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Il Seicento - Storia (50): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 51
Il Seicento - Storia (50): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 51
Il Seicento - Storia (50): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 51
E-book578 pagine6 ore

Il Seicento - Storia (50): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 51

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Info su questo ebook

Il Seicento è stato un secolo complicato tanto per coloro che l’anno vissuto quanto per gli studiosi che se ne sono occupati. Schiacciato tra due secoli “progressivi”, moderni o addirittura rivoluzionari, il Seicento appare nei documenti dei secoli successivi come un momento di crisi, di guerre, rivolte, oscurantismo, assolutismo e rifeudalizzazione, una parentesi oscura nel percorso trionfale di affermazione della modernità. In Italia ha a lungo pesato l’immagine manzoniana di un secolo “sudicio e sfarzoso”, segnato dal dominio straniero, dall’arroganza di una nobiltà inetta e retriva. Ma considerandolo da altri punti di vista e da altre realtà geografiche il Seicento appare ben diverso: è il Gran Siècle dell’egemonia politica e culturale della Francia di Luigi XIV, il Gouden Eeuw del primato economico e marittimo dell’Olanda, e la Stormaktstid, età della grandezza, in Svezia, da Gustavo II Adolfo a Carlo XII. In questo ebook viene presentato il Seicento in tutta la sua complessità di “secolo dei contrasti” o “secolo in chiaroscuro”, con i suoi eccessi, le sue inquietudini e le sue illusioni.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514800
Il Seicento - Storia (50): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 51

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    Anteprima del libro

    Il Seicento - Storia (50) - Umberto Eco

    copertina

    Il Seicento - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Seicento

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia del Seicento

    Vittorio Beonio Brocchieri

    Il Seicento è stato un secolo complicato, certamente per gran parte di coloro che lo hanno vissuto, ma anche per coloro che se ne sono occupati. Lo storico inglese Peter Burke ha osservato come gli studiosi del XVII secolo non abbiano a loro disposizione alcuna etichetta convenzionale generalmente accettata come quella di Rinascimento per il Cinquecento, o di Illuminismo per il Settecento. È vero, ma non è detto che questo sia uno svantaggio. Queste etichette sono spesso fuorvianti e sempre insufficienti per sintetizzare la complessità di un periodo storico.

    Schiacciato fra due secoli progressivi, moderni o addirittura rivoluzionari, il Seicento non ha avuto per lo più una buona stampa. Secolo di crisi, secolo di ferro, di guerre, rivolte, oscurantismo, assolutismo e rifeudalizzazione, pseudopoesia, il Seicento appare, nel migliore dei casi, come una parentesi oscura, un contrattempo nel percorso trionfale di affermazione della modernità. In Italia ha a lungo pesato l’immagine manzoniana di un secolo sudicio e sfarzoso, segnato dal dominio straniero, dall’arroganza di una nobiltà inetta e retriva, dal conservatorismo culturale e sociale, dal controllo oppressivo della Chiesa controriformistica e dal tradimento di una borghesia mercantile e finanziaria che pure nel Cinquecento era sembrata ancora così dinamica. D’altra parte il fatto che l’Italia del Seicento avesse legato le sue sorti a una Spagna la cui declinación (decadenza) veniva lamentata dai suoi intellettuali più attenti già dall’inizio del secolo, non è stato d’aiuto.

    Ma se si sceglie un altro punto di osservazione le conclusioni possono essere molto diverse e vedere nel Seicento un secolo di crisi, un secolo tragico, appare difficile. Il secolo di ferro diventa, almeno nella sua seconda parte, il Gran Siècle dell’egemonia politica e culturale della Francia di Luigi XIV, oppure il Gouden Eeuw (epoca d’oro) del primato economico e marittimo dell’Olanda, o, più modestamente la Stormaktstid (età della grandezza) in Svezia, da Gustavo II Adolfo a Carlo XII. Visto da Parigi, Amsterdam o Stoccolma il Seicento appare meno tragico o malinconico di quanto non appaia se visto da Magdeburgo – città martire della guerra dei Trent’anni –, Madrid, o anche Milano.

