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L'Ultimo Tiro: Storie di chi non si è arreso a un destino di sconfitta
L'Ultimo Tiro: Storie di chi non si è arreso a un destino di sconfitta
L'Ultimo Tiro: Storie di chi non si è arreso a un destino di sconfitta
E-book164 pagine2 ore

L'Ultimo Tiro: Storie di chi non si è arreso a un destino di sconfitta

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Info su questo ebook

Nello sport, come nella vita, ci sono vittorie e vittorie, così come esistono sconfitte differenti. A volte le prime sono il semplice manifestarsi di un destino ineluttabile, la scansione temporale di qualcosa che avviene perché deve accadere, perché, in qualche modo, l’alternativa non è contemplata. Altre volte, però, accade l’imponderabile, e la storia si ribella a sé stessa, come se rifuggisse l’idea di essere già scritta, prigioniera di una sorte inevitabile. La raccolta degli episodi sportivi che Valerio Iafrate descrive nelle pagine di questo volume è un elogio della grandezza, quella che è in ognuno di noi e in coloro che sembrano deboli, la grandezza di chi era destinato alla sconfitta ma si è ribellato al fato. Cambiando la storia. Prefazione di Nicoletta Romanazzi
LinguaItaliano
EditoreLab DFG
Data di uscita27 lug 2023
ISBN9791280642363
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    Anteprima del libro

    L'Ultimo Tiro - Valerio Iafrate

    Capitolo 1

    Quegli incredibili dieci minuti

    Le notti d’estate, a Tokyo, sono quasi sempre tiepide e senza vento: la temperatura, mitigata dall’aria fresca della baia, raramente supera i 22-23 gradi.

    Quella del 1° agosto del 2021 non fa eccezione: 21 gradi, umidità del 60%, condizioni ideali per correre e saltare.

    Che poi è quello che Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi – che tutti chiamano Gimbo – sanno fare meglio.

    Gimbo è il capitano della nazionale italiana di atletica leggera, ha un credito con la sorte che se potesse trasformare in denaro sarebbe multimilionario: cinque anni prima, in una notte tiepida come quella di Tokyo ma a metà luglio, con la brezza del mare che saliva dalla Costa Azzurra, si è distrutto i legamenti della caviglia sinistra, quella del piede di stacco, la stessa caviglia che usa per inarcarsi oltre quell’asticella cercando di eguagliare la miglior prestazione stagionale del suo amico del Qatar Mutaz Essa Barshim – che in questa storia di amicizia, salti, corse e minuti da fantascienza tornerà da protagonista – dopo aver stabilito il primato italiano a quota 2,39 metri.

    Intervento chirurgico, gesso, fisioterapia, rieducazione: un percorso accidentato che chiunque abbia fatto sport un po’ conosce. A Gimbo, però, tutto questo costa un’edizione dei Giochi Olimpici, quella di Rio de Janeiro e chissà quante lacrime.

    Ecco perché, adesso, sul tartan rosso della pista di atletica di Tokyo, nella zona riservata ai saltatori in alto, c’è la metà esatta di quello che cinque anni prima era stato il gesso post-operatorio: non una copia o una riproduzione, è proprio l’originale che Gimbo si è portato appresso dall’Italia un po’ per scaramanzia un po’ come talismano, soprattutto come sprone emotivo.

    Qualche metro più in là rispetto a dove giace il gesso-memoria di Gimbo stanno cominciando il riscaldamento i finalisti dei 100 metri, l’evento più breve ma mediaticamente più intenso dell’intero programma olimpico.

    Tra gli otto finalisti che da lì a una manciata di minuti sfrecceranno a quasi 40 km/h su quella pista rossa c’è, per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, un italiano.

    Lamont Marcell Jacobs Jr. è nato a El Paso, in Texas, dove la mamma Viviana ha seguito Lamont, il papà di Marcell, militare americano di stanza alla Caserma Ederle di Vicenza. Quando l’esercito americano decide di trasferire il sottufficiale Jacobs in Corea del Sud, Viviana e Marcell tornano in Italia a Desenzano del Garda, dove Lamont non si farà più vedere lasciando una cicatrice profonda nel cuore di Marcell.

    Che intanto comincia a correre e a saltare, non in alto come Gimbo ma in lungo, sognando di imitare le imprese di Carl Lewis, il Figlio del vento, il suo idolo di gioventù che peraltro, per ragioni anagrafiche, ha visto solo in qualche spezzone di repertorio o nei meravigliosi film olimpici del CIO.

