Romanina
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Anteprima del libro
Romanina - MASSIMILIANO AVESANI
I
Periferia est di Roma
Fissava con il respiro fumante la casa davanti a lui, poi, stanco d’attendere, raccolse un sassolino e mirò la finestra del primo piano, colpendo inutilmente uno dei blocchi di tufo del muro mai intonacato. Spazientito ne raccolse una manciata, ma, prima di lanciarli, intravide un’ombra spingere la bicicletta sollevando i piedi in modo esagerato per fare il minimo rumore sulla ghiaia. Quando gli fu vicino, Lorenzo raccattò la cartella con i libri e quaderni. ‒ È tardi, perché ci hai messo tanto? ‒ chiese stizzito.
‒ Non riuscivo a prenderla, mia madre non dorme mai ‒ rispose Santo a voce bassissima.
‒ Ce l’hai?
‒ Sì.
‒ Fammela vedere.
‒ Più avanti ‒ sussurrò senza fermarsi. Arrivati sulla strada asfaltata abbozzò un sorriso rovinato da un incisivo rotto, spostò la maglia e gli mostrò la pistola.
‒ Adesso sali ‒ si mise a cavallo della bicicletta, Lorenzo montò in piedi sul portapacchi della vecchia Graziella e iniziarono a risalire via Salvatore Barzilai, davanti a loro l’aurora avanzava lontana, oltre la collina del Tuscolo. Gli rimaneva poco tempo, pedalò con più foga.
Il battere ritmico di uno dei pedali sul copricatena graffiava l’ultimo silenzio della notte, alcune finestre erano accese, presto le strade della borgata si sarebbero riempite con la processione di operai diretti alla fermata di Tor di Mezza Via.
Nascosero la bicicletta dietro la cabina elettrica dell’Italcable, Lorenzo poggiò il piede sul filo spinato più basso e sollevò quello di mezzo; Santo, attraversata la recinzione, fece lo stesso per aiutarlo. Si nascosero tra i cespugli di ginestre che bordeggiavano il recinto dell’abitazione di Damaso; un sottile strato di nebbia galleggiava intrappolato tra i filari della vigna.
‒ È ancora a casa?
‒ Che ne so! ‒ si alzò per osservare attraverso un foro nella lamiera ondulata che circondava il cortile. ‒ Sì, la vespa c’è ancora ‒ tornato, tolse il revolver dalla cintola e lo puntò verso una pianta di fichi d’india, lo fece sussultare imitando il suono di uno sparo.
‒ Dai, passamela ‒ Lorenzo la prese, eccitato, impressionato dal suo peso, dalla soavità, dai suoi spigoli levigati; essendo stata a contatto con la pancia nuda dell’altro era ancora tiepida. ‒ Sembra di carne, c’è la sicura? ‒ chiese con la bocca secca.
‒ Sicura? ‒ sollevò un sopracciglio. ‒ Le rivoltelle non hanno sicur… ‒ s’irrigidì, girò il capo verso il rumore di una porta che si chiudeva, strappò l’arma dalla mano dell’amico, corse al recinto e tornò a sollevare il filo spinato.
Una volta in strada si fermarono di fronte ad un cancello di lamiera, oltre la barriera sentirono il rumore della pedivella di avviamento, il motore partì al secondo tentativo. L’odore grasso e dolciastro di miscela combusta invase l’aria ferma, udirono un tintinnare di chiavi, lo scatto del lucchetto e la catena scorrere per liberare il battente; avevano il respiro corto, si guardarono immobili a dispetto della voglia di nascondersi, di scappare.
Quando il ragazzo li scorse sorrise, nonostante avesse pochi anni più di loro aveva la struttura di un uomo, i tratti marcati e il volto sporcato dalla barba non rasata. ‒ Buongiorno culetto bianco… ‒ disse guardando Santo. Quando finalmente abbassò lo sguardo sulla pistola il sorriso si trasformò in un ghigno. ‒ A Rosce’ che cazzo fai, all’età tua giochi ancora ai cow boy? ‒ con un movimento repentino lo colpì in faccia con una sventola facendolo cadere a terra come morto, lo sollevò per il maglione dopo aver allontanato con un calcio Lorenzo e lo trascinò dentro il recinto come un animale abbattuto. Lo mise prono sulla sella della vespa ancora privo di sensi, gli calò i pantaloni e le mutande. ‒ Ero certo che saresti tornato per averne ancora, ma non c’era bisogno di fare tutte queste storie, bastava chiedere ‒ nel parlare si era sbottonato i pantaloni e tenendolo per il collo si maneggiava per prepararsi a penetrarlo. Santo riprese i sensi e iniziò a divincolarsi, lui lo fermò stringendolo con forza ‒ se ti muovi ti stacco la testa.
