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La porta del tempo
La porta del tempo
La porta del tempo
E-book298 pagine3 ore

La porta del tempo

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Info su questo ebook

"Ambra camminò a lungo inciampando più volte in qualche ramo secco, mentre una debole pioggia le impregnava le ossa. 
Aveva i brividi e non solo per il freddo. Quel bosco nascondeva dei terribili segreti. Nessuno osava avventurarsi da solo, soprattutto di notte. 
Ma Ambra non aveva paura, sapeva che lì avrebbe trovato le risposte.
Attorno a lei il nulla, solo buio e silenzio come oscuri presagi l'avviluppavano nelle loro spirali.
D’un tratto una sensazione di solitudine la abbracciò come un manto gelido, si sentì rallentata, immersa in un torpore che avvolgeva tutto, bloccata in un eterno presente da una porta del tempo che le ostruiva il passaggio."
- - -
Dopo il successo editoriale de Il Fiore dell’Apocalisse e Legami Pericolosi, editi da Leone Editore, La Porta del Tempo, edito da PubMe, chiude la trilogia.
Maia Parodi e Anika Miller, della squadra Omicidi, sono di nuovo sul campo, ad affrontare due casi che daranno loro del filo da torcere.
Il corpo di una giovane donna indiana viene ritrovato in un campo alla periferia di Milano. La vittima indossa un sari blu, colore associato alle classi inferiori, ma purtroppo sul luogo del ritrovamento non è presente nessun indizio che possa aiutare a identificarlo. 
Le indagini, affidate a Maia, proseguono senza sosta, ma non ci sono elementi sufficienti per risolvere il caso. Tuttavia, la sua determinazione la porterà a una svolta inaspettata. 
Parallelamente, si svolge la vita di Ambra e di Mègan. Due amiche fin dall’infanzia che si ritrovano dopo tanto tempo, ognuna con i propri scheletri nell’armadio.
Mègan viene irretita da uomo pakistano, del quale si innamora, che la convince a seguirla nella sua terra, dove subirà violenze di ogni genere. Quando finalmente riesce a fuggire e a ritrovare Ambra, cade in una trappola tesale da colui che nel frattempo è diventato suo marito e sparisce nel nulla.
Ambra non si dà pace e decide di cercarla. Dopo ore di cammino in una serata uggiosa la vede proprio lì, nel luogo delle sue visioni. La segue, finché due fari sbucano dalla strada, abbagliandola. Poi il buio totale.
Dopo un delicato intervento chirurgico, quando Ambra esce dal coma, si ritrova di nuovo al confine tra realtà e finzione, ma questa volta ad attenderla ci sarà qualcosa di reale, che le permetterà di trovare finalmente la risposta alle sue domande.


L'AUTRICE
Luisa Colombo è nata a Milano nel 1957, si è laureata con il massimo dei voti in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Pavia. Ha lavorato per oltre 30 anni nell’editoria, presso il Touring Club Italiano. Scrivere è sempre stata la sua passione. Felicemente sposata, adora la lettura, i viaggi e il suo adorato cagnolino.  
Ha già pubblicato con Leone Editore “Il Fiore dell’Apocalisse”, che si è aggiudicato il Premio Speciale Milano Donna al Festival Milano International 2019, Il Premio Speciale "Fiascherino" della sesta edizione del Premio Dal Golfo dei poeti Shelley e Byron e il Premio Speciale  Tettuccio, al Concorso Nazionale di Narrativa Gialla -Thriller, e “Legami Pericolosi”
La Porta del Tempo, edito da PubMe, nella collana Milos, è il suo terzo romanzo che chiude la trilogia.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita14 ott 2023
ISBN9791254584026
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    Anteprima del libro

    La porta del tempo - Luisa Colombo

    Collana Milos

    LUISA COLOMBO

    LA PORTA DEL TEMPO

    Pubblicato da ©Pubme |Collana Milos

    Prima edizione ottobre 2023

    La porta del tempo |©Luisa Colombo | Tutti i diritti riservati

    Editing dell’opera: Cristina Tata

    ISBN:

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941)

    Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale della società.

