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Ambaradam
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E-book215 pagine3 ore

Ambaradam

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Come sempre quando si tratta dei libri di Salvatore Fazìa, qui autore a quattro mani con l’artista Luciano Lora, anche Ambaradam è un testo intrigante, che sin dal titolo stuzzica l’attenzione e la memoria, perché il termine ci è familiare... Infatti l’Amba Aradam è un altopiano africano dove, durante la Guerra d’Etiopia, nel febbraio del 1936, ebbe luogo una celebre battaglia tra le forze italiane e le forze etiopi. Gli eventi accaduti durante la battaglia, che ha visto un continuo alternarsi di alleanze e controalleanze, hanno originato il termine italiano ambaradan, che significa confusione, impresa complessa, baraonda. Diciamo questo solo per spiegare per quale motivo il titolo suoni conosciuto, perché Ambaradam non parla né di guerra né dell’Africa, anche se nelle pagine introduttive c’è un accenno all’origine storica del nome, ma è dedicato ad una serie di mostre “tra arte e non arte”, curate appunto da Luciano Lora e Salvatore Fazìa, ospitate a Villa Valmarana di Velo d’Astico negli anni 2005, 2006 e 2007.
Il libro potrebbe sembrare una sorta di guida a queste mostre, con una parte centrale fotografica che documenta le opere esposte nelle diverse edizioni, ma, come suggeriscono i suoi autori, più che come catalogo va letto come rappresentazione narrativa e scenografica del fenomeno non-artistico. In questo senso è molto interessante l’ultimo, ampio capitolo, che affronta l’argomento della non arte e dei suoi protagonisti, da Duchamp, col suo concetto di “ready made”, in avanti.
Il libro in un certo senso riprende i contenuti di “in Contemporanea”, precedente pubblicazione del solo Fazìa, in cui si difende il diritto di giudicare l’opera d’arte senza essere influenzati da presentazioni che in qualche modo suggeriscano che cosa pensarne. Anche Ambaradam non offre al lettore descrizioni o commenti, ma idee e pensieri utili a cercare di capire. Per restare in tema, è una “non-guida” ad una mostra di “non-arte”...
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2014
ISBN9788884497147
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    Anteprima del libro

    Ambaradam - Salvatore Fazìa

    (Cioran)

    Introduzione

    "Qualsiasi scarto 

    funge da opera d’arte con la conseguenza che qualsiasi opera d’arte

    funge da scarto" (Baudrillard)

    A conti fatti i mondi sono due: quello antico e quello moderno. Fino, mettiamo, al ‘600, il mondo antico conserva intatto il suo universo di tempi e di spazi, di forme e figure: paesaggi e personaggi sono complessivamente gli stessi. Il piano fisso entro il quale si svolge la vita è quello della terra, è su questa superficie che l’umanità recita il suo modo di esserci e d’inventarsi: socialità e creatività fanno problema, la cui sintesi finale, la più geniale, si compie in Italia e in quel modo ineguagliabile del Rinascimento, quando si perviene alla rappresentazione più alta e più complessa di tutto il mondo precedente, fisico e intellettuale.

    Il mondo antico si può differenziare in più epoche - di più ancora il mondo moderno, benché sia stato abbastanza più breve - quelle del mondo antico sono tra loro relativamente più lunghe, la tradizione ne regola la durata secondo la formula: a.C e d.C, La formula è giusta, perché nessun altro evento avrebbe segnato quella storia e quella svolta come l’evento/avvento di Gesù Cristo.

    Il mondo antico è stato il mondo di una cultura che è vissuta e ha pensato all’interno del mondo della natura. La parola che ne esprime la narrazione naturalistica è mimesis, la parola è di Platone.

    All’origine del mondo antico infatti c’è Platone.

    Platone, la mimesis, la lega all’arte, ai modi di fare dell’arte, ma è possibile estenderla all’intero sapere degli antichi, che, nell’imitazione del passato e del mondo, così come l’hanno trovato, hanno investito forme e norme della vita 

    L’arte, in primis - ma ogni altra tecnica di rappresentazione nell’ambito del mondo antico - è mimesis, imitazione, la parola è la chiave delle forme e delle norme per conoscere il mondo e la natura, secondo forme e figure di una cultura che vive e pensa al traino della tradizione (antico da ante, ante uguale a prima) e della memoria: in latino il sapere era il ricordare, scire nostrum est reminisci. Una società relativamente statica è durata per così tanto tempo senza cambiare il proprio stato generale, nell’arco di almeno duemila e cinquecento anni succede poco nei rapporti sociali, i cambiamenti sono orizzontali, in superficie, e il rapporto con la natura, la società e la cultura, nel reale e nell’immaginario, si mantiene nel variare dei tempi sempre lo stesso.1

