Natale di quell’anno.

    È una storia semplice, in parte autobiografica.

    Federico in un pomeriggio inoltrato di inizio estate, conosce Aurora. I due ragazzi simpatizzano subito, ma l’estate scorrerà veloce senza che i due giovani si frequentino per davvero. Anche se siamo negli anni Settanta, non ci sono particolari ostacoli alla loro relazione sentimentale.

    Gli ostacoli maggiori sono le paure, le insicurezze, i timori ancora adolescenziali di Aurora. La paura di andare incontro a cocenti delusioni, di rimanere intrappolata in un innamoramento, la timidezza. I fantasmi che imprigionano i suoi pensieri, imprigionano anche l’amore che prova per Federico.

    Federico, che a differenza di Aurora, ha già avuto qualche breve storia con altre ragazze, rimane folgorato dalla dolcezza e timidezza della ragazza, dai suoi lineamenti gentili, dal suo sorriso dolce e un po’ malinconico, dal suo sguardo pieno di tenerezza e velato di timori.

    Amico del cuore di Federico è Gilberto. Federico e Gilberto sono legati da una profonda amicizia. Parenti e conoscenti dicono di loro che, sono talmente affiatati che si dividono perfino i sogni. I due amici vivono le bellezze, le contraddizioni e le paure del loro tempo: la passione per la musica pop e progressive, per lo sport in generale e per il calcio in particolare, l’amore per il mare e la natura, la corruzione, la politica, il terrorismo, la droga. I loro sogni sono soprattutto immateriali: la pace, la giustizia, la solidarietà, la lealtà, l’ecologia.

    A volte, insieme ad altri compagni ed amici, si domandano cosa sia la felicità e se esiste, se sia effimera e come raggiungerla.

    La sera della Vigilia di Natale, poi, Federico sente dentro sé una sensazione straordinariamente bella, una pace, una quiete assoluta, una completa serenità. Ha capito finalmente cos’è la felicità: è come ritrovarsi in una limpida notte, con gli occhi alle stelle. La luna piena, con la sua luce tenue, illumina il cielo. Ma la luce della luna, seppur indispensabile non è sufficiente – per essere felici non bisogna avere particolari preoccupazioni e problemi importanti – si devono accendere alcune stelle, quelle legate ai sentimenti ed ai valori che portiamo dentro: l’amore, l’amicizia, la famiglia, la solidarietà, la libertà, il credo religioso. Se almeno un po’ di queste stelle si accenderanno insieme, la loro luce illuminerà l’universo ed il nostro mondo. Ti sembrerà, allora, di vivere la magica notte di Natale. Quelle stelle si accorperanno fino a diventare la cometa che ti condurrà a conoscere ed assaporare la felicità.

    Esordio

    «Buongiorno mamma.»

    «Buongiorno... Federico, ti preparo il caffellatte?»

    «Sì, grazie mamma. »

    Al centro del tavolo della cucina, ricoperto da una tovaglia a fiori variopinti, c’era il vassoio in ceramica con il ciambellone ed i biscotti di pasta frolla a forma di stelle, sole, mezza luna. Dolci che la signora Maria aveva amorevolmente preparato con le sue mani. A Federico piacevano molto i dolci fatti in casa. Fece colazione ed andò a mettere il costume.

    «Dovrebbe bussare Gilberto, nel caso digli che sto per scendere.»

    Di lì a poco, si sentì bussare al citofono.

    «Gil, due minuti e scendo», disse Federico.

    «Va bene Fed, ti aspetto vicino l’edicola.»

    «Mamma, io e Gilberto andiamo al mare a Serapo. Dovrei ritornare a casa per l’una.»

    «Mi raccomando di essere sempre prudenti. Il mare va sempre rispettato in tutte le stagioni.»

    «Sì, non ti preoccupare.»

    La signora Maria, che nel prossimo mese di settembre avrebbe compiuto cinquant’anni, aveva un fisico asciutto e di media statura, capelli neri ed occhi neri. Era una donna molto semplice ed ordinata, dal carattere dolce ed accomodante. Tutti i vicini di casa le volevano bene e la rispettavano per la sua sincerità, generosità e disponibilità. Era però molto apprensiva, bastava che Federico e, prima, Giovanni, non rientrassero a casa alla solita ora, che iniziava a preoccuparsi ed agitarsi. Aveva cercato di trasmettere ai suoi figli quei valori morali: l’onestà, la lealtà, la pace, la solidarietà, la famiglia, l’amicizia, l’amore. Diceva sempre che è fondamentale nella vita, essere in pace con gli altri e con se stessi e che è molto più importante quel che si è, piuttosto che quel che si ha. Molto religiosa e credente, la domenica pomeriggio, terminate le faccende di casa, andava ad ascoltare la Santa messa alla chiesa di Santa Teresa o in quella della Madonna del Carmine. Conclusa la funzione religiosa, si intratteneva a parlare fuori la chiesa con suo fratello Emilio e sua cognata Lina. Quando rientrava a casa, trovava ad aspettarla suo marito Erasmo. Insieme parlavano e poi guardavano i programmi della televisione.

