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Modus Vivendi: Una storia dei nostri tempi
Modus Vivendi: Una storia dei nostri tempi
Modus Vivendi: Una storia dei nostri tempi
E-book228 pagine2 ore

Modus Vivendi: Una storia dei nostri tempi

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Info su questo ebook

Salvini, stimato consulente d'azienda viene ingaggiato da una affermata casa editrice di riviste tecniche per riorganizzare l'impresa di famiglia secondo i principi e il metodo della qualità totale. Ben presto, tuttavia, il manager si rende conto di non avere spazi di manovra, di essere del tutto isolato e che la vita dell'azienda si svolge come se lui non esistesse. Perché, allora, è stato assunto?

Il consulente non tarda a comprendere di essere una semplice pedina che ciascun dirigente intende utilizzare per i propri scopi personali.

A questo punto della narrazione arriva il colpo di scena: Salvini dopo un incubo notturno, trova la chiave per uscire dall'impasse, usando il solo linguaggio che i vertici aziendali comprendono, quello del denaro.

La situazione da cristallizzata diventa precipitosa, il manager stabilisce attraverso il "deep Web" contatti all'estero che lo porteranno a elaborare un piano capace di rivoluzionare l'assetto dell'impresa. Tuttavia, il progetto di Salvini, come la vita della casa editrice, cela un sottofondo, una doppia verità, che si svelerà in un atteso colpo di scena dalle conseguenze inimmaginabili.

Il consulente da anonimo "eroe" del nostro tempo tenta di trasformarsi in un uomo in rivolta contro un potere pervasivo e il finale aperto si presta a una doppia interpretazione.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2023
ISBN9791221498233
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    Anteprima del libro

    Modus Vivendi - Massimo F. Bianchi

    1.

    Raniero Valmigli era stato quel che suol dirsi un rampollo della buona borghesia. Aveva ereditato dal padre Giacomo una casa editrice non grande ma neppure piccola che, con il tempo, si era estesa, gratificandolo di anno in anno con sostanziosi ricavi economici. Raniero Valmigli a volte si stupiva di quella crescita costante e apparentemente virtuosa, che un osservatore esterno e ignaro dei fatti avrebbe certamente ascritto a una cospicua dose di fortuna miscelata con un talento in lui geneticamente ben radicato.

    Eppure Raniero Valmigli talvolta – non sempre, ma talvolta – dubitava di questo secondo aspetto. Forse era la solitudine a farsi sentire. Da quando era rimasto vedovo, infatti, si percepiva scisso: una parte di lui era incerta, debole, refrattaria a ogni decisione; l'altra era, invece, orgogliosa, superba, perfino arrogante nell'assaporare il potere sconfinato che sembrava derivargli dalla condizione di primogenito del grande Giacomo.

    Proprio quella condizione lo aveva contrapposto spesso al fratello Andrea, più giovane di qualche anno ma decisamente più dotato quanto ad aspetto fisico e a capacità d'intrattenere relazioni sociali. Raniero era conosciuto nei circoli della borghesia cittadina, ma le sue frequentazioni non andavano al di là di qualche sporadico tè offerto da attempate signore che lo avevano preso sulle loro ginocchia quando portava i calzoni corti e trotterellava all’ombra del padre. Andrea, all'opposto, era brillante e bazzicava ambienti più vivaci. Non a caso si diceva che fosse stato un collezionista di avventure galanti ed era ben noto nei salotti mondani, nei quali il suo eloquio colto e disinibito – unito a una dichiarata militanza politica più teorica che reale – aveva finito per conferirgli un fascino che irritava non poco Raniero tutte le volte che qualche zelante collaboratore gli riferiva dei successi riscossi la sera o la notte precedente dall'avvenente fratello.