    L’imitazione ripete le cose, sono sempre le stesse: cose e forme, le variazioni sono poche, non muta mai né il principio attivo dell’imitazione né la messinscena e la rappresentazione di cose e pose. Essa stessa avanza anche nei tempi a venire, penetra negli stessi tempi della modernità, dove in parallelo e in contrasto con i processi di modernizzazione, tira avanti per un pezzo, e certamente non in modo insapore, un conto essendo per esempio i modi del neo-classicismo, e i modi del romanticismo… 

    Il mondo, entro il quale il nuovo processo comincia ad agire, è quello stesso dei millenni precedenti: una società relativamente statica è durata per così tanto tempo senza cambiare il proprio stato generale. Su basi agricole, essa ha mantenuto presso a poco lo stesso sistema di vita materiale e morale: nell’arco di almeno duemila e cinquecento anni succede poco nei rapporti sociali, i cambiamenti sono orizzontali, di superficie, si tratta in generale di etnie e di loro vicende militari. Questo influenza e modifica i costumi, i riti e i miti, la nomenclatura (demos e aristoi, patrizi e plebei): ma il rapporto con la natura, la società e la cultura, nel reale e nell’immaginario, si mantiene nel variare dei tempi sempre lo stesso.

    Il mondo antico in effetti mostra di funzionare come un sistema che mantiene nel tempo le sue costanti, il cui cardine - miti e riti - è la divinità: Dio o gli dei nelle diverse varianti figurative e onomastiche, nonché nelle predicazioni escatologiche, apologetiche …la divinità è l’axis mundi. Il mondo pensabile è diviso tra dei e uomini, e la trascendenza regola l’esistenza: la morale è il modo di vivere secondo questa regola, che dirige in tutto e per tutto la coscienza. Ma la coscienza etica e morale è bifronte, il soggetto si piega a Dio, e, in ordine decrescente, agli uomini.

    Platone è il più grande filosofo e sceneggiatore dell’antichità: dialoghi, conversazioni e personaggi, parole sì ma metaplasmi, forme mai informazioni: la vita ha forma, è una caverna, è il luogo delle ombre, la sua interpretazione del mondo durerà fino a quando avrà inizio l’altro mondo, quello nuovo e sviluppato, quello moderno. Inutile cercare oltre lo spettacolo e gli effetti di sistema nella realtà pre-moderna, i termini modulari e le modalità di pertinenza della realtà antica presentano tutti i tratti tipici di un sistema tra regole di coerenza interna e forme di differenza esterne con tutto quanto sta fuori. Un mondo di identità, che funziona omogeneo e compatto come un sistema regolato da principi e regole di funzionamento, è caratterizzato da stabilità e consistenza: tanto più evidente quanto più lo si confronti con il mondo dopo, quello successivo e nuovo della modernità, che industria e mercatizzazione, produzione e consumo, incardinati sul dominio del danaro, strutturano in tutt’altro modo secondo un sistema che è tutto un altro mondo, nuovo e talmente diverso che Carlo Marx ha definito come mondo capovolto.

    E di capovolgimento si tratta, se è vero che per esempio al posto di Dio c’è l’Io che crea il nuovo mondo, l’Io come figura d’impresa, per la prima volta completamente autonomo rispetto a forze estranee o sovrannaturali, che ha rovesciato l’ordine dei problemi, concependo il mondo in funzione della vita, che ha fatto il gesto dell’uomo sveglio e ha detto: Io sono, non sogno. Agisco, dunque non sogno, dunque sono. Segue poi l’idea d’impresa e di possesso: l’Io signore degli oggetti, l’avere che precede l’essere. In primo luogo lavoro, poi proprietà .2 

    Wilhelm Meister è considerato il capostipite del Bildungsroman (romanzo di formazione) della modernità. Friedrich Schlegel giunse al punto di definirlo uno dei tre eventi più importanti del Settecento, insieme alla Rivoluzione francese e alla filosofia di Fichte. Nel Wilhelm Meister, capolavoro di Johann Wolfgang Goethe, Goethe mette per la prima volta in scena quel dissidio tra arte ed economia, e più in generale tra arte e vita, che sarà uno dei motivi fondamentali e ricorrenti della intera cultura moderna. Figlio di un intraprendente e facoltoso commerciante, Wilhelm non può adattarsi alle regole della vita borghese, al mondo degli affari, che gli sembra arido e unilaterale, e soprattutto avverte che l’identità costruita sulla ricchezza è fragile e inconsistente. 

    Tra il Sette e Ottocento l’Europa precipita nella modernità, il capovolgimento ha i suoi drammi che coinvolgono la società nel suo processo di rivoluzione politica e sociale, una vasta letteratura ne racconterà le molteplici e radicali trasformazioni non senza il turbine della violenza, che sconvolgerà le tradizioni e le forme di vita dei singoli.