‒ Lascialo! ‒ urlò Lorenzo puntandogli la pistola.
L’altro si voltò lentamente. ‒ Dopo accontento anche te, tranquillo.
‒ Lascialo! ‒ ripeté, la sua voce divenne stridula.
Damaso, rabbioso, sollevò i pantaloni e allacciò la cintura. ‒ Adesso mi hai rotto il cazzo e quando uno mi rompe il cazzo gli faccio davvero male.
Lorenzo teneva l’arma davanti a sé con due mani, tremava tanto che temette potesse sfuggirgli; quando lo vide prendere lo slancio per raggiungerlo fece fuoco. Damaso continuò la corsa nonostante il polmone imploso: non poteva credere che due merducce come loro avessero una pistola vera, non poteva sentire il dolore. Lorenzo premette il grilletto altre due volte, poi, arretrando spaventato, lasciò andare gli altri due colpi scaricando l’arma, e dopo ancora non smise, facendo ripassare sotto il percussore i bossoli ormai esplosi. Damaso finalmente sembrò perdere forza ma l’inerzia gli permise comunque di raggiungerlo, con il braccio proteso lo sfiorò e cadde a terra ai suoi piedi.
‒ Che hai fatto? ‒ Santo si avvicinò di corsa tenendo su i pantaloni ‒ non dovevi sparare! ‒ senza degnare di uno sguardo il corpo rantolante a terra tese il braccio verso il suo amico. ‒ Dammi qui, come cazzo faccio con mio padre? ‒ aprì il tamburo e controllò i cinque bossoli vuoti ‒ come vede che mancano i colpi m’ammazza!
Udì dei rumori provenire dalla casa e vide una finestra illuminarsi, corse verso la strada e tornò indietro per richiamare Lorenzo che era rimasto a fissare i sussulti di Damaso. ‒ Che cazzo fai? Scappiamo!
Lo trascinò per un braccio fino alla bicicletta. Lorenzo sedette sul portapacchi come in trance, la testa poggiata dietro la schiena di Santo. Si allontanarono tra le vigne e le case basse, accompagnati dal battere del pedale sul copricatena e dalle urla strazianti della madre di Damaso. Passando davanti al negozio di alimentari ancora chiuso Santo afferrò due cornetti da quelli che il panettiere aveva lasciato davanti alle serrande e si diressero veloci verso la grotta della cava.
‒ Fai schifo.
Santo si toccò il volto con la punta delle dita. ‒ Si vede? ‒ mescolò la saliva in bocca e la lasciò cadere in una grande goccia sanguinolenta sul suolo di pozzolana. ‒ È nero l’occhio?
‒ Se ti ho detto che fai schifo, fai schifo ‒ lo guardò con attenzione ‒ è rosso ma tra un po’ lo diventa… hai visto, non voleva proprio morire. Nei film sono tutte cazzate, lì sparano e cadono a terra morti.
Santo tentò di allacciare la giacca a vento. ‒ Mi ha rotto la lampo, sai che palle mi farà mia madre!
‒ Ma sarà morto? Non l’ho guardato.
‒ Nun l’hai guardato? ma se t’ho dovuto trascina’ via che eri rimasto lì a fissallo.
‒ Che cazzo dici, non l’ho proprio visto… dai, allora, sarà morto?
‒ Sì, sicuro ‒ rispose Santo, esitante ‒ buttava sangue dalla bocca. ‒ Smise di parlare per seguire il lontano rumore di sirene.
‒ Io devo andare a scuola, tu cosa fai, mi porti all’autobus in bici?
‒ No, meglio se vai da solo.
Finito di pranzare Lorenzo mise una parte degli spaghetti dentro una ciriola e tornò alla cava. Nella penombra della grotta trovò il suo amico seduto di fronte a una bambina in piedi, con la gonna sollevata sul viso e le mutandine abbassate alle ginocchia. Quando lo vide arrivare gli fece segno di non fare rumore.
‒ È vero… hai i peli ‒ confermò Santo, Lorenzo si avvicinò e gli sedette vicino, in silenzio.
‒ Lorenzo, hai visto? ho i peli. ‒ Gianna, capelli ricci e neri come le piume dei merli, sollevò le mutandine e lasciò andare la gonna. ‒ Guarda che ti ho sentito arrivare, attraverso la stoffa si vede, stupidi.
Il suo profilo tradiva le origini siciliane, e le sue ciocche, che neanche la pesante coda riusciva a domare, le cadevano sul viso mediterraneo.
