Baroni, baronesse e suore. Storia drammatica del Cinquecento a Cagliari
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Anteprima del libro
Baroni, baronesse e suore. Storia drammatica del Cinquecento a Cagliari - Maria Laura Ferru
Personaggi principali e secondari
Sara Busquets, suor Agnese
Gaspare Busquets, suo fratello
Miriam Montella, sua madrina
badessa del convento di santa Chiara
priorissa del convento di santa Chiara
portiera del convento di santa Chiara
suor Benigna, economa del convento di santa Chiara
infermiera del convento di santa Chiara
speziaria del convento di santa Chiara
cantora del convento di santa Chiara
bibliotecaria del convento di santa Chiara
tesoriera del convento di santa Chiara
sacrestana del convento di santa Chiara
sorvegliante del laboratorio del convento di santa Chiara
magazziniera del convento di santa Chiara
ortolana del convento di santa Chiara
frate francescano del convento di san Francesco
Martina Selles, suor Chiarina
Bartolomeo Selles, padre di Martina
Girolamo Selles, zio di Martina
Sibilla Fogondo, baronessa e suora
Violante Torrellas, baronessa e suora, cugina di Sibilla Fogondo
Avvertenze di Sara Busquets,
già suora Agnese, per il lettore
Perché scrivo?
Scrivo perché la mia storia potrebbe essere di monito o di esempio a qualcuno.
Scrivo perché chi non deve dimenticare sono io per prima ma anche gli altri non devono farlo.
Scrivo per indicare alla gente comune il livello a cui può arrivare la cattiveria umana, specie se esercitata in difesa di quelli che all’epoca della mia adolescenza venivano intesi, dalla gente nobile, come diritti e doveri della casata.
Fu in nome della casata, della propria e di quella dei loro sodali che, essendo io giovinetta, ogni sorta di malvagità misero in campo a Cagliari il barone di Mara Arbarei, il barone di Capoterra e il barone di Senis.
Li conoscevamo come i tre cognati e difatti Salvatore Aymerich, barone di Mara Arbarei aveva sposato una Margens e gli altri due, Melchiorre Torrellas barone di Capoterra e Vincenzo Fagondo barone di Senis avevano sposato due sorelle che di cognome facevano Margens-Aymerich.
In realtà c’era anche un quarto barone, quello di Las Plassas: Azzorre Zapata, loro socio e malo figuro sempre pronto a mettere al servizio del male la sua spada e la sua penna.
Si farebbe prima a dire che cosa non fecero i quattro per sbarazzare la loro strada dagli ostacoli verso la ricchezza, perché niente li fermò all’epoca.
Fecero di tutto: aggressioni, omicidi, avvelenamenti, maldicenze, denunce segrete che però portavano al rogo …
Apparentemente tutto iniziò qualche giorno prima della Pasqua nell’anno 1552, con una aggressione che avvenne in pubblico, nella piazza principale della città.
Colpi distribuiti da mani esperte furono quelli che caddero aprendo ferite brucianti sulla schiena di don Bartolomeo Selles, che era il terzo dei cinque Consiglieri più importanti della città. La serqua di frustate gli venne inflitta con un perpignan, una zirogna come dicevano i villani del circondario e i bovari di Villanova. Lo sfregio era quindi duplice: si voleva colpire fisicamente l’uomo ma anche umiliare il Consigliere, e quindi tutto il Consiglio civico che lo sosteneva, usando lo strumento che si usava per le bestie come per dirgli a suon di schiocchi: Non sei che una bestia e ti meriti solo la zirogna!
Da dove nascevano l’alterigia e il cinismo necessari per un tale atteggiamento disumano?
Per chi ha sempre abitato in città la risposta è semplice: tutti sappiamo che quell’arroganza nasceva dall’abitudine antica dei baroni, e di quelli in particolar modo, a trattare con superbia chiunque, fosse anche di grado più alto del loro.
E questo avevano fatto ben prima di quell’orrendo 1552, quando non tutti erano ancora baroni.
E quando si mossero di nuovo nel 1552, e allora sì che erano tutti baroni, lo fecero con l’astuzia che veniva dalla trista esperienza di conflitti già vissuti e in parte vinti.
Nessuno dei baroni si espose pubblicamente contro i nuovi nemici che erano i cinque primi Consiglieri della città e tra essi soprattutto il Consigliere terzo su cui sarebbero caduti i colpi sferzanti del sicario destinato a rimanere senza nome.