    Posti di fronte a queste definizioni e immagini così fortemente contrastanti, gli storici si sono spesso rifugiati in espressioni che sottolineano l’ambivalenza del Seicento, un secolo di contrasti, un secolo in chiaroscuro. Forse tra questa la migliore è quella di età barocca, non perché il barocco esaurisca la dimensione culturale di questo secolo, che è anche classicista e varie altre cose, ma perché questo termine, controverso fin nella sua etimologia e così spesso abusato nel linguaggio comune, si presta particolarmente bene a trasmettere l’idea di eccesso, inquietudine, irregolarità, stupore, illusione e, appunto, coesistenza degli opposti.

    La decadenza mediterranea nella civiltà europea

    Queste immagini contraddittorie riflettono e amplificano – forse –un dato reale. Uno dei tratti caratterizzanti del Seicento è il compimento di quel sovvertimento degli equilibri europei – soprattutto a danno dell’Italia ma più in generale dell’Europa mediterranea – che forse era già implicito nell’apertura delle rotte oceaniche ma che per tutto il Cinquecento non si era tradotto in atto.

    I contemporanei hanno la netta percezione che qualcosa sia successo nei rapporti di forza fra l’Europa settentrionale e atlantica e quella mediterranea, ponte fra la cristianità e le altre civiltà dell’Eurasia, e anche per questo per secoli all’avanguardia nello sviluppo della civiltà europea.

    L’ultimo quarto del secolo sembra il punto di svolta. L’Italia di fine Seicento appare come un paese povero – the extreme misery and poverty that are in most of the Italian governements di cui parla Addison – che di fronte alla concorrenza sempre più aggressiva di Olandesi, Francesi e Inglesi ha abbandonato progressivamente tutti quei settori – della manifattura, del commercio, e in ultimo anche della finanza – sui quali per secoli aveva costruito la sua prosperità. Ma l’Italia appare anche, e forse soprattutto, un paese culturalmente arretrato, ai margini della circolazione culturale che sempre più intensamente percorre l’Europa. Proprio mentre, tra Sei e Settecento, si va costruendo un’idea di Europa quale spazio di una specifica civiltà, al suo interno articolato in una rete gerarchicamente organizzata di culture nazionali (come scrive Marcello Verga nel saggio La Spagna e il paradigma della decadenza italiana tra Seicento e Settecento, in Alle origini di una nazione, 2003), l’Italia scivola in una posizione marginale. Non solo non riesce più a esportare i prodotti dei suoi artigiani, ma neppure idee e immagini.

    Il rogo di Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600 e il processo e la condanna di Galileo Galilei nel 1632-33 da parte delle autorità ecclesiastiche, sono diventati i simboli dell’interpretazione che imputa questo ripiegamento della cultura italiana essenzialmente all’azione repressiva della Chiesa controriformistica. Ma si tratta di una lettura semplicistica. Il complessivo declino italiano, relativo o assoluto che sia, non è certo addebitabile solo all’influenza nefasta dell’oscurantismo controriformista o della dominazione spagnola, come si usava fare fino a mezzo secolo fa. La crisi italiana va compresa in un contesto almeno europeo e probabilmente mondiale. È parte di una crisi dell’antico asse che unisce il Mediterraneo all’Oceano Indiano: pur avendo costituito per millenni la spina dorsale dell’Eurasia, esso viene drammaticamente rimesso in discussione dalla rivoluzione spaziale planetaria.

    La rivoluzione scientifica

    L’interpretazione pessimistica del Seicento appare particolarmente inadeguata se si guarda agli sviluppi intellettuali. La condanna di Galileo ha assunto il suo significato simbolico di precaria effimera vittoria dell’oscurantismo anche perché proprio in quei decenni la cultura europea stava vivendo una trasformazione radicale.