    Giovanni era il fratello di Federico, più grande di sei anni. Da un paio di anni, dal 1973, lavorava come impiegato alla Pirelli a Milano. Il papà di Federico, Erasmo, di quasi otto anni di età più grande di sua moglie, lavorava come operaio alla R. Ginori, una fabbrica di sanitari per bagno, a Gaeta. Fisico robusto, capelli ricci castani e brizzolati, di lì a pochi mesi sarebbe andato in pensione. Carattere deciso e severo, molto leale, considerava la parola data e la stretta di mano più importanti di un contratto scritto e sottoscritto. Uomo piuttosto taciturno, riusciva comunque a trasmettere ai suoi figli, quei valori che riteneva basilari: l’onestà, il senso del dovere, il rispetto degli altri, l’importanza del sacrificio e della volontà, per raggiungere i risultati nella vita. Della famiglia, faceva parte anche Arturo, un giovane bassotto dal pelo nero focato ed occhietti furbi ed espressivi. Stava quasi sempre insieme a Federico e durante l’anno scolastico, mentre il suo amico studiava, se ne stava sotto la scrivania a sonnecchiare, cercando a stento di reprimere i suoi movimenti vispi e la voglia di giocare. Gli bastava che Federico, di tanto in tanto, si accorgesse di lui e lo accarezzasse. La sua coda sottile si agitava nel vedere i componenti della sua famiglia ed impazziva, quando si sentiva chiamare anche perché molto spesso, ciò stava a significare che si usciva di casa e si andava a spasso. Così correva avanti ed indietro per il corridoio, fino a quando il guinzaglio non veniva agganciato al collarino rosso con la campanellina bronzata. Quando tornava Giovanni da Milano, appena lo vedeva, provava a saltellare dalla gioia.

    «Arturo, Arturo, perché rimani lì e non mi vieni a salutare? Non fare l’offeso, adesso non puoi venire con me, ma oggi pomeriggio andiamo in pineta e ci divertiamo.»

    Federico prese in braccio Arturo e lo accarezzò. Poi gli passò l’indice, in mezzo agli occhi e fino al naso. Arturo amava molto questo tipo di carezza e subito dopo in risposta, leccava la mano di Federico: era il suo bacio d’affetto.

    «Ciao, Fed.»

    «Ciao, Gil.»

    «Allora, proviamo a fare l’autostop?»

    «Sì ma se per le 9:40 non ci carica nessuno, torniamo qui alla fermata a prendere il bus.»

    Alle dieci erano sul lungomare di Serapo a Gaeta e poco più tardi, poggiavano i loro indumenti ed i loro teli sullo steccato bianco che divideva la Cambusa dal lido Oriente.

    La Cambusa era il tratto di spiaggia libera più grande della spiaggia di Serapo. Era così conosciuto, dal nome del bar omonimo che affacciava da un lato sulla strada e dall’altro sulla spiaggia. Era frequentato soprattutto da ragazzi e famiglie giovani. I ragazzi si intrattenevano spesso nello spazio adiacente il bar, circondato da palme ed altre piante, nonché da vasi con i fiori. Restavano seduti a parlare, consumando bibite, granite e gelati, ascoltando la musica del jukebox, all’ombra dei grandi ombrelloni verdi e delle palme.

    «Stamattina mentre venivo da te, ho incontrato Gerlando. Aveva con sé alcuni LP degli Emerson, Lake e Palmer. Mi ha detto che se ci fa piacere ce li duplica sul nastro magnetico», disse Gilberto.

    «Buona idea, degli ELP ho ascoltato solo Trilogy e Tarkus

    «Aveva Brian Salad Surgery e Pictures at an Exhibition. Allora compriamo un paio di cassette da 90 minuti e gliele diamo, che ne dici?»

    «Sì va bene, però adesso andiamo un po’ a sondare il terreno... anzi la sabbia in riva al mare e vediamo se c’è qualche ragazzetta interessante», propose Federico.

    «Caro amico mio, ho già sgamato una biondina con i capelli a caschetto ed una moretta coi capelli lunghi. Vedi sono in riva al mare, lato Miramare, hanno una il costume di colore nero e l’altra di colore rosso.»

    «Gil vedo che non hai perso tempo, ma adesso viene il difficile: come le agganciamo? Io proverei a gironzolare là vicino, ci facciamo notare e vediamo come reagiscono. Così capiamo anche con chi sono.»