E i motivi che li avevano spinti erano sempre i soliti: togliere dalla strada verso la ricchezza (e sì che in vent’anni ne avevano comprato e venduto di terra sarda) chi si opponeva in nome della legge alle vendite del grano che loro, i voraci baroni, continuavano a vendere fuori con profitto senza tenere conto del prezzo che per legge si doveva fissare a Cagliari. E senza tenere in nessun conto la riserva che doveva esserci prima di tutto a Cagliari nei magazzini comunali.
Perché i danni di una terra senza grano da consumare nei periodi di carestia si erano visti già nell’anno 1540, quando la fame nei paesi - si raccontava con raccapriccio - aveva portato le madri a divorare i figli. Così dicevano i nostri anziani sottovoce, per non impressionare noi bambini, ma che in città s’erano mangiati anche cani e topi era un racconto che tutti conoscevamo per le battute salaci che ancora si facevano sui ghiottoni.
Incuranti delle esigenze degli altri andarono avanti a testa bassa, i maledetti baroni, che non sentivano vergogna di non avere quel senso di umanità che ci dovrebbe sempre tenere uniti, almeno secondo quanto dicono i preti.
Le frustate al Consigliere Selles, in quell’inizio del 1552, furono solo l’inizio di un periodo che sarebbe durato quattro anni, durante il quale i quattro baroni avrebbero gareggiato in intelligenza ed astuzia con guardie, avvocati, giudici e viceré.
Quando io entrai nel convento di santa Chiara a Cagliari quel brutto fatto faceva parte dei miei ricordi di bambina ed anzi aveva contribuito a farmi uscire dall’infanzia.
L’ingiustizia manifesta che quella vicenda rivelava mi aveva tolto il velo dagli occhi: accantonai in fretta cerchi e bambole e presi a studiare meglio le parole e gli atti dei cittadini per capire di chi fossero partigiani: se del Consiglio civico, come lo era la mia famiglia con in testa Gaspare, il mio fratello maggiore, o erano partigiani o peggio ancora complici dei disonesti baroni.
La fragilità della mia famiglia, che durò a lungo ma della quale si poteva prevedere che da un giorno all’altro sarebbe sparita nella malattia e nel dolore, mi lasciava anche più esposta per quanto le mie passioni non fossero mai giunte dalla mente alla bocca.
E il mio destino divenne precario quanto mai quando i miei familiari mi vennero a mancare tutt’e due all’improvviso lasciandomi in balia dell’assistenza civica, alle cui grinfie mi sottrasse la sorveglianza amorevole della mia madrina.
E tuttavia, quando avrei potuto anche pensare di essere fuori dal mondo civile al riparo di mura claustrali, mi ritrovai assolutamente senza colpa a vivere proprio dentro quelle sante mura l’incubo quotidiano dei riflessi della mischia accesa in città dai baroni. Che non potevano permettere che ci fosse luogo chiuso in città che sfuggisse al loro controllo dando asilo a simpatizzanti e parenti dei loro nemici.
Così il racconto dei due anni che ho passato nel convento di santa Chiara a Cagliari, che sarà noto solo a chi avrà possibilità di leggere queste mie righe, è il racconto di spiacevoli sorprese, di azioni malefiche, di attentati sempre più azzardati legati a tutto quanto in quel periodo i tre baroni mettevano in campo per vincerla contro tutti: contro il Consiglio civico, contro l’avvocato fiscale, contro i giudici.
1. La triste Pasqua del 1552
La mia storia iniziò in realtà quando ancora io neanche sapevo cos’era una storia. All’epoca chiamavamo favole quelle che ci raccontavamo tra coetanei e favole erano anche le invenzioni che gli adulti preparavano per noi bambini per comunicarci realtà sgradevoli tentando di non impressionarci troppo.
Tutti, piccoli e grandi, facevamo riferimento a quanto avevamo sentito di realmente accaduto ma era una abitudine generale che non si dovessero citare personaggi viventi col loro nome e tanto meno far capire di conoscere gli episodi di cui erano stati protagonisti nella loro vera essenza.
La prima regola che si riceveva in famiglia appena si imparava a parlare era proprio quella: che si doveva tenere la bocca chiusa sugli estranei, specie su quelli altolocati. Ma non c’era verso però che tutto ciò che accadeva in città non circolasse tra le persone: solo che la vicenda arrivava trasfigurata, divenuta favola nel passaggio da adulti a bambini prima e tra bambini dopo.
Così ladri, truffatori, violenti e assassini diventavano, nelle favole degli adulti, tutti diavoli o tutt’al più Satanassi, e chi si opponeva a loro - guardie o capitani che fossero - erano tutti san Michele, san Giorgio o anche san Giacomo, se il fatto era successo a Villanova dove il santo in questione aveva chiesa e fedeli.
Gli eroi, invece, quelli che cioè si sacrificavano per gli altri, diventavano sempre Gabriele o Raffaele, anche se tutti si guardavano bene dal citare la Bibbia.