    Si è cercato spesso di dimostrare, negli ultimi decenni, che la rivoluzione scientifica – così come la scoperta dell’America, la rivoluzione industriale o quella francese – non si sia mai verificata e che, in ogni caso, abbia avuto ben poco di rivoluzionario. Naturalmente non è difficile individuare prodromi e precursori che consentano di parlare di una lenta e progressiva evoluzione piuttosto che di un mutamento radicale e relativamente rapido. La scienza secentesca deve molto a quella rinascimentale che, a sua volta, ha legami profondi – rivendicati con orgoglio – con quella dell’Antichità classica e – meno sottolineati – con il sapere medievale. Ma insistendo sulla continuità si rischia di smarrire l’essenziale, di perdere di vista il nuovo modo di considerare la natura che si impone in Europa in questa fase. Due nomi per riassumere questa nuova prospettiva sul mondo: il già citato Galileo – a riprova del fatto che alla metà del Seicento l’Italia aveva ancora qualcosa da dire in campo scientifico e filosofico oltre che artistico, e Bacone. Se ne potrebbero naturalmente nominare altri: Cartesio, Leibniz, Huygens, Boyle e, naturalmente, Newton i cui Philosophiae naturalis principia matematica del 1687 rappresentano forse il frutto più compiuto della rivoluzione scientifica. È Galileo a formulare più precocemente il modello normativo di indagine scientifica, fondato da una lato sulle sensate esperienze dall’altro sulle matematiche dimostrazioni. Solo ciò che è dimostrabile rigorosamente non attraverso la semplice osservazione ma l’applicazione rigorosa del metodo sperimentale, e ciò che è quantificabile può essere oggetto di analisi propriamente scientifica. Quello che è stato battezzato il paradigma galileiano quindi fissa criteri rigorosi di conoscenza verificabile e, nel contempo, esclude un vasto campo di esperienze che a questi criteri non sono assoggettabili.

    Il nome di Francis Bacon ricorda invece la dimensione sociale ed economica della nuova cultura scientifica europea. Interessato in primo luogo alle potenzialità pratiche della conoscenza, Bacone ritiene che essa dischiuda all’umanità prospettive illimitate di miglioramento e di progresso. Con grande chiarezza Bacone addita alla scienza – applicata – un compiuto finora inedito. Non deve limitarsi a interpretare la realtà, deve e può cambiarla radicalmente. Per questo critica aspramente il disprezzo elitario con cui i ceti privilegiati del tempo guardavano al sapere meccanico, alle competenze tecniche degli artigiani.

    Nel complesso, l’unione del paradigma galileiano e del programma baconiano impone non solo un nuovo approccio alla conoscenza ma un nuovo rapporto fra uomo e natura, una duplice rivoluzione senza cui sarebbero impensabili la stessa rivoluzione industriale e i tre-quattro secoli di egemonia occidentale che seguiranno.

    Il Leviatano e i suoi sudditi

    Per Filippo IV d’Asburgo viene coniata l’espressione el Rey Planeta, più aggiornato dal punto di vista astronomico, Luigi XIV sceglie di essere il Re Sole. Per Giacomo I d’Inghilterra – VI di Scozia – i re vengono giustamente detti essi stessi dèi perché la loro autorità è il corrispettivo terrestre dell’onnipotenza divina. Il Seicento appare comprensibilmente come il plenilunio delle monarchie nel quale il potere che si proclama assoluto, cioè non istituzionalmente circoscritto del sovrano, conosce un limite solo nella legge divina e in quella naturale. Gli antichi Stati repubblicani appaiono ormai realtà residuale e, all’interno di ogni regno, l’autonomia politica della nobiltà, delle città e delle chiese sembra sgretolarsi di fronte all’espansione degli apparati statali al servizio del sovrano.

    Ma anche nel suo aspetto politico il Seicento si dimostra complesso e contraddittorio. Il potere dei re, nel suo concreto esercizio come nelle formulazioni teoriche, non raggiunge mai quel carattere assoluto che alcuni sovrani e alcuni pensatori vorrebbero attribuirgli. Nonostante l’ampliamento degli apparati finanziari, amministrativi, fiscali e militari, il re non può prescindere dalla collaborazione con la nobiltà e i ceti privilegiati, primo fra i quali il clero, la cui influenza sociale ed economica sul territorio è ancora molto forte.

    Inoltre la stessa teorizzazione della sovranità illimitata dello Stato, del Leviatano incarnato dal monarca, ha esiti ambivalenti. Il maestoso, articolato e complesso edificio della società medievale fatto di privilegi, di libertà al plurale, di autonomie gelosamente difese, di diseguaglianze che si ricompongono, almeno idealmente, in una provvidenziale unità organica, ne risulta distrutto. Nelle sue formulazioni più conseguenti e coerenti, l’assolutismo lascia di fronte al monarca, nella sua lontananza astronomica, una massa omogenea e atomizzata di sudditi. La società politica non appare più un corpo composto di corpi, ma una giustapposizione di individui, mossi solo da bisogni e paure.