‒ Tranquilla, con tutti i capelli che hai, ti spunterà un bosco tra le gambe! ‒ le rispose.
‒ Tu credi? ‒ i denti brillarono nella sua bocca che non era più quella di una bambina. Si allontanò. ‒ Vado, mia madre mi starà cercando.
La videro uscire leggera, lo strano odore di verderame che impregnava i suoi vestiti permase tra i due, indecisi se quella coetanea che li stava lasciando fosse ancora la loro compagna di giochi.
Santo estrasse la pagnottella dalla busta di plastica, spostò sommariamente la carta che la avvolgeva e la morse. ‒ L’hai coperto co la carta igienica?
‒ Che, volevi un tovagliolo de seta? …A casa mia non se parlava d’altro, alla radio dicevano che è stato ucciso da un professionista; secondo mio fratello Damaso era un deficiente, bocciato quattro volte.
‒ Deficiente? bella scoperta ‒ lo guardò con il panino fermo davanti alla bocca. ‒ Tu hai detto qualcosa?
L’altro sollevò le spalle. ‒ Che dovevo dire?… Senti, con la pistola come vuoi fare?
‒ Vado a casa, a quest’ora i miei riposano, cercherò di ricaricarla e rimetterla a posto.
‒ Dov’è?
La prese dalla cintola con la mano libera e gliela passò.
Lorenzo rinnovò il piacere di tenerla, arretrò il cane e premette il grilletto, liberò il tamburo di carica, tornò a richiuderlo e lesse l’incisione sulla guancetta della impugnatura. ‒ Esse e doppia vu, è bella, non la possiamo tenere?
‒ Dai qua ‒ gliela strappò dalle mani e tirò i resti del pane in un angolo. ‒ Andiamo, a casa mi staranno cercando ‒ ripresero la bicicletta.
Lorenzo scese al volo e osservò Santo allontanarsi sulla Graziella, oltrepassò la soglia di casa con la convinzione che il suo amico avrebbe risolto il problema dei proiettili mancanti. Più tardi, seduto davanti ai quaderni, rivide la piegolina tra le gambe di Gianna, ebbe un’erezione, si toccò, poco più di un dito che spingeva sulle mutande. Smise di studiare, prese il vecchio Meccano, cercò nel disordine della sua scrivania gli attrezzi, i pezzi mancanti e si concentrò. Quando la porta della sua stanza si spalancò sbattendo contro il muro era quasi sera, il rumore lo sorprese intento a montare il lamierino che avrebbe dovuto coprire la cabina della locomotiva. Si girò. Tra gli stipiti si stagliava minacciosa la figura del padre, non l’aveva sentito rientrare; la posizione leggermente levitata delle braccia, le sopracciglia contratte e le labbra serrate non lasciavano dubbi: era ubriaco, e di cattivo umore.
Intrattenuto dal gioco si era fatto trovare in casa da solo, guardò la finestra: tapparella aperta ma vetri chiusi, non l’avrebbe mai raggiunta in tempo. Studiò il padre per capire quanto avesse bevuto, lo vide oscillare malfermo, il corpo leggermente rivolto in avanti. Iniziò ad avere paura. ‒ Ciao papà ‒ disse sorridendo ‒ vado subito a chiamare mamma.
Gli passò al lato prima ancora che quello avesse il tempo di reagire, uscendo si girò a guardarlo, era talmente sbronzo da essere riuscito solamente a ruotare il capo di novanta gradi.
Uscito da casa non riuscì comunque a sentirsi al sicuro. Le rondini riempivano l’aria con i loro richiami, così numerose da stendere una gelosia grigia contro il cielo. Mentre andava dalla loro vicina le osservò volare, senza piacere.
Sulla loro via, oltre alle vigne, c’era solamente l’altra casa abitata da Rossana, una zitella alla quale erano morti i genitori da qualche anno. Sua madre l’avrebbe trovata là, a cercare una tregua dalla depressione. La tristezza la seguiva ovunque, come una condanna ineludibile. Andò via dopo cena, dopo aver riassettato la cucina e lavato i piatti, certa di trovare il marito addormentato. Lorenzo rimase invece nella loggia vetrata che si affacciava sulla vigna, l’unica grazia della casa. Seduto come la padrona di casa vicino alla stufa, rispondeva con mille dettagli alle sue domande morbose, in qualche modo avvertiva che il suo dramma la aiutava a sentirsi meno sfortunata. Stava barattando consapevolmente i segreti della sua famiglia con la possibilità di vedere fino alla fine il film che davano alla televisione.