    Moderno nasce da modus hodiernus, così il tempo, come quadro degli avvenimenti e come cornice di riferimento, non è più il passato, ma è improvvisamente il presente, nel senso più impellente di quotidianità e urgenza in cui la vita perde la sicurezza della sua stessa ripetizione e prende la precarietà di tutto quanto giorno per giorno sta per avvenire, e in tutto quello che sta per succedere: il nuovo mondo non è più retto e protetto dalla teologia, alla teologia, come utopia e logica dell’essere, subentra e s’oppone la tecnologia, che di colpo annienta ogni residuo umanistico, ideale e sentimentale del passato, e dispone o pone di forza gli individui in apprensione e in tensione verso quel che bisogna giorno per giorno diventare, prendere e apprendere. D’ora in poi, e fino ai nostri giorni, si vive progressivamente la tensione continua tra quello che si è e il riuscire ad essere altro da sé, continuamente in vista di qualcos’altro, centrando sistematicamente il proprio divenire da una parte sulla negazione di qualcosa che si è, e dall’altra sulla negazione di qualcosa del mondo e del come si era: è quel che Hegel chiama alienazione. L’alienazione è l’effetto prodotto nel soggetto, e poi lo stato morale in cui precipita la coscienza, la cui parola motrice è innovazione.

    C’è una metafora, è un’opera d’arte, la sceglie e la spiega Walter Benjamin: è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede solo una catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo.

    Come la storia, anche la storia dell’arte è divisa in due epoche, l’arte antica e l’arte moderna, diventano drammaticamente opposte, imprevedibilmente opposte… difficile raccontarne la vicenda e la drammaticità con la quale è stata vissuta… giustificarla senza rilevarne il trauma storico, lo shock che ne ha accompagnato il cambiamento. Impossibile rendersi conto di quello che è stato ed è tuttora il processo violento che a un certo punto ha investito l’arte, e ne ha determinato il capovolgimento. Incomprensibile il fenomeno della modernizzazione dell’arte senza storicizzarne il processo, senza trovarne il processo all’interno del cambiamento più vasto e più profondo che a un certo punto è venuto a verificarsi. Il caso dell’arte è poi il caso della soggettività umana più radicale, dove il reale, l’immaginario e il simbolico trovano il loro movimento di individuazione e di formazione: l’arte è tout-court l’identità storica dell’uomo.

    Anche la non-arte?

    La non-arte non è l’anti-arte, è qualcos’altro: l’anti-arte trova il modo artistico di destituirsi dalla storia dell’arte, il modo di portare l’arte alla sua stessa fine: è questa l’idea fondamentale della modernità e della stessa modernizzazione dell’arte. E’ difficile, ma si potrebbe dividere le due storie e con loro le due epoche artistiche secondo l’uso storico del sì e del no: la storia antica e l’epoca antica dell’arte potrebbero costituire un proprio sviluppo secondo l’uso normativo del Sì, come paradigma di quelli che sono stati chiamati valori, presenti in tutti i campi, religiosi, politici, sociali, epistemologici… diversamente la storia moderna e la rivoluzione moderna dell’arte hanno riaperto e ripreso tutti i giochi della vita e del mondo sviluppando all’infinito l’uso normativo del No di tutti gli stessi campi dei valori del passato, capovolgendone uso e senso.

    La non-arte, che è il nostro tema di ricerca e di definizione, supera e si defila dalle due culture, antica e moderna, e in parallelo evolutivo con l’epoca più recente del post-moderno, drammaticamente ormai in caduta libera da ogni cielo del passato, antico e moderno, diventando qualcosa del reale, dell’immaginario e del simbolico, che non ha nulla più a che fare con quanto è stato ieri, l’oggi, ma che da qualche tempo investe sempre più forme e norme del domani, peraltro già iniziato.

    La non-arte fa parte di quest’ultimo tempo.

    Il nuovo mondo, il mondo moderno, quando nasce, nasce in silenzio, praticamente non se ne accorge nessuno, i promotori, gli attori dell’impresa, i primi industriali, che ne inventano i modi e i mezzi saranno chiamati i nati dal nulla, escono in forma sparsa, non danno nell’occhio: è la rottura storica dell’iniziativa privata, è solo un certo fenomeno nell’ambito della tecnologia del lavoro che rompe la linearità storica precedente, sono i figli di nessuno i primi operatori industriali, lavoratori comuni che inventano macchine e moltiplicano produzione e guadagno. Solo più tardi la scienza e la ricchezza tradizionale convergeranno su questo imprevisto turbine dell’economia, in pratica i primi sette o dieci decenni sono stati opera non di scienziati, ma di artigiani spesso analfabeti, che empiricamente hanno messo a punto e perfezionato alcune macchine. E’ nettissima la prevalenza, tra i fondatori delle imprese industriali, di persone di origine modesta e soprattutto di ex-agricoltori.3 L’inizio è discreto, non è appariscente, non se ne parla, i Philosophes non sembra abbiano fatto nulla per attirare l’attenzione sull’importanza della trasformazione e dei processi che stavano organizzando la realtà e la situazione. Gli stessi Enciclopedisti non credono all’avvenire dell’industria4.