    Anche senza arrivare al radicalismo di Hobbes, nel Seicento in effetti la società viene sempre più considerata e analizzata come un complesso di individui sostanzialmente uguali nei loro interessi e nei loro eventuali diritti, pochi o tanti che siano. Non a caso è in questa fase che nasce la statistica moderna. A interessare i primi aritmetici politici, come venivano chiamati, è innanzitutto ciò che è misurabile, la quantità della popolazione, il reddito, la capacità produttiva contributiva della popolazione. In fondo è l’applicazione del paradigma galileiano allo studio della società, un altro aspetto della rivoluzione scientifica che non cambia solo il modo con cui gli uomini immaginano il loro rapporto con il cosmo e la natura ma anche quello con cui immaginano e definiscono le loro relazioni reciproche. Se vogliamo usare la terminologia dell’antropologo Louis Dumont, nel Seicento si profila la transizione da una società olistica, pensata cioè come un corpo organico, a una società individualistica, concepita come la semplice risultante delle interazioni fra individui.

    Panorama del secolo

    La guerra dei Trent’anni

    Marina Montacutelli

    L’acuirsi dei conflitti politici e religiosi all’interno dell’Impero germanico è la causa diretta della guerra dei Trent’anni. Essa non è però una guerra tedesca deviata progressivamente dalle sue origini, ma una guerra per l’egemonia in Europa con profonde ripercussioni sul piano sociale, economico e religioso. Tra il 1618 e il 1648 tramonta la supremazia spagnola e si afferma quella della Francia.

    La defenestrazione di Praga

    Il 23 maggio 1618 i gentiluomini boemi riuniti nell’assemblea degli Stati utraquisti, formata dalla grande aristocrazia, dai nobili minori e dalla borghesia cittadina, salgono al castello reale di Praga, abbandonato dall’imperatore-re Mattia d’Asburgo e dal suo successore Ferdinando II d’Asburgo, duca di Stiria, e attaccano il Consiglio di luogotenenza, incaricato di amministrare il regno in assenza del sovrano: afferrano due membri del Consiglio, i conti Martinic e Slavata, e un giovane segretario, Fabricius, e li gettano dalla finestra. I tre cadono sull’immondizia accumulata nel fossato del castello e si procurano solo lievi ferite, ma la defenestrazione di Praga segna, sul piano politico, una rottura tra il sovrano Asburgo e gli Stati cechi.

    La rivolta contro l’autorità del sovrano è scoppiata, ma non è ancora irreversibile: l’obiettivo principale del governo provvisorio, costituito sotto la guida del generale boemo Mathias Thurn, è mantenere i diritti acquisiti nel 1609 con la Lettera di Maestà, che, promulgata dall’imperatore Rodolfo II, autorizza la pratica della confessione boema.

    Il suo atto più significativo è la dichiarazione di decadenza di Ferdinando di Stiria, pronunciata dal Consiglio, e la promulgazione di una nuova costituzione, seguita dall’elezione a Francoforte il 26 agosto 1619 di un nuovo re: il principe elettore, palatino, calvinista, che prende il nome di Federico V.

    Due giorni dopo viene eletto imperatore Ferdinando II d’Asburgo. La rivolta boema deborda in tal modo dal quadro regionale, mettendo in causa la struttura stessa dell’Impero germanico e, per il gioco delle solidarietà dinastiche, l’esistenza delle monarchie europee.

    Il comportamento della Dieta boema è imitato, infatti, nelle altre province del Regno (Moravia, Slesia e Lusazia) e nell’Alta e Bassa Austria. Sotto il profilo giuridico, la decisione del governo provvisorio di dichiarare deposto Ferdinando e di eleggere Federico V è sostenuta dalla rivendicazione del carattere elettivo della corona boema.

    Dal punto di vista politico, gli Stati boemi sperano di creare intorno a Federico V, genero di Giacomo I, re d’Inghilterra, un ampio fronte protestante.

    Le forze in campo

    La rivolta boema e l’inizio della guerra pongono il problema dell’alleanza tra le forze in gioco.