    (Rita Levi Montalcini)

    A Marco, compagno di avventura,

    a mia mamma che ha sempre

    creduto in me e al mio caro papà

    che veglia da lassù.

    Prologo

    Mègan non poteva essere scomparsa nel nulla. 

    Da giorni oramai, Ambra si svegliava in preda agli incubi, in uno stato di angoscia. Purtroppo, aveva il dono di sognare eventi che poi si sarebbero verificati. Le era capitato anche di aiutare la polizia in alcune indagini, e a volte, era riuscita persino a salvare persone in difficoltà, ma Gaia non era riuscita a salvarla. 

    L’aveva sognata in un casolare disabitato. Sembrava fosse ancora in vita, così aveva convinto la polizia a recarsi sul posto, descrivendolo nei minimi particolari. Tuttavia, quando gli agenti avevano fatto irruzione, della bambina non c’era alcuna traccia. Il suo cadavere era stato rinvenuto alcuni giorni dopo nelle acque di un torrente.

    Ambra non avrebbe mai scordato l’angoscia dipinta sul volto dei genitori, al funerale. Ogni tanto le capitava di rivedere come in un flash gli occhi della madre, colmi di dolore.

    Sarebbe stato meglio se non si fosse presentata quel giorno.

    Gaia era morta per colpa sua.

    Dopo quell’evento non aveva dormito per giorni, e per mesi non aveva più sognato.

    Si era imposta di non partecipare più ad alcuna indagine, ma i sogni all’improvviso erano tornati a fare compagnia alle sue notti, e con essi la speranza di poter essere ancora d’aiuto a qualcuno.

    Inoltre, adesso si trattava di Mègan.

    L’aveva sentita una settimana prima, poi d’un tratto più nulla, silenzio assoluto, cellulare sempre spento.

    Mègan era la sua unica amica, avevano trascorso insieme l’infanzia e l’adolescenza ed erano unite da un legame molto stretto, sebbene avessero temperamenti differenti.

    Anche quella mattina, Ambra si era svegliata in un bagno di sudore. Si sentiva impotente. Avrebbe voluto andare a cercarla, ma dove?

    Nel suo incubo stava percorrendo un bosco fitto e insidioso avvolta dall’oscurità e da rumori inquietanti. Eppure, non aveva paura.

    Una fitta pioggia le impregnava le ossa, mentre un sudore freddo le colava lungo la schiena. Aveva dolori in tutto il corpo.

    Non sapeva dove stesse andando, ma doveva proseguire e trovarla. Non poteva fermarsi, non in quel momento.

    A un tratto, però, il terrore l’aveva assalita e aveva iniziato ad allontanarsi il più velocemente possibile da quel luogo.

    Quando aveva raggiunto la strada, ormai sfinita, si era accasciata al suolo, sperando che qualche auto si fermasse a soccorrerla.

    All’improvviso, due fari erano sbucati dal nulla, abbagliandola.

    Poi, il buio totale.

    Capitolo 1

    Maia

    Milano, maggio

    Quella maledetta luna piena la stava perseguitando ancora.

    Ogni volta in cui la scorgeva, Maia era pervasa da una sensazione di soffocamento.

    Anche quella sera stava accadendo, mentre si trovava seduta su una panchina di Corso Vittorio Emanuele in compagnia di Gabriele, godendosi la serata primaverile e osservando la gente che camminava lungo la via.

    Gabriele la strinse a sé e la baciò con passione. Lei si irrigidì.

    «Scusami… io… quando sono accanto a te non resisto. Ti desidero troppo» si giustificò.

    Maia lo fissò a lungo negli occhi, senza dire nulla. Gabriele era un uomo interessante, con uno sguardo che ammaliava. Anche lei lo desiderava, ma da quel fatidico giorno non era più riuscita a fare l’amore con lui, perché le sembrava di tradire Paolo una seconda volta.

    Non poteva andare avanti così. Non era giusto nei confronti di Gabriele, che la adorava e l’aveva sempre compresa.