    «Fed sei il solito temporeggiatore. Io partirei sparato e mi presenterei. Ma facciamo come dici tu, così evitiamo eventuali figuracce.»

    Gilberto era un ragazzo alto e robusto, capelli ricci e neri, carnagione scura. Di carattere molto impulsivo, era schietto e molto sincero. A volte però si pentiva della sua impulsività e talvolta anche della sua sincerità. Amava scherzare, ma non tollerava le punzecchiate offensive, che però subiva senza reagire, ma rimanendone visibilmente scosso. Aveva un senso della giustizia molto profondo, che estrinsecava in tutte le occasioni. Diceva di non essersi mai invaghito veramente di una ragazza. L’unica con cui si era sentito veramente coinvolto era Josephine, un’amica di sua cugina, che aveva conosciuto quando era stato ospite dei suoi zii a Lione, in Francia.

    Federico anche lui alto di statura, aveva un fisico piuttosto longilineo ma robusto nella muscolatura, soprattutto pettorale e dorsale, frutto anche di una passione per il nuoto che però praticava solo l’estate ed esclusivamente nell’acqua di mare, con lunghe nuotate. Del resto a Formia c’era una sola piscina, fra l’altro un po’ fuori mano e difficilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. Inoltre c’erano dei costi da sostenere. Capelli castani e un pochino ricci, aveva uno sguardo intenso ed espressivo tale da non riuscire a nascondere i suoi stati d’animo: i suoi occhi parlavano più delle parole. Al contrario di Gilberto, Federico non era per nulla impulsivo era anzi forse, fin troppo riflessivo, ma molto intuitivo. Scherzando, Gilberto gli diceva che, questo essere troppo riflessivo, con le ragazze non andava bene e quell’esitare, tante volte faceva sciogliere il gelato. Gilberto diceva anche che Federico piaceva a tante ragazze, ma spesso gli mancava il coraggio di fare il primo passo. Aspettava sempre di essere sicuro di piacere o risultare simpatico, prima di prendere l’iniziativa. Nei suoi diciotto anni, aveva avuto più di una relazione, brevi ma intense, però nessuna gli aveva fatto battere il cuore veramente.

    Federico e Gilberto, anch’egli diciottenne, dicevano sempre di non volersi sentire coinvolti sentimentalmente con le ragazze perché amavano essere liberi anche se Gilberto, forse, lo diceva più a parole e non avrebbe schivato un rapporto sentimentale più intenso.

    I due amici avevano appena frequentato e terminato entrambi il quarto anno dell’Istituto tecnico per Geometri Gaetano Filangieri a Formia sebbene in due sezioni diverse. La prossima estate, quella del 1976, sarebbero stati impegnati con gli esami di maturità.

    «Signora, ci può gentilmente prestare il pallone per qualche minuto? Stiamo qui a riva, fra un po’ glielo riportiamo», chiese Gilberto ad una giovane signora seduta sotto l’ombrellone.

    «Va bene, ragazzi.»

    «Vieni Fed, divertiamoci un po’ con la palla.»

    «Sì, ma avviciniamoci alle due ragazze.»

    Tra un tocco e l’altro, controllavano le ragazze che, a loro volta, avevano già notato di essere osservate. Era quello che voleva Federico, per capire se c’era simpatia tra loro.

    Restituirono il pallone ed andarono a sedersi vicino lo steccato, là dove avevano lasciato i loro sandali.

    «Allora che ne dici Gil?»

    «Non saprei, ma sei tu che hai l’intuito profondo. Tu cosa ne pensi?»

    «Dico che ci possiamo provare. Non mi sembra che siamo risultati antipatici... anzi!»

    «Fed, guarda stanno salendo verso la Cambusa! Andiamo anche noi.»

    «Aspetta un attimo, facciamole arrivare, poi andiamo anche noi!»

    Il jukebox, con intorno ragazzi e ragazze, suonava in quel momento la melodica canzone di D. Ross Do you know where you’re going to e poi gli America, i Chicago, Simon e Garfunkel, ma anche Baglioni e Battisti e Margherita di Riccardo Cocciante¹, che era stata gettonata almeno un paio di volte.

    Mentre Gilberto si intratteneva nei pressi del bar e poi del jukebox, Federico aveva colto l’attimo propizio per avvicinarsi alle ragazze.

    «Di dove siete?», domandò.

    «Perché?», rispose la ragazza con i capelli biondi.

    «Perché, con il mio amico abbiamo fatto una scommessa, lui dice che siete di Roma, io invece dico che vivete da queste parti... almeno ci spero.»

    «Ebbene, hai perso la scommessa. Noi viviamo a Roma, anche se mio padre è di Gaeta. I genitori della mia amica invece, sono di Formia ma ormai abitano a Roma da una ventina d’anni.»