    Un sentimento d'invidia rabbiosa, non privo di punte di disprezzo e di desiderio di rivalsa, scuoteva allora il cuore di Raniero. Dopo tutto il padre Giacomo, uomo che aveva contribuito a far grande la città con le collane di libri e le numerose testate fondate, aveva puntato su di lui, non su Andrea, per il futuro della casa editrice: il pacchetto azionario detenuto al settanta per cento contro il trenta scarso del fratello era lì a dimostrarlo. Certo, quando Andrea venne sequestrato a scopo di estorsione, Raniero si sentì vacillare. Per due lunghe settimane fu preda di una tumultuosa alternanza di stati d'animo: paura per sé e per il suo nucleo familiare, composto a quel tempo da una moglie e da tre figlie piccole; senso di colpa per le ire covate in cuor proprio nei confronti del fratello minore; apprensione per il futuro dell'azienda. Poi il lieto fine della vicenda, con il versamento del riscatto e il rilascio dell'ostaggio, aveva ripristinato la normale scansione del rapporto di odio–amore tra lui e Andrea, sul quale vigilava il padre Giacomo. Al funerale del grande vecchio i due fratelli, davanti agli occhi di tanti mostri sacri dell’editoria, sembravano essersi definitivamente riconciliati, ma ben presto il conflitto cominciò di nuovo ad affiorare dapprima latente, poi serpeggiante, a tratti vulcanico. Il sentimento che puntualmente dominava Raniero era l’invidia; quello che s’impadroniva di Andrea, la diffidenza.

    La difficile convivenza tra i due eredi della stirpe Valmigli non era stata facilitata dalla morte improvvisa della moglie di Raniero, avvenuta due anni dopo quella del padre, né dal fatto che Andrea si tenesse apparentemente alla larga dall’azienda preferendo dedicarsi ad altre attività che spaziavano nei campi più diversi, dall’edilizia alla letteratura, dalla moda al design.

    Ciò che, comunque, negli ultimi tempi infastidiva Raniero era la presenza della cognata nell'ufficio accanto al proprio, una presenza che lui – il Delfino designato dal grande Giacomo – aveva dovuto subire su pressione di Andrea. Una presenza che non avrebbe immaginato così ingombrante e i cui pratici effetti andavano molto al di là della quota del capitale sociale rimasta nelle mani del diffidente fratello. La cognata – che tutti dovevano chiamare Avvocato, facendo uso della lettera maiuscola quando a lei ci si rivolgeva per iscritto – era una donna dall’aspetto gelido, molto determinata e, si diceva, dalle ambizioni illimitate.

    In fondo – pensava Raniero – ricordava sua moglie. Entrambe volitive e testarde, le due donne erano profondamente convinte, ciascuna per proprio conto, di avere in pugno le sorti dell'azienda di famiglia. Se dieci anni prima la moglie aveva avuto l’ardire di scontrarsi apertamente perfino con il suocero Giacomo, accusato di paternalismo e di troppa generosità nei confronti del personale, ora la cognata non esitava a rinfacciare a lui, Raniero, una dose eccessiva di ingenuità e di dabbenaggine. Quante volte in quei due anni di coabitazione forzata al vertice della società – lui come amministratore delegato, l’Avvocato come direttore generale – aveva desiderato che un sorpasso avventato in autostrada riservasse alla cognata la stessa sorte toccata alla moglie cinque anni prima! Ma poiché il destino non si piega facilmente ai desideri degli uomini, a lui non restava che la consolazione dei numerosi tradimenti coniugali di cui la cognata era rimasta vittima in passato ad opera dell’intraprendente fratello: in questo Andrea – doveva riconoscerlo – era stato davvero superbo. Peccato che negli ultimi mesi, offeso al braccio sinistro per i postumi di un intervento chirurgico, incontrasse maggiori difficoltà d'un tempo nel far breccia nei cuori e nelle sottane delle amiche della moglie. Non che non vi riuscisse del tutto, ma la frequenza dei tradimenti effettivamente consumati (e documentati) aveva registrato una fisiologica flessione.

    2.

    Ogni mattina, verso le dieci, una vettura rossa di fabbricazione giapponese varcava il cancello dell’azienda. Al volante un uomo di una sessantina d’anni, cappello marrone a falde larghe, sciarpa gialla – di cachemire d’inverno, di seta nella bella stagione – e mezzo toscano spento tra le labbra. Duecento metri più in là, nel parcheggio riservato ai dirigenti, aveva luogo un rituale che tutti i giorni si ripeteva identico da tempo immemorabile: spento il motore, il conducente abbassava le palpebre e rimaneva immobile per un paio di minuti respirando intensamente. Un osservatore esterno e ignaro dei fatti avrebbe potuto pensare che quell’uomo dalla barba bianca e dai radi capelli lunghi – bianchi anch’essi – che ne incorniciavano il viso stesse riposando, magari al termine di un lungo e faticoso viaggio.