A dieci anni suonati io mi trovavo in realtà in bilico tra il far finta di credere ancora alle favole e l’annunciare in famiglia che anch’io volevo essere trattata da adulta e dunque volevo sempre sapere la verità sui fatti e personaggi di quanto avveniva attorno a me, non foss’altro per non vedere più il sorriso ghignante con cui i bambini più grandi accoglievano i racconti di noi piccoli.
A decidere per me però fu la sorte, che mi emancipò dal mondo delle fiabe col racconto, che giunse sino a me nudo e crudo, di quanto avvenne in città qualche giorno prima della Pasqua nell’anno 1552.
Si trattava di una aggressione che avvenne in pubblico, nella piazza principale della città, quella su cui si aprivano il palazzo del Consiglio comunale, la Cattedrale e il Palazzo arcivescovile. Non molto distanti da casa mia.
In quella maledetta mattina in cui tutta la città era impegnata nell’attesa della Pasqua con i suoi riti preparatori, quello che si consumò ai danni di don Bartolomeo Selles, che era uno dei cinque Consiglieri più importanti della città, fu in sostanza un tentativo di delitto a base di frustate che gli vennero scaricate sulla schiena a tradimento: in più si volle a tutti i costi che l’attentato avvenisse di giorno e davanti ad un pubblico che rimase atterrito e impotente.
Il nerbo di bue, usato da un aggressore sconosciuto che riuscì a sfuggire alle ricerche delle guardie, ridusse il Consigliere a mal partito tanto che fu riportato a casa dolorante, stordito e quasi fuori di senno.
Quando io sentii di quei fatti, che i vicini si raccontavano tra loro tanto sconvolti da non fare caso a noi bambini che fingevamo di essere intenti apparentemente a giocare poco distante ma eravamo tutt’orecchi, non potei evitare di sobbalzare al nome di Selles perché mi ricordai d’averlo già sentito mesi prima, quando erano stati estratti a sorte i nomi dei cinque Consiglieri che dovevano reggere la città.
Ricordavo bene l’episodio: si era all’inizio dell’inverno ed io avevo preparato la brace per gli scaldini, che avevo riempito e messo sotto a ciascun letto della casa. Stavo vicino al letto della madre, a chiacchierare con lei, quando Gaspare era rientrato e si capì subito che era particolarmente allegro. Ce ne comunicò subito il motivo:
Stasera per il Consiglio civico sono stati sorteggiati i nomi di cinque uomini che sono tutti -ma proprio tutti- amici nostri
.
Non voleva dire che li conosceva personalmente tutti -uno per uno- ma che aveva cognizione certa che Fortesa, Polla, Boy, Limona e Selles erano nomi di gente amica del popolo e dei lavoratori perché erano lavoratori loro stessi.
I Boy erano notai da generazioni ma amici di gente a noi vicina, come il notaio Melkiorre da Silva, che aveva da poco battezzato il figlio dei nostri amici …
Di più, Giacomo Boy era imparentato con Antonio Fortesa, il nuovo sindaco, perché aveva sposato Violante Fortesa.
I Polla poi erano per lo più conciatori ma lui, il Polla Antonio eletto Consigliere Civico in 5ª della città di Cagliari, era abaxador
, cioè cimatore dei drappi di lana, ed abitava in Villanova dove i Polla erano residenti perché erano quasi tutti artigiani: chi conciatore, chi falegname, chi cimatore, chi fabbro …
I Limona lavoravano nelle costruzioni di case e i Selles nei trasporti marittimi. Perciò lui, Gaspare, che di viaggi per mare era costretto a farne spesso per cercare in Spagna le merci per il nostro negozio, i Selles li conosceva bene.
Ci comunicò - quella sera - la sua convinzione che sarebbe stato più tranquillo in Spagna sapendo che a Cagliari c’era chi governava bene per tutti e più fiducioso di trovare a Cagliari una sistemazione che non lo esponesse più ai rischi del commercio fuori casa.
Ecco perché, al sentire del fatto della Pasqua del 1552, fu come se quella lontana euforia mi venisse smorzata di colpo … perché, sebbene fossi giovanissima, ormai capivo da me che un assalto così bestiale e infamante ad un Consigliere era uno sfregio e una sfida aperta a tutto il Consiglio civico e a tutta la città degli Onesti.
Il giorno delle frustate rimuginai tra me le poche notizie che mi erano giunte ma all’epoca non ci fu verso che potessi capire il perché di quella assurda azione.
In casa passammo una Pasqua triste perché Gaspare non era con noi: ma in più pesava un senso di mortificazione indefinita.
Non c’era negli atteggiamenti