    Il problema è che correre e saltare, soprattutto se sei un gigante di un metro e 84 e pesi 88 chili, stressa parecchio muscoli, tendini e articolazioni esponendoti al rischio di infortuni più o meno seri, ma sempre fastidiosi come ad agosto del 2016 quando, dopo aver saltato un fenomenale 8,48 metri ai campionati italiani di Bressanone – sarebbe la miglior misura mai raggiunta da un atleta italiano, ma un refolo di vento in più rispetto a 2 m/s consentiti dal regolamento ne impedisce l’omologazione – una lesione al quadricipite destro ti impedisce di salire sull’aereo per Rio de Janeiro.

    Ma quella lesione è il tassello di una storia che cambia quando incontra un allenatore che, pure lui, correva ma soprattutto saltava, non in lungo ma con l’hop-step-jump, quella formuletta in inglese con cui i triplisti individuano la loro azione.

    Paolo Camossi, ex triplista di straordinario talento, con quelle caviglie esplosive che lo portano a vincere un Mondiale al coperto, nove titoli italiani – sette all’aperto due indoor – e a una finale olimpica in Australia nel 2000, intuisce che le fibre muscolari di Marcell, tanto delicate quanto esplosive, hanno solo bisogno di essere indirizzate verso una specialità sola: la velocità.

    La decisione è presa: Marcell diventa un velocista puro, e la sua carriera decolla. E si alza in volo così tanto da schiudergli traguardi che, forse, nemmeno lui sognava di raggiungere. O forse sì, perché se a un velocista – che nel frattempo diventa l’italiano più veloce di sempre, abbattendo il muro dei 10 come aveva già fatto qualche mese prima Filippo Tortu, il suo gemello diverso – togli il sogno della finale olimpica, togli più o meno tutto. E alla finale olimpica, cinque anni dopo il Brasile mancato, Jacobs ci arriva da uomo più veloce del vecchio Continente, con quel 984 stratosferico corso in semifinale un paio d’ore prima, che relega indietro un signore britannico che si chiama Linford Christie e che a Barcellona, nel 1992, mise in fila il mondo. Vuoi vedere che…?

    Prima della finale, con ancora nelle orecchie l’urlo di Gimbo che, abbandonata per un attimo la pedana, gli corre incontro e lo abbraccia gridando Ti rendi conto che cazzo hai fatto?, c’è tempo solo per un sonnellino ristoratore, come faceva il suo idolo Carl Lewis tra una gara e l’altra: power nap si chiama, e dura venti minuti. Tanto basta a restituirgli tutte le energie secondo Nicoletta Romanazzi, la mental coach che cura i suoi pensieri, a differenza di Camossi che cura i suoi 45 passi e mezzo, quelli che gli servono per fare cento metri.

    E allora eccolo, Marcell, che comincia a scaldarsi piano nella sera tiepida di Tokyo, dando ogni tanto un’occhiata a quello che succede dall’altra parte della pista, dove il suo capitano sta lottando furiosamente contro tutti in una delle finali di salto in alto più intense della storia olimpica.

    Ed è davvero un peccato, maledetta pandemia, che il pubblico sia così scarso, che sulle tribune ci sia così poca gente – il Giappone ha chiuso le frontiere agli stranieri – a godersela.

    Gimbo nel frattempo, mentre Marcell comincia a intensificare il riscaldamento, ha saltato 2,37 senza mai sbagliare e chiedendo sostegno al poco pubblico (lui si carica così) al decimo salto e con l’asticella a 2,39 ha cercato di forzare, ma non c’è riuscito.

    Tra un salto e l’altro, con papà Marco che urla con e contro di lui e gesticola, come e più del figlio, ha fatto di tutto: pregare in ginocchio, agitare le gambe, mimare un tiro a canestro – va matto per il basket, dopo l’impresa di Tokyo è stato invitato dall’NBA per un’esibizione con altri Vip e l’ha definito il terzo giorno più bello della sua vita, dopo il matrimonio con Chiara e l’oro olimpico.

    Mentre il riscaldamento di Marcell entra nella fase più delicata, quella della messa a punto dell’uscita dai blocchi – che dopo il cambio di regolamento è lo spauracchio di ogni centometrista – a provare a superare il 2,39 rimanevano in due, Gimbo e il suo rivale-amico Barshim, papà da poco, anche lui operato al tendine d’Achille, sfinito pure lui.

    "Can we have two gold?", ha chiesto Mutaz al giudice di gara, dopo aver guardato Gimbo che faceva di sì con la testa.

    Possiamo avere due ori?. Ma sì, certo che si può fare: uno a testa, ex aequo, senza dover continuare a farsi del male.

    Anzi, vieni qua, Barshim, amico mio, fatti abbracciare, campioni olimpici, ti rendi conto? Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo il dolore, le lacrime, le notti a sfidarsi alla Playstation e a scambiarsi messaggi di auguri, di incoraggiamento, di congratulazioni.