    Trascorsi non più di centoventi secondi, l’uomo riprendeva a muoversi con studiata lentezza, schiudendo dapprima gli occhi e aprendo successivamente lo sportellino interno per estrarvi un accendino con il quale dava fuoco al sigaro penzolante. Solo allora, procedendo sempre al rallentatore, azionava la maniglia della portiera e scendeva dall’auto, incamminandosi tuttavia non verso l’ingresso, ma – attraverso un vialetto secondario – in direzione del grande lago artificiale ai bordi del quale erano ormeggiati grossi motoscafi, piccoli e medi yacht, catamarani e gommoni di varie dimensioni.

    Al centro del complesso era stato, infatti, ricavato un enorme bacino, di fronte al quale si trovava un cantiere navale vero e proprio che serviva per smontare, verificare, provare, rimontare qualsiasi genere d’imbarcazione. Era questo il capolavoro lasciato da Giacomo Valmigli, sul quale la casa editrice aveva costruito negli anni la propria fortuna. Alla periferia di una grande città senza sbocchi al mare, priva di un lago naturale e perfino di un fiume degno di questo nome, era stato realizzato un avveniristico catino pieno d’acqua, dotato delle più sofisticate tecnologie volte a consentire lo stazionamento degli scafi e a garantire, anche grazie a un evoluto sistema di ricambio idrico, la loro manutenzione. Tutto ciò nel contesto di una perfetta e funzionale integrazione con gli altri edifici dell’azienda. Non si contavano i riconoscimenti, i premi, le menzioni che quel prodigio architettonico si era guadagnato in tutto il mondo, suscitando ammirazione e destando interesse negli ambienti più disparati, da quelli economici a quelli universitari.

    Giunto in riva al lago, l’uomo allargava le braccia protese in avanti quasi a voler comprendere nella maestosità del gesto la magnificenza di quanto si offriva ai suoi occhi. Rimaneva così in contemplazione per qualche istante, quindi percorreva a ritroso lo stesso vialetto e finalmente entrava in azienda.

    La prima preoccupazione era avvisare Raniero Valmigli del proprio arrivo. Era sufficiente uno squillo di telefono alla segretaria: se l'amministratore delegato avesse avuto necessità di vederlo con urgenza, lui non avrebbe tardato a salire lo scalone di marmo che conduceva al secondo piano della palazzina; altrimenti la visita sarebbe stata rimandata ad altro, più propizio momento della giornata. Generalmente si verificava questo secondo scenario perché l’editore, la mattina, preferiva impiegarla nell’esame delle carte che giacevano sempre inevase sulla scrivania: note spese di dipendenti, contratti da valutare e approvare, proposte di partnership avanzate da gruppi stranieri. Navigare, storica testata della casa editrice, godeva di indubbia fama anche al di fuori dei confini nazionali ed era molto appetita dagli editori di tutto il mondo che facevano a gara per tradurre gli articoli e pubblicarli in esclusiva nelle loro edizioni locali. Sarebbe bastato scorrere i bilanci aziendali per rendersi conto dell’importanza finanziaria, oltre che strategica, della rivista. Rivista che il grande Giacomo aveva fondato alla fine degli anni 40, insieme ad altre testate, non tutte sopravvissute. Qualcuna – come Il consumatore – era stata chiusa dopo un improvviso quanto breve ed effimero successo. Altre – come Il futuro e La riscossa della Nazione – erano state cedute a editori meglio introdotti nel mondo della politica e avevano conosciuto alterne fortune.

    Navigare, invece, si era subito rivelata una brillante idea editoriale e da più di mezzo secolo collezionava primati che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi imprenditore del settore: tiratura e vendite in costante crescita, raccolta pubblicitaria sempre ai massimi livelli, soprattutto una straordinaria reputazione acquisita grazie al fatto di essere l’unica rivista specializzata a disporre di un proprio lago artificiale per il collaudo degli scafi, che soltanto in un secondo momento venivano provati in mare aperto. All’indomani della scomparsa del fondatore, il timone era passato nelle mani di uno dei fedelissimi di Giacomo. Uomo autorevole quanto autoritario, il Capitano – così tutti lo definivano per la naturale vocazione al comando – aveva facilmente convinto Raniero ad affidarsi alla sua consumata esperienza per far sì che in azienda non si sentisse il vuoto lasciato dal padre. Lui, e non altri, avrebbe garantito quella continuità di cui tutti avvertivano la necessità, a cominciare dallo stesso Raniero, ancora troppo acerbo. Lui, e non altri, avrebbe preso sotto la propria ala protettrice il Delfino designato da Giacomo e lo avrebbe posto al riparo da qualsiasi pericolo, sia esterno che interno, dalle smodate ambizioni della moglie come dalla corrosiva sfiducia continuamente manifestatagli dal fratello. Lui, e non altri, lo avrebbe plasmato nelle pieghe dell’animo e fortificato nei tratti del carattere fino a consentirgli di affrontare, con tenacia e tranquillità, il mare insidioso della concorrenza.