    Il nuovo re Federico V e il conte di Thurn formano una milizia nazionale mobilitando un soldato ogni cinque cittadini e ogni venti contadini. Lo stesso Mathias Thurn ne assume il comando e, prima della fine dell’anno, le truppe protestanti occupano il Paese. Carlo Emanuele I di Savoia, cattolico ma nemico dell’Impero (che costituisce una perenne minaccia per il suo Stato), invia in aiuto ai rivoltosi truppe guidate dal capitano di ventura conte di Mansfeld, mentre la Repubblica di Venezia offre un aiuto finanziario.

    Le Province Unite, benché siano dilaniate dal conflitto tra gomaristi e arminiani, dopo l’esecuzione di Johan van Oldenbarnevelt inviano anch’esse aiuti finanziari, interessate a tenere la Spagna impegnata altrove.

    All’esercito di Thurn, in marcia verso Vienna, si uniscono gli Stati della Slesia, della Moravia, dell’Ungheria e quelli della Transilvania guidati da Gabor Bethlen.

    Giacomo I d’Inghilterra, invece, riconoscendo nella rivolta boema un attentato al principio dinastico, rifiuta di intervenire nel conflitto: il politico inglese John Pym parla della religione protestante martirizzata in Boemia, i Comuni premono affinché l’Inghilterra prenda posizione come ai tempi di Elisabetta I, ma il re scioglie il Parlamento e fa arrestare molti membri di un’opposizione che, per la prima volta, espone un programma politico.

    Tra gli elettori tedeschi soltanto Giovanni Giorgio di Sassonia e Massimiliano di Baviera (che mette a disposizione l’armata della Lega Cattolica condotta dal generale fiammingo Jean Tserclaes de Tilly) si schierano dalla parte di Ferdinando II d’Asburgo insieme ai re di Spagna e di Polonia e all’arciduca Alberto d’Asburgo, governatore dei Paesi Bassi meridionali. Dal punto di vista militare, l’imperatore può contare anche sulle truppe del generale genovese Ambrogio Spinola al servizio della Spagna che, dalla valle del Reno, minaccia il Palatinato.

    La fase boemo-palatina

    L’8 novembre 1620 l’esercito cattolico si scontra con gli avversari nella battaglia della Montagna Bianca, una collina nei pressi di Praga , e li sbaraglia in sole due ore. Nel mondo cattolico questa vittoria, dovuta alla compattezza dell’esercito di Tilly, è celebrata come un miracolo. Il re d’inverno Federico V fugge a L’Aia privato di tutti i suoi titoli, beni e diritti, mentre viene abolito il carattere elettivo della corona boema, e Praga è abbandonata per una settimana al saccheggio dei soldati.

    L’imperatore Ferdinando II riorganizza il Regno di Boemia affidando a un governatore, Carlo di Liechtenstein, il compito di riportare l’ordine nel Paese. Ventisette membri degli Stati sono condannati a morte, l’amnistia viene subordinata al pagamento di multe da saldare con proprietà terriere; due terzi dei domini signorili boemi passano in mano cattolica, per pagare le spese di guerra e per ricompensare con feudi i capi militari. L’opera di confisca e di conversione al cattolicesimo è diretta soprattutto contro la nobiltà e le città, guide culturali e politiche della nazione.

    Nel 1627 un decreto ordina ai Boemi di aderire al cattolicesimo o di lasciare il Paese, mentre ai Gesuiti viene affidato il controllo delle scuole e dell’università, e l’esercizio della censura. Praga perde la prerogativa di città imperiale.

    La prima fase del conflitto, definita boemo-palatina è segnata anche da altri importanti eventi: il 31 marzo 1621 muore Filippo III, il 13 luglio dello stesso anno l’arciduca Alberto.

    Il primo ministro del nuovo re – in castigliano valido –, Gaspar de Guzmán, conte-duca di Olivares è nipote di Baltasar de Zúñiga, un tempo ambasciatore a Praga. Il primo compito di Olivares è quello di eliminare il dualismo interno alla politica spagnola, riconfermando il controllo del governo di Madrid di fronte all’influenza dei generali e degli ambasciatori. Il suo problema principale è quello di trovare i mezzi necessari a sostenere una politica estera ambiziosa. La Spagna di Filippo IV e di Olivares ha ereditato una grande quantità di debiti e appare naturalmente avversaria delle Province Unite, che rappresentano un diverso tipo di organizzazione economica, politica e religiosa. In aperta sfida all’impero coloniale spagnolo, le Province Unite fondano nel 1621 la Compagnia olandese delle Indie occidentali.