Fuori dalla porta, il lungo viale delimitato da siepi di alloro che nessuno curava da anni arrivava dritto fino al cancello, ed era attraversato, a pochi metri dalla casa, da una piccola gora che faceva defluire l’acqua piovana verso l’orto. Il caso voleva che il paralume della lampada sull’uscio facesse morire la luce esattamente in quella leggera depressione.
Finito il film Lorenzo salutò per rientrare. Appena fuori, fatti alcuni passi, si fermò, indeciso se proseguire. Si voltò. Rossana gli sorrise benevola dall’uscio. Riprese coraggio.
Nel viale il buio era totale. Continuò tentando di capire quanto quell’oscurità fosse un’illusione. I suoi passi glielo confermarono poiché trovavano la strada. Le sue mani afferrarono e aprirono senza problemi il catenaccio del cancello che credeva di non vedere. Passando al lato della cabina elettrica sentì il ronzio del trasformatore. La debole luce delle spie di rete attraversava le feritoie della porta d’acciaio, quei barlumi rossi erano la sola cosa che distinse. C’era qualcosa là dentro e stava venendo da lui. Ne fu sicuro, si voltò terrorizzato: solo il buio.
La consapevolezza di aver ucciso lo colse all’improvviso, seppe che l’omicidio di Damaso aveva guastato qualcosa.
Percorse i pochi passi che lo separavano dalla casa senza correre, con le braccia distese lungo il corpo.
Riprese a respirare con regolarità solamente dopo essere entrato in casa.
Nella borgata tutte le case avevano un odore peculiare, quella appena lasciata aveva un sentore di cherosene, e anche un po’ quello del verderame, lo stesso dei vestiti di Gianna. Quella di Santo puzzava di panni non lavati e ammucchiati in un angolo, di finestre chiuse a intrappolare soffritti irranciditi. La madre del suo amico aveva uno sguardo da psicopatica che lo spaventava. Aveva avuto sei figli al ritmo di uno ogni due anni e dopo ogni figlio sembrava impazzire sempre di più.
La casa di Lorenzo odorava di muffa, di pipì di gatto e di topo e seppe che era proprio odore di topo, dopo averne scoperto un nido tra le copie di Vie Nuove ammucchiate in cantina. In quanto alla muffa non poteva avere dubbi: veniva dalle macchie di umidità sul soffitto e dai parati che si staccavano dai muri.
Entrò nella sua stanza cercando di non fare rumore, con ancora indosso la sensazione di essere seguito. Capì dal brusio della radio che suo fratello era a letto sveglio.
Oltre i vetri della finestra, la notte, densa e pesante come grani di magnetite, lo attrasse. Si avvicinò. A pochi centimetri, oltre il vetro, oltre il riflesso del bambino magro, fragile e dai capelli chiari che era lui, due occhi presero lentamente consistenza a materializzare la sua paura, a renderla reale, visibile. Lasciò andare in un urlo tutta l’aria che aveva nei polmoni.
Quella notte riuscì a dormire solo grazie alla presenza di sua madre che, seduta su una poltroncina accanto al suo letto gli aveva tenuto la mano fino all’alba.
Si svegliò solo, disturbato dalla luce che entrava da uno spiraglio della porta. Si alzò per avvicinarsi alla finestra ancora chiusa, afferrò la corda dell’avvolgibile e poi aprì i battenti su un sole livido.
A pochi metri la siepe di pitosforo delimitava insieme a una rete verde il confine del loro terreno, più avanti una vigna. Il vecchio proprietario zappava tra i filari.
Il profilo squadrato della cabina elettrica torreggiava una ventina di metri sulla sua sinistra.
Per quanto si sforzasse non riusciva a rivivere il terrore della notte scorsa. Ne aveva il ricordo netto, ma era come se fosse stata una conoscenza relata, un’esperienza altrui. Un sogno, forse?
A scuola non riuscì comunque a concentrarsi, durante l’ora d’inglese l’insegnante lo sorprese a dormire sul banco e lo cacciò dall’aula.
Alla fine delle lezioni trovò il suo amico ad attenderlo alla fermata dell’autobus, e quando quello lo vide arrivare si limitò a raccogliere la bicicletta e a prepararsi a partire. Aveva la faccia tumefatta e sconvolta. Lorenzo si domandò se gli Occhi avessero visitato anche lui quella notte. Montò sul portapacchi in silenzio; la Graziella non rallentò davanti alla casa di Lorenzo, proseguì. ‒ Mio padre ti vuole vedere.
‒ Tuo padre?
Il padre di Santo era l’unico in borgata ad essere stato in galera.