    Nel frattempo Gilberto si era avvicinato ed aveva iniziato a parlare con l’altra ragazza.

    «Da quando venite al mare?», domandò Gilberto.

    «Da due giorni.»

    «Con chi state e dove?», chiese Federico.

    «Stiamo con mia madre e mia zia», rispose la biondina, poi aggiunse «abbiamo l’ombrellone al lido Oriente, ma veniamo alla Cambusa, perché ci sono tanti giovani»

    «Come vi chiamate?», chiese Federico.

    «Io Antonella», rispose la ragazza mora.

    «Io Giusy», disse la biondina.

    «Bene, io sono Federico.»

    «Ed io Gilberto, ma per me ed il mio amico, lui è Fed ed io sono Gil.»

    Il pomeriggio alle 18, i due amici si diedero appuntamento e tornarono a Gaeta. Passeggiarono lungo il corso e poi sotto i platani, lì al centro, di fronte al palazzo comunale. Poi andarono sul lungomare Marina di Serapo e nei pressi dello stabilimento balneare Oriente, nell’intento di rincontrare Antonella e Giusy. Non incontrarono le ragazze ma il mattino seguente, erano di nuovo alla Cambusa.

    «Fed...eccole! Camminano lungo la battigia, andiamo!»

    «Aspetta, vediamo cosa fanno!»

    Le due ragazze si fermarono in riva al mare, poi entrarono nell’acqua.

    «Gil a te piace Giusy?»

    «Sì, è carina.»

    «Bene, a me piace Antonella... adesso possiamo andare!»

    Passarono tutta la mattinata insieme. Giocarono a pallavolo nel mare, poi al jukebox. Federico si intratteneva soprattutto con Antonella, Gilberto faceva lo stesso con Giusy. Parlarono di scuola, di musica, dei loro hobby. Gilberto domandò fino a quando si sarebbero trattenute a Gaeta in vacanza.

    Federico e Gilberto poi, andarono a fare l’autostop a Piazza Roma, nei pressi della fermata del bus. Il pomeriggio avevano già deciso di ritornare, perché anche se non si erano dati appuntamento con le ragazze, avevano intuito dove trovarle.

    ¹ Margherita di Riccardo Cocciante è in realtà un 45 giri del 1976, ma è volutamente inserito perché mi fa tuffare nei ricordi.

    Aurora

    In quel pomeriggio di metà giugno, l’aria calda si faceva sentire sensibilmente sulla pelle. Questa volta, con l’autostop, scesero sulla Flacca, all’inizio di via Europa.

    Federico e Gilberto scesero lungo la strada, si ritrovarono sul corso e poi sul viale dei Platani.

    «Fed, quella ragazza seduta alla panchina non è Silvia?»

    «Sì Gil, è proprio lei. Mi raccomando, non fermiamoci a parlare per troppo tempo, ricordati che dobbiamo cercare Giusy ed Antonella».

    Silvia era una ragazza dai capelli color rame, occhi neri e carnagione scura. Aveva frequentato il secondo anno di ragioneria, all’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri G. Filangieri, la stessa scuola di Federico e Gilberto. La scuola era infatti divisa in due grandi ali a forma di U. Da una parte c’erano le aule dell’istituto commerciale e dall’altra quelle dell’istituto tecnico per geometri. Al centro, tra le due ali, c’era un grande cortile che immetteva, attraverso una piccola rampa di scale, nell’atrio. Nel cortile gli studenti si riversavano nei quindici minuti di ricreazione giornaliera, quando dovevano contestare o scioperare o vi sostavano al mattino, prima che suonasse la campanella.

    In una di queste occasioni, Gilberto aveva conosciuto Silvia. Silvia piaceva a Gilberto e tutte le volte che la incontrava, rimaneva volentieri a parlare con lei. Anche Federico conosceva Silvia.

    Silvia era seduta insieme ad un’altra ragazza, su una delle ultime panchine del viale. Gli alti platani, con le loro grandi foglie, ombreggiavano le panchine, poste da entrambi i lati. Panchine che soprattutto d’estate erano sempre occupate da persone di tutte le età, in cerca di frescura.

    «Ciao Silvia», salutò Gilberto.

    «Ciao», rispose lei,-e poi-, «ciao Federico».

    «Ciao», rispose Federico.

    «Che fate da queste parti?», chiese Gilberto.

    «Io e la mia amica, siamo state sul lungomare di Serapo ed adesso ci stiamo riposando all’ombra degli alberi… a proposito, vi presento la mia amica Aurora.»

    «Ciao, Aurora io sono Federico.»

    «Ed io sono Gilberto.»

    Silvia ed Aurora rimasero sedute, mentre Federico e Gilberto erano lì, in piedi, davanti a loro. Gilberto iniziò a dialogare con Silvia e Federico provò a parlare

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