    Abbassando lo sguardo sulle mani, pensò fosse giunto il momento di prendere una decisione.

    La verità era solo una: non si era ancora ripresa dalla morte di Paolo.

    Non si sarebbe mai aspettata di non rivederlo più, e soprattutto che venisse freddato in quel modo a causa di una maledetta formula. Una formula che aveva ucciso due persone e rovinato la vita di suo padre.

    Era trascorso più di un mese dal loro ultimo incontro, quando lei gli aveva confessato di amare un altro uomo.

    Ricordava perfettamente il momento in cui, quella sera, lui l’aveva salutata con un timido bacio sulla guancia, al parco Indro Montanelli.

    Maia l’aveva seguito con lo sguardo mentre si allontanava con incedere lento e stanco; quello di un uomo che aveva appena perso la donna che amava, e con lei la voglia di vivere.

    Aveva indugiato ancora qualche istante sulla panchina.

    Si era tolta un peso dalla coscienza e adesso era finalmente libera di frequentare Gabriele, con il quale era nata subito una passione travolgente.

    Gabriele le aveva fatto scoprire il lato ludico della vita, con lui era sempre una festa e aveva la capacità di sorprenderla, una qualità che Maia apprezzava e che Paolo non possedeva.

    Paolo, al contrario, era un uomo tranquillo, forse fin troppo per una donna con il suo temperamento. Il loro rapporto non aveva mai raggiunto momenti di tensione, non era mai stato l’amore che ti fa sentire le farfalle nello stomaco. Una relazione tranquilla, senza slanci, quasi come quella di due persone che convivono da anni e che ormai non condividono più alcun interesse.

    Non era quello di cui Maia Parodi aveva bisogno. Una come lei, con un passato alle spalle che spesso tornava a bussare alla sua porta, necessitava di un compagno che la facesse divertire, che la stupisse ogni giorno, facendola sentire una ragazzina.

    In Gabriele aveva trovato tutto questo, e nonostante volesse ancora bene a Paolo, dopo un periodo di tentennamenti, lo aveva lasciato. Non voleva ferirlo, ma del resto lo aveva tradito e Paolo non lo meritava.

    «Ehi, che ti prende?» Gabriele la riportò alla realtà.

    «Niente, è che io… Non so cosa dire, cerca di capirmi.»

    «È quello che faccio, ma se stai così male, probabilmente lo amavi ancora» affermò Gabriele, con tono deciso.

    Era senza dubbio una persona comprensiva e tollerante, pacata e riflessiva. Insegnava yoga e meditazione, per questo riusciva sempre a controllare le sue emozioni. Ma l’atteggiamento di Maia era troppo anche per lui, e l’idea che lei non riuscisse a dimenticare il suo ex lo rendeva irrequieto.

    «Volevo molto bene a Paolo, lo sai, ma non è questo il punto» ribatté Maia. «Anch’io ti desidero, ma devi darmi tempo. Ho bisogno di elaborare il lutto, e ancora non riesco a lasciarmi andare. Scusami. Non sono nello stato d’animo per vivere una relazione spensierata. Non adesso.»

    Gabriele si passò una mano sulla fronte sudata. «Mi stai forse lasciando?»

    «Non ho detto questo. Ho solo bisogno di tempo, tutto qui» rispose lei, accarezzandogli la guancia.

    Amava Gabriele, ma per uno strano scherzo del destino ora che era libera di rifarsi una vita con lui, quello slancio inziale sembrava affievolito, probabilmente anche perché era venuto meno il fervore di un rapporto clandestino.

    All’improvviso, le sembrò che il passato fosse tornato a trovarla. Anche con Paolo aveva vissuto un momento simile, gli aveva chiesto tempo e poi era crollato tutto. Adesso stava ferendo Gabriele nel profondo, così come aveva ferito Paolo.

    Gabriele si alzò di scatto, le voltò le spalle e fece per andarsene.

    «Non fare così, non siamo bambini!» esclamò Maia.