    Un nuovo fronte di guerra, determinante per le comunicazioni tra l’Italia e l’Europa centrale, si apre in Valtellina. Appartenente al cantone svizzero dei Grigioni, la Valtellina è dilaniata dal conflitto tra il partito dei Planta, filoasburgico, e quello dei Salis, che propendono per gli Stati boemi e olandesi, Venezia e la Francia.

    L’occasione per l’intervento spagnolo è data da motivi religiosi: dopo una rivolta che sfocia nel cosiddetto sacro macello di 600 protestanti, le truppe spagnole e austriache occupano il Paese. Nel gennaio del 1622 il duca di Feria, governatore di Milano, e l’arciduca Leopoldo, futuro imperatore Leopoldo I, occupano la Valtellina. Il 30 settembre 1622 viene firmata la pace di Lindau: Madrid controlla i passi alpini.

    La fase danese

    L’intervento di Cristiano IV, re di Danimarca (che si sente minacciato da Gustavo II Adolfo Vasa, paladino della fede luterana, e dall’avanzata di Tilly nella Germania settentrionale), obbliga l’imperatore a riprendere le ostilità: il Sund dà l’accesso al Baltico. Il comando delle truppe imperiali è affidato a Wallenstein, un nobile boemo arricchitosi grazie alle speculazioni e ai patrimoni immobiliari accumulati durante la restaurazione cattolica del Paese. Il suo esercito è un’impresa privata, in cui tutti gli ufficiali hanno una partecipazione finanziaria e si attendono un ricco profitto dai saccheggi delle regioni attraversate. Dopo la vittoria di Tilly a Lutter e l’occupazione dello Jutland da parte delle truppe di Wallenstein, Cristiano IV è costretto a firmare il 7 giugno 1629 la pace di Lubecca che conclude la fase danese della guerra.

    La restaurazione cattolica e il disegno di assoggettamento politico della Germania agli Asburgo trionfano.

    Due mesi prima della pace di Lubecca, nel marzo del 1629, Ferdinando II emana l’editto di Restituzione, che stabilisce che i beni secolarizzati in Germania dopo il 1555 (anno normale) devono essere restituiti, e convoca nel giugno del 1630 la Dieta di Ratisbona con l’intenzione di far eleggere suo figlio Ferdinando re dei Romani e di applicare all’impero le misure imposte ai paesi cechi (ereditarietà della corona e restaurazione cattolica). Preoccupati per il modo in cui il Meclemburgo è stato confiscato ai duchi che vi regnavano (schierati al fianco del re di Danimarca) per darlo a Wallenstein, con un metodo che può costituire un precedente per future usurpazioni, e influenzati dal padre cappuccino Joseph du Tremblay, uomo di fiducia del cardinale Richelieu, con cui Massimiliano di Baviera ha stipulato un’alleanza, gli elettori di Germania chiedono il licenziamento di Wallenstein, la riduzione dell’esercito imperiale e il rinvio dell’editto di Restituzione alla decisione di un Reichstag.

    Ferdinando II è costretto a cedere senza ottenere nulla in cambio. Dal 1625 al 1630 è mutato il carattere del conflitto: i vecchi punti nevralgici, la Boemia e i Paesi Bassi, rimangono cruciali; nuovi fronti di guerra si sono aperti in Italia e nel Baltico; l’Inghilterra si è ritirata e le Province Unite sopportano interamente l’offensiva asburgica; la Francia, non potendo assistere indifferente al rafforzamento asburgico, con il trattato di Monçon (1626) costringe gli Spagnoli a riconoscere l’indipendenza della Valtellina cattolica e con il trattato di Cherasco (1631) si garantisce il possesso di Pinerolo; stipula inoltre un’alleanza difensiva con Massimiliano di Baviera, firma con la Svezia il trattato di Bärwalde ed entra nel teatro della guerra, alleandosi con Gustavo II Adolfo Vasa (protettore dei protestanti) e con Massimiliano di Baviera, capo della Lega Cattolica.