    E così era stato.

    3.

    Al Capitano era riservata la prima visita mattutina del Grande Saggio, come all’interno del recinto aziendale veniva chiamato l’uomo dalla barba candida e dai radi capelli bianchi. In assenza di fatti di rilievo, dopo avere annunciato il proprio arrivo alla segretaria di Raniero Valmigli era solito porgere gli omaggi del nuovo giorno al potente direttore di Navigare. Era quest’ultimo, in fin dei conti, il vero condottiero dell’azienda, colui che poteva far prendere in qualunque momento qualsiasi decisione all’amministratore delegato. Era il Capitano che forgiava a proprio piacimento gli umori, i sentimenti, addirittura i pensieri non solo di Raniero, ma della gran parte di coloro che ruotavano nell’orbita di quest’ultimo. Lui, da consumato consigliere d’amministrazione, aduso a muoversi nella scia dei potenti, lo sapeva bene. Sapeva come trattare con Raniero, rassicurandolo quando si mostrava indeciso e frastornato; sapeva come rapportarsi nei confronti dell’Avvocato, condividendo o, meglio, mostrando di condividere il giudizio sull’inadeguatezza del cognato; e, naturalmente, sapeva come garantirsi la benevolenza del Capitano, ribadendo un giorno sì e l’altro pure che quei due del secondo piano dovevano la loro preminente posizione ai soli legami familiari, diretti o indiretti, con il compianto Giacomo perché non v’era chi non vedesse che, se l’azienda stava in piedi e risultava tanto florida, era per merito esclusivo del Capitano, della sua capacità d’influenza in determinati ambienti e delle indubbie doti personali che non erano, del resto, sfuggite al fondatore della casa editrice. Che poi tale argomentazione – declinata dal Grande Saggio in forme diverse, talvolta esplicite talaltra implicite – coincidesse con il suo effettivo pensiero era da ritenersi questione affatto secondaria, tale da non scalfire minimamente la credibilità di quanto affermato.

    Dunque, più o meno tutte le mattine il consigliere si faceva annunciare dalla segretaria del direttore di Navigare, donna dall’aspetto accattivante ma piuttosto austero. Una volta ottenuto il via libera, faceva il proprio ingresso nell’ufficio dell’uomo più potente dell’azienda sfoderando quasi sempre una massima o un aforisma che attingeva da un inesauribile repertorio.

    Quella mattina, tuttavia, le cose non andarono nel modo consueto. La segretaria non era al suo posto e la porta dell’ufficio del Capitano era chiusa. Il Grande Saggio si meravigliò. Non sapeva che cosa pensare: il Capitano non assumeva quasi mai impegni esterni, tanto meno prima di pranzo. Certo, la segretaria poteva essere in bagno e il Capitano magari non era ancora arrivato o, forse, aveva ospiti alquanto mattinieri. Ma non si sentivano voci o rumori che provenissero dalla stanza. Circa l’ipotesi, peraltro plausibile, che la segretaria si fosse momentaneamente assentata, strideva con quel ricevitore poggiato sulla scrivania che faceva pensare a una conversazione telefonica bruscamente interrotta. Il Grande Saggio allungò la mano, prese il ricevitore, lo portò all’orecchio, ma non udì altro che un fastidioso suono prolungato. Quindi riattaccò.

    4.

    Nello stesso istante, in un’altra ala dell’edificio squillò il telefono. All’apparecchio un uomo di mezza età, seduto dietro una scrivania lunga e ampia, che qualche secondo dopo emise un lieve colpo di tosse per mettere a punto la voce e con la mano allentò impercettibilmente il nodo della cravatta. Poi l’uomo iniziò a sfogliare nervosamente le pagine di un’agenda senza soffermarsi su una data in particolare: più durava la conversazione e più il gesto appariva un riflesso condizionato, privo di qualsiasi logica. Ascoltò più che altro, al termine accompagnò il ricevitore con un lieve cenno del capo, al limite della deferenza, e dando sfogo a una leggera smorfia con il labbro superiore.

    Mario Alessio Ferrario

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