    «Non puoi pretendere che gli altri si adeguino ai tuoi stati d’animo. L’amore non è mai a senso unico» affermò Gabriele, con lo sguardo velato di tristezza. «Adesso devo andare.»

    Capitolo 2

    Anika

    Milano

    In piedi, di fronte alla porta finestra, stringeva tra le mani una tazza di cioccolata calda, mentre osservava le auto sfrecciare nella strada sottostante.

    Anika Miller amava trascorrere il tempo a spiare la vita degli altri, forse per deformazione professionale, e adesso di tempo ne aveva anche troppo. 

    Si era presa un periodo di aspettativa per riflettere sulla sua esistenza.

    Le giornate alla Squadra omicidi della Questura di Milano, in qualità di Commissario Capo, erano sature di impegni, non aveva mai un momento per sé stessa e il suo matrimonio era andato in fumo. Da quando le sue figlie si erano trasferite in Germania con il padre, la sua vita era vuota e priva di mordente. Amava il suo lavoro, ma ormai si era resa conto di aver rinunciato a tutto, sacrificando ogni cosa sull’altare della sua professione.

    Era stanca di dover lottare ogni giorno con un nuovo caso, con le beghe burocratiche, con i superiori che non le davano tregua, con i media che le toglievano il fiato.

    Così, aveva scelto di scendere da quel treno in corsa e prendersi una pausa.

    Non aveva ancora deciso se rientrare in servizio o mollare tutto, se trasferirsi in Germania o rimanere a Milano, magari cambiando mestiere.

    Tuttavia, sapeva di essere nata per quella professione, l’unica che poteva svolgere. Dato il suo carattere autoritario, essere a capo di una squadra era il solo modo per sfogare il suo genetico bisogno di comandare. E lo faceva in modo impeccabile, attirandosi le antipatie di tutti i colleghi, non solo dei suoi sottoposti, ma anche dei superiori e dei collaboratori esterni.

    Negli ultimi tempi, però, era diventata più umana. Si era messa in discussione, anche grazie alla vicinanza di Maia, rendendosi conto che il suo modo di agire non era produttivo. Così, poco alla volta, aveva cercato di smussare i tratti più spigolosi del suo temperamento. Un cambiamento che l’aveva portata a mettere in discussione il suo modo di comportarsi, anche nella vita privata.

    Anika osservò le gocce di pioggia rincorrersi sul vetro, mentre sorseggiava la bevanda ormai fredda.

    Il tempo si era dilatato da quando aveva lasciato il suo incarico e spesso si sentiva prigioniera del labirinto dei propri pensieri.

    Dopo l’omicidio di Paolo Conte, aveva più volte pensato di rientrare al lavoro. Sebbene le indagini fossero state affidate al Reparto Analisi Criminologiche dell’Arma dei Carabinieri, avrebbe voluto essere lei ad assicurare alla giustizia quei criminali che gli avevano tolto la vita per una dannata formula. 

    Pensava spesso a Maia. Avrebbe voluto chiamarla, ma poi aveva desistito, consapevole del suo stato d’animo.

    Sapeva che aveva lasciato Paolo proprio la sera in cui era stato brutalmente ucciso e che, sebbene non lo amasse più, stava soffrendo per la sua morte.

    Maia era l’unica con la quale si era confidata, la considerava un’amica leale.

    Quando, due anni prima, era entrata nella squadra omicidi, Anika l’aveva trattata con disprezzo. La reputava una buona a nulla e non perdeva occasione per denigrarla, poi, però, aveva dimostrato qualità apprezzabili, non solo professionali, e si era conquistata la sua fiducia. Così era nato un rapporto di amicizia cresciuto nel tempo. Adesso era la sua unica amica e le mancava moltissimo.

    D’un tratto, una sensazione di solitudine la abbracciò come un manto gelido. Si sentì immersa in uno strano torpore, bloccata in un eterno presente da una porta del tempo che le ostruiva il passaggio.

    Forse dovrei rientrare in servizio, pensò, poggiando la tazza vuota sul tavolo della cucina.