    La fase svedese

    Meno di un anno dopo la Dieta di Ratisbona, l’entrata in guerra di Gustavo II Adolfo Vasa, interessato al dominio del Baltico, e i suoi primi successi producono un mutamento decisivo dell’equilibrio di forze creato dall’armata di Wallenstein: è la fase svedese del conflitto.

    Gli elettori di Sassonia e Brandeburgo si schierano con Gustavo II Adolfo: il 17 settembre 1631 nella battaglia di Breitenfeld le truppe imperiali, comandate da Tilly dopo l’allontanamento di Wallenstein, sono sconfitte.

    Gustavo Adolfo Vasa marcia trionfalmente verso la Renania, occupando Francoforte, Magonza, Heidelberg e Mannheim; nella primavera del 1632 muove contro la Baviera ed entra a Monaco il 15 maggio; poi occupa Norimberga e cerca di raggiungere Giovanni Giorgio di Sassonia, che ha occupato Praga.

    Il generale Tilly tenta di impedire agli Svedesi l’attraversamento del Danubio, ma viene ferito a morte nell’aprile del 1632 presso Rain.

    Wallenstein è frettolosamente richiamato dall’imperatore e riorganizza il proprio esercito: nel maggio del 1632 riesce a cacciare i Sassoni dalla Boemia.

    Il 16 novembre 1632 avviene a Lützen la battaglia decisiva: avendo Wallenstein abbandonato il campo di battaglia, la cavalleria svedese si dichiara vincitrice, ma Gustavo Adolfo è ferito a morte.

    La morte di Gustavo Adolfo non modifica immediatamente le sorti della guerra. In Svezia la figlia Cristina ha soltanto sei anni: la reggenza viene affidata ad Axel Oxenstierna che riesce a mantenere unito il campo protestante formando, nell’aprile del 1633, la lega di Heilbronn. Wallenstein, che conduce intanto trattative personali con i nemici dell’imperatore, viene assassinato a Eger il 24 febbraio 1634.

    Nella Germania meridionale truppe spagnole provenienti dall’Italia e destinate ai Paesi Bassi sconfiggono in due giorni (56 settembre 1634) gli Svedesi nella battaglia di Nördlingen. La conseguenza politica immediata è lo scioglimento della lega di Heilbronn e la fine del predominio svedese in Germania.

    La fase francese

    Nel campo antiasburgico la guida passa alla Francia che, dopo aver rinnovato l’alleanza con la Svezia, stipula il 25 febbraio 1635 un’alleanza con gli Olandesi e il 17 maggio dichiara guerra alla Spagna.

    Lo scopo di Richelieu è quello di impedire il consolidamento della potenza imperiale in Germania; la Svezia vuole affermare la propria egemonia sul Baltico; le Province Unite vogliono consolidare le conquiste coloniali e l’indipendenza dalla Spagna. Le potenze non possono assistere, però, al rafforzamento della Sassonia e del Brandeburgo. Nella pace di Praga del 30 maggio 1635 ai Sassoni viene confermato il possesso della Lusazia superiore e inferiore, ma devono rompere i legami politici con le potenze straniere. L’editto di Restituzione viene abrogato per quarant’anni e il 1627 viene scelto come anno normale per dirimere le dispute sui diritti di proprietà.

    La coalizione antiasburgica tra la Francia e le Province Unite sopravvive, manipolata dalle mire egemoniche di Richelieu. Finisce l’epoca del condottiero onnipotente: il ruolo di imprenditore militare appartiene allo Stato. Da parte imperiale, Olivares riesce a stipulare a Ebersdorf, il 31 ottobre 1634, un trattato segreto con l’impero e i principi tedeschi: l’intero Sacro Romano Impero avrebbe aiutato il re cattolico nella lotta contro gli insorti. Intanto le truppe svedesi rafforzano la propria posizione nell’Europa centrale sconfiggendo gli imperiali e i Sassoni nella battaglia di Wittstock (4 ottobre 1636) e, dal 1638, i Francesi e i loro alleati acquisiscono importanti vantaggi: in Alsazia viene occupata il 17 dicembre Breisach, che domina le vie di comunicazione spagnole dalla Franca Contea verso la Germania e da Milano verso i Paesi Bassi; in Germania, gli Svedesi penetrano in Slesia e in Boemia e, sul fronte dei Pirenei, nonostante la vittoriosa difesa di Fontanarabia nel settembre del 1638, gli Spagnoli perdono Rossiglione (con la conseguente rivolta della Catalogna) e Perpignano.