    Il big-bang del cambiamento non è avvertito, ma presto, data la velocità impressa al movimento del cambiamento, cominciano le prime avvisaglie di una qualche reazione di coscienza, si apre abbastanza per tempo un periodo di discussioni e di prese di coscienza circa la novità dei processi in atto e una prima valutazione, tra i pro e i contro, di quanto stava succedendo in termini di forme di vita. 

    Non appena si fanno vedere i primi risultati, dove lo sviluppo del macchinismo industriale comincia a moltiplicare le produzioni - e con esse le scene di mercato, che apre alle prime e alle nuove opportunità relative ai primi consumi sociali e di massa, e il denaro prende la via del suo stesso sviluppo capitalistico, con quel che va a mutare nelle forme di vita della città e dei nuovi ceti sociali e urbani - l’atmosfera pubblica e politica viene investita dalle prime discussioni e polemiche, e nella vita delle nazioni più avanzate si apre tutta una stagione di opposte opinioni, specialmente in Inghilterra dove si dà il via a una vera e propria drammaturgia di contrasti, i contrasts, e si levano le prime e più significative voci di condanna dei nuovi processi e dei loro sviluppi. Notissima la polemica di campioni della politica dei contrasts come Edmund Burke, considerato il primo conservatore moderno, e William Cobbett, considerato il primo grande tribuno del proletariato industriale. Significativa come documento del periodo la lettera che Burke invierà a un amico in cui senza mezzi termini esprime tutta la propria condanna al processo in corso: «Voi vedete, mio caro signore, che io non mi soffermo sulle differenze riguardanti il metodo migliore per prevenire lo sviluppo di un sistema che credo entrambi non amiamo. Non posso dissentire da voi, perché penso che nessun metodo possa prevenirlo. Il male è accaduto… Tutto quello che ho fatto ultimamente, e tutto quello che farò da ora in poi consisterà esclusivamente nel dichiararmi innocente dall’aver preso parte, attivamente e passivamente, in questo mutamento».5 In oscillazione, con queste posizioni di Burke, presto prenderà posizione favorevole al nuovo mondo del cambiamento lo stesso Stuart Mill, che nel 1851, è ancora amico di Marx, e che, grazie alla severità e alla intensità degli studi cui l’aveva obbligato il padre,6 può pensare e scrivere: «Considerate, per esempio, il problema di quanto ha guadagnato l’umanità dalla civiltà. Un osservatore rimane violentemente colpito dal moltiplicarsi degli agi materiali, dal progresso e dalla diffusione del sapere, dal decadere della superstizione, dalle possibilità degli scambi reciproci, dall’ingentilirsi dei modi, dal declinare delle guerre e dei conflitti personali, dalla graduale diminuzione della tirannia del forte sul debole, dalle opere compiute in tutto il globo grazie alla cooperazione delle genti: egli (l’osservatore) diviene quindi quel personaggio così comune, l’adoratore della nostra età illuminata».7

    Se Platone è il più grande filosofo e sceneggiatore dell’antichità: dialoghi, personaggi, parole sì ma metaplasmi, non dati, forme mai informazioni: la stessa vita ha orma, è quella di una caverna, la caverna è il luogo delle ombre, la sua interpretazione del mondo durerà fino a quando avrà inizio l’altro mondo, quello nuovo e capovolto, quello moderno… Hegel, George Wilhelm Hegel, è il più grande filosofo e sceneggiatore della modernità: ne mette in scena la fenomenologia dello spirito, vera e propria drammaturgia della nuova soggettività come istanza di elaborazione della nuova oggettività, con la quale l’io trasforma il vissuto nell’idea speculativa e dialettica, nella quale alla fine viene a costituirsi la nuova mitologia, che la tecnologia dello spirito garantisce in termini di innovazione continua e in fondo di alienazione soggettiva: il discorso filosofico ha luoghi diversi, conversazioni d’altro genere, non com’erano in Platone, ma è la macchina gigantesca dello spirito che macina la lavorazione dell’oggetto della conoscenza, poiché - come afferma Hegel - lo spirito è artista.  

    La parola nuova, esclusiva-inclusiva, quella della più attiva filosofia di Hegel, è alienazione: essa è il risultato finale del lavoro del soggetto, alla fine determina lo scioglimento dell’oggetto nel soggetto e questo a

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