    Capitolo 3

    Ambra

    Pavia

    Ambra non osava alzare gli occhi dalle proprie mani, posate sulle gambe, mentre il medico di base controllava gli esami.

    Si era sottoposta a un controllo ematico, poiché da tempo soffriva di una serie di disturbi quali brividi, dolori muscolari, sonnolenza, affanno e insonnia.

    Aveva venticinque anni e un passato doloroso alle spalle, ma soprattutto una rabbia repressa dovuta ai conflitti irrisolti con la madre, una donna debole, soggiogata dal compagno, al punto da prendere sempre le sue difese, anche a scapito della figlia.

    Il vero padre non l’aveva mai conosciuto. La madre le aveva detto che era morto, senza darle altre spiegazioni e senza mai mostrarle la sua tomba. Ambra aveva sofferto molto per questa condizione, e in cuor suo sentiva che un giorno l’avrebbe ritrovato. 

    Il medico scosse il capo, chiuse la cartellina e digitò qualcosa al computer. «Signorina Vercesi, purtroppo si tratta di una patologia importante, ovvero il lupus eritematoso, una malattia cronica autoimmune, caratterizzata da una gamma di anomalie immunologiche.»

    A quelle parole, Ambra perse subito la connessione con la realtà, avviandosi in un percorso immaginario all’interno del proprio universo.

    Una pallina rimbalzava da una parte all’altra del suo cervello mentre il medico le illustrava le particolarità della malattia e le cure alle quali avrebbe dovuto sottoporsi per il resto della vita.

    Ma non lo stava più ascoltando. Era come se quella crudeltà non le appartenesse.

    Si sentiva intrappolata in una ragnatela, la mente ovattata, senza riuscire a capire la reale portata di ciò che le era appena piombato sulle spalle.

    Uscì dallo studio medico stringendo tra le mani la ricetta che il dottore le aveva scritto e attraversò la sala d’attesa gremita di pazienti che attendevano il loro turno, senza alzare lo sguardo.

    Una volta in strada, iniziò a camminare senza una meta, stordita dall’insieme di emozioni che abitava la sua mente: paura, smarrimento, rabbia.

    Il respiro divenne affannoso, le mani sudate e il cuore sembrava volerle uscire dal petto, si sentiva soffocare. Si appoggiò a una panchina per non perdere l’equilibrio, poi si sedette e abbassò il capo, chiuse gli occhi e cercò di respirare in modo regolare.

    «Si sente poco bene signorina?»

    Ambra alzò la testa e riaprì gli occhi. Aveva la vista appannata, ma cercò di mettere a fuoco la figura di fronte a sé. Era un anziano signore.

    «No, è solo un calo di pressione, il caldo mi fa questo effetto» biascicò a stento.

    «Vuole che chiami il 112?»

    «Non è il caso, la ringrazio. Tra poco passa.»

    L’uomo, poco convinto, prese posto accanto a lei.

    Ambra si lasciò andare contro lo schienale e sospirò a fondo. L’attacco di panico si stava attenuando.

    «So cosa provi» azzardò. «Ti senti come se stessi per crollare, come se tutto fosse insuperabile. Il panico ti costringe a vivere in un recinto oltre il quale c’è la vita, ma quando cerchi di oltrepassarlo, lui è lì, in agguato. Dovresti consultare uno specialista, ci sono delle cure.»

    A un tratto, l’adrenalina riattivò le facoltà mentali di Ambra, riportandola al presente. «Ma lei cosa ne sa dei miei problemi?» replicò, osservandolo. Era un signore di bell’aspetto, con un abbigliamento elegante e una dialettica che faceva pensare a una persona con un buon retroterra culturale.

    «Scusa se mi sono permesso, ma… mia figlia ha sofferto a lungo di attacchi di panico e so riconoscerli. Ora, per fortuna, è guarita. Per questo ti ho consigliato di farti aiutare. Comunque, vedo che ti sei ripresa, ora posso andare. Spero che ascolterai il mio consiglio. Buona giornata.»