    Un oro da amici, amici veri.

    Come quell’altro, laggiù, che tra pochi minuti corre la finale dei 100 metri, pensa Gimbo, che nel frattempo ride e piange, salta e corre a recuperare quel mezzo gesso che adesso è un trofeo, un monumento alla volontà invece che il ricordo di un incubo.

    E adesso, cosa posso fare, pensa Gimbo, se non recuperare una bandiera e piazzarmi qualche metro dopo il traguardo ad aspettarlo?

    Marcell, intanto, si risistema ai blocchi dopo la falsa partenza che ha eliminato l’inglese Hughes, lasciando vuota la corsia alla sua destra.

    Guarda avanti, forse lo intravede pure il capitano, con la canotta azzurra e la bandiera in mano, ma più che guardarlo ne percepisce appena la presenza tanta è la concentrazione, una bolla che ti isola dal mondo.

    Il vento nel frattempo è calato, l’aria è immobile, come a volersi godere pure lei quei dieci secondi.

    No, macché dieci. Con dieci secondi non vai da nessuna parte in una finale olimpica. Marcell esce dai blocchi con il penultimo tempo di reazione, ma è normale, con le leve lunghe che si ritrova: quando si rialza, però, ha già raggiunto l’americano Kerley, il pericolo numero uno, l’avversario con la A maiuscola. Le finali dei 100 metri, diceva Usain Bolt – l’ultimo sovrano di Olimpia – si vincono tra i 50 e gli 80 metri, il resto conta poco.

    Marcell passa Kerley ai 60, si mangia la pista, la martella con la sua spaventosa frequenza, tocca una punta di velocità di 42,9 km orari.

    Piomba sul traguardo, il cronometro segna 9"80, altro record europeo migliorato, e il tabellone dice Jacobs.

    Possibile? Un debuttante, uno che arriva da un Paese che in oltre un secolo di Olimpiadi non è mai arrivato nemmeno in finale nei cento, ora vince pure? Davanti agli americani?

    Ok l’Italian Job, ma qui stiamo esagerando.

    Va bene che è l’estate del 2021, quella degli Europei di calcio vinti ai rigori in Inghilterra, quella di Matteo Berrettini finalista a Wimbledon, ma adesso è troppo. L’atletica azzurra era tornata da Rio con zero medaglie e le ultime della pista – l’argento di Alessandro Lambruschini nei 3.000 siepi e il bronzo di Roberta Brunet nei 5.000, ad Atlanta, nel 1996 – Gimbo e Marcell nemmeno le hanno guardate in TV, tanto erano giovani.

    Adesso invece, sono diventati grandi, i più grandi, l’uomo più veloce e l’uomo che salta più in alto, citius e altius, come nel motto del CIO.

    E adesso lo vede, Marcell, lo vede e lo abbraccia forte quel marchigiano pazzo e scatenato che lo aspettava alla fine del rettilineo, avvolto da una bandiera tricolore che immediatamente diventa una coperta a due piazze.

    Due ori in una notte, anzi, in dieci minuti. Seicento secondi nei quali l’Italia ha ribaltato le gerarchie del mondo, con due ragazzi nati a due anni e un Oceano di distanza, uniti da una canotta azzurra in una fantastica, incredibile, irripetibile notte dell’estate giapponese, la più grande notte di sempre dello sport italiano.

    Non ci sarà più una prima domenica d’agosto così.

    Brasile, il mio Brasile brasiliano

    Il mio mulatto intrigante

    Ti canterò nei miei versi

    Roy Arroso, Aquarela do Brasil

    Capitolo 2

    1950 – Il fracaso histórico

    La Seconda Guerra Mondiale, che dal 1939 aveva sconvolto il pianeta, mietuto milioni di vittime e segnato per sempre il destino del mondo, aveva inghiottito nella sua folle spirale di violenza anche lo sport. L’ultima edizione dei Giochi Olimpici era stata quella del 1936 nella Berlino già ostaggio della dittatura hitleriana, con le quattro medaglie d’oro di Jesse Owens, velocista nero dell’Alabama, che avevano inferto un durissimo colpo alla propaganda ariana del Führer, mentre l’ultimo Campionato del Mondo di calcio si era giocato in Francia nell’estate che precedette lo scoppio delle ostilità, con il secondo trionfo consecutivo dell’Italia.

    Fu più veloce il Comitato Olimpico Internazionale, infatti, rispetto alla FIFA a rimettersi in piedi, con l’organizzazione dei Giochi Olimpici estivi già nel 1948: "Il mondo ha ricominciato a respirare più

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