‘Miminu è un mafioso’ si diceva. E il suo nome era sempre pronunciato a bassa voce dagli adulti.
Lorenzo lo aveva visto raramente, basso, sgraziato. La pancia, sbordandogli dalla cintura gli impediva di sollevare i pantaloni fino alla vita. Un paio di baffi neri gli ricopriva le labbra carnose e i denti ingialliti dal Toscano. I capelli brizzolati e corti, e il volto ben rasato, stonavano con il disordine del corpo e della casa in cui viveva. Aveva l’abitudine di guardare le persone con gli occhi socchiusi, con il volto sollevato, come se cercasse di studiarle attraverso occhiali bifocali bassi sul naso, forse per evitare il fumo del sigaro che teneva sempre acceso tra le labbra.
Miminu Quarta li attendeva seduto sotto un fico, il berretto abbassato sugli occhi, la sedia inclinata fino a poggiare sul tronco dell’albero. Fulmine, il bastardo sdraiato vicino a lui, sentendoli arrivare dal fondo della stradina sterrata sollevò il muso attento, li seguì con lo sguardo fino a vederli poggiare la bicicletta sul muro della casa e avvicinarsi a piedi; si alzò solamente quando il suo padrone sollevò la tesa del cappello.
I due bambini si fermarono vicino alla pianta, l’uomo li studiò rimanendo in ombra. Perlomeno quella fu l’impressione che ebbe Lorenzo, l’albero era in controluce e il suo volto era seminascosto tra le foglie dei rami bassi.
‒ Aḍḍu stavi ieri matina? ‒ domandò l’uomo.
Lorenzo si girò verso il suo amico per capire, l’altro lo colpì con un gomito. ‒ A scuola, come tutti i giorni.
‒ None, prima te la scola.
‒ A casa, a dormire.
‒ Sicuro?
‒ Certo che sono sicuro.
‒ Ci te vistu quandu a issutu?
‒ Quando esco da casa mia madre dorme e mio padre è già al lavoro, esce la mattina presto insieme a mio fratello.
Dopo un lungo silenzio l’uomo sollevò lentamente il bastone di bambù fin sotto il mento del bambino e ne utilizzò la punta per girargli il volto verso il sole.
‒ Santo se na scire in Puglia, nel Salento, a Matinu a du ziusa, a dai a criscere. ‒ Lorenzo si girò di scatto verso il suo amico che abbassò gli occhi al suolo. ‒ A tie nu te voghiu visciu chiui, se te quntru scunnite, se me sienti sparisci.
II
Costa mediterranea del Marocco
‒ Arrivano.
La lenta voce di Gaddo fece svanire le minacce di Miminu Quarta. Lorenzo tornò a bordo dell’Algarve, con lo sguardo rivolto verso le luci del Penon di Vélez de la Gomera due chilometri più a ovest. Prestò attenzione ai rumori e osservò l’amico seduto al suo fianco. L’illuminazione della microscopica enclave militare spagnola era così brillante che, nonostante la distanza, il riverbero gli permetteva di distinguere la sua figura slanciata. I dieci giorni di mare avevano trasformato il suo aspetto blasé, da poeta bohémien, in quello esaltato di un mistico sufi, un derviscio. In quel momento gli sembrò tranquillo.
Attendevano alle foci del fiume Hades da alcune ore e aveva iniziato a dubitare delle capacità organizzative di Ibrahim. Il berbero gli aveva fornito hashish per mesi, ma sempre in Spagna e in piccole quantità, questo sarebbe stato il primo carico importante per entrambi.
Per raggiungere il mare la droga era partita tre giorni prima su una fila interminabile di asini da Ketama, un piccolo paese al centro del Rif, e fatta scendere attraverso gole, passaggi rocciosi e letti di wadi asciutti e polverosi. All’alba del primo giorno la carovana aveva fatto tappa nascondendosi a Tigalline, quella del secondo a Tagouiel. La terza notte lo stupefacente era arrivato a Badel per essere caricato sulle patteras.
Il rumore dei loro motori gli confermava che tutto era andato bene.
Per alleggerire l’ansia riempì i polmoni fino in fondo, l’aria profumava delle infiorescenze di elicriso, del loro odore intenso, agrodolce, inconfondibile. Dopo giorni di mare quell’aroma gli sembrò ancora più raro. ‒ Devono essere loro ‒ disse tra sé facendo un giro intorno alla battagliola per verificare i parabordi. Ne abbassò uno.
Il legno della prima imbarcazione urtò contro la fiancata. Scese subito Ibrahim, sull’altra pattera arrivò Mario, suo cognato, che, nonostante avesse