    Ambra non rispose, si limitò a guardarlo allontanarsi.

    Fin da ragazzina, soffriva di ansia e depressione. Era insicura, tendente alla tristezza e sempre alla ricerca di risposte che non aveva ancora trovato.

    Forse quel signore ha ragione. Devo decidere cosa fare: farmi aiutare o lasciare che il destino decida per me. Non posso vivere sul confine, non c’è una terza via…

    Capitolo 4

    Maia

    Questura di Milano

    Mentre Maia camminava per raggiungere la Questura, nella sua mente si accalcava un turbinio di pensieri.

    La morte di Paolo non le dava tregua e si sentiva responsabile di quanto gli era accaduto. Se non l’avesse lasciato quella sera, se fosse andata via con lui, forse le cose sarebbero andate diversamente.

    Invece, l’aveva lasciato andare. Era rimasta su quella panchina a godersi la ritrovata libertà, e adesso non sapeva più cosa farsene.

    Amava davvero Gabriele? Oppure era stata solo un’avventura?

    Del resto, era sempre stata una donna indipendente, quasi allergica alle relazioni stabili. Amava troppo la sua libertà per lasciarsi coinvolgere in un rapporto troppo stretto.

    Anche con Paolo era andata così. Quando era diventato oppressivo, lei si era sentita presa da una morsa, ingabbiata in una storia che le stava togliendo l’aria.

    Adesso, anche con Gabriele stava provando la stessa sensazione, aveva bisogno di tempo per decidere cosa fare. Non era in grado di capire quali sentimenti provava nei suoi confronti e voleva solo essere lasciata in pace, ma temeva che Gabriele non avrebbe desistito. Lo conosceva da poco, ma aveva già intuito che era un uomo possessivo e che non avrebbe lasciato perdere tanto facilmente.

    Si fermò al caffè di fronte alla Questura per bere un cappuccino e mangiare una brioche. Non amava frequentare i bar, ma quella mattina non aveva ancora fatto colazione.

    Entrò nel locale e prese posto a un tavolino, e immancabile arrivò la battuta del barista che non perdeva occasione per fare commenti ironici sul suo lato b. Non lo sopportava. Era consapevole di avere un fisico statuario che attirava le attenzioni da parte degli uomini, e non solo, ma quegli apprezzamenti spudorati non li aveva mai digeriti.

    Fece finta di non sentire.

    Ordinò un cappuccino e aprì il quotidiano appoggiato sul tavolo, sfogliandolo con non curanza.

    Mentre sorseggiava la bevanda calda, si soffermò sulla pagina della cronaca.

    La sua attenzione venne subito catturata da un trafiletto che parlava di un nuovo farmaco contro la depressione. Lo lesse tutto d’un fiato e rimase basita quando vide che a produrlo era proprio la Farma Koeler, la multinazionale in cui sia suo padre, sia Paolo, avevano lavorato a quella formula che aveva portato all’omicidio di un giovane ricercatore e a quella dello stesso Paolo.

    Chiuse di scatto il quotidiano, pagò il cappuccino e uscì di corsa dal caffè. Attraversò la strada con passo deciso e mise piede in Questura, salutando con un cenno del capo gli agenti all’ingresso.

    Gettò lo zainetto sulla scrivania, come di consueto, e si sedette alla sua postazione.

    Piras, uno dei colleghi, sollevò lo sguardo su di lei.

    «Buongiorno anche a te.»

    «Scusa, stavo pensando ad altro. Buongiorno.»

    «Ti va un caffè? E un dolcetto, magari?»

    «Ho bevuto un cappuccio al bar, ma grazie lo stesso» rispose Maia, con un mezzo sorriso.

    «A me sì, tengo un certo languorino» disse De Rosa. Anche lui ispettore della Squadra omicidi quando si trattava di bere e mangiare non si lasciava mai sfuggire l’occasione.

    «E te pareva… Quando mai non hai fame tu?» lo canzonò Piras. «Dovresti dimagrire, invece, e fare più movimento. Comunque, il caffè te lo offro, ma il

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