    Lo scontro decisivo avviene a Rocroi, alla frontiera dei Paesi Bassi spagnoli, il 19 maggio 1643: i tercios spagnoli sono sconfitti dal principe di Condé; poi vengono espugnate Thionville, Gravelines, Courtrai e, nell’ottobre del 1646, Dunquerque.

    Ma alcuni protagonisti della guerra dei Trent’anni sono scomparsi dalla scena politica e diplomatica da alcuni anni: l’imperatore Ferdinando II è morto nel 1637, Richelieu nel dicembre del 1642 e Olivares viene destituito un mese dopo, nel gennaio del 1643. Pochi giorni prima della battaglia di Rocroi, il 14 maggio 1643, muore anche Luigi XIII.

    L’imperatore Ferdinando III viene stretto dagli Svedesi del generale Lennart Torstenson, che nel 1642 occupano ancora una volta la Boemia e nel 1645 avanzano in Moravia cingendo d’assedio Brno, e dalle truppe del principe di Transilvania Giorgio I Rákóczy, che occupano la riva settentrionale del Danubio. Egli deve riconoscere il fallimento dei piani volti ad assicurare l’egemonia degli Asburgo in Germania e il diritto della Svezia e della Francia di intervenire negli affari tedeschi. Con la pace di Linz (1645) Ferdinando III ottiene la neutralità della Transilvania.

    Verso la pace

    Nel 1644 gli Asburgo di Spagna, indeboliti nella penisola iberica (dalle rivolte della Catalogna e del Portogallo) e sul fronte francese, sono sulla difensiva come pure gli Asburgo d’Austria, abbandonati dagli elettori di Sassonia, del Brandeburgo e, in parte, della Baviera. Il fronte antiasburgico è al tempo stesso in gravi difficoltà con l’elezione al soglio pontificio del filospagnolo Innocenzo X, e il patriziato mercantile delle Province Unite non è più interessato a una guerra con la Spagna, redditizia ormai solo per la Francia.

    Il 30 gennaio 1648 le Province Unite firmano a Münsterun il trattato di pace con la Spagna, ottenendo il riconoscimento dell’indipendenza e i territori di cui si sono impossessate in Brabante, Fiandre e Limburgo, e abbandonano l’alleanza antiasburgica.

    Un congresso diplomatico si svolge dal 1644 nelle città di Münster (dove si svolgono le trattative tra l’imperatore e la Francia) e di Osnabrück (tra Ferdinando III e gli Stati protestanti guidati dalla Svezia). Il 24 ottobre 1648, nel quartier generale della delegazione imperiale a Münster, viene firmata la pace di Westfalia che pone fine alla guerra dei Trent’anni.

    Rimandi

    Volume 44: Felix Austria: l’Impero asburgico da un fanciullo ignudo a Praga magica

    Eserciti e flotte

    Gli Stati italiani

    La Spagna

    La Francia

    L’Impero germanico

    Repubblica delle Province Unite e Paesi Bassi meridionali

    La Svezia

    Volume 56: L’Impero asburgico

    Le finanze degli Stati

    Marina Montacutelli

    Il secolo di una guerra lunga trent’anni comincia con la pace: interna e tra vicini. Nel 1598 quella di Vervins mette fine alle guerre di religione in Francia e alle tensioni con gli Spagnoli; nel 1604 l’intermittente conflitto anglo-spagnolo, che aveva causato tensioni tra i due Paesi con ripercussioni sull’intera area europea dall’Irlanda ai Paesi Bassi, conosce una sospensione; nel 1609, una tregua di dodici anni viene sancita tra Spagna e Province Unite, permettendo a queste ultime di sagomare le proprie capacità mercantili e finanziarie. Le risorse, a lungo impegnate per finanziare le guerre, potrebbero indirizzarsi verso la crescita e lo sviluppo. In realtà, nel corso del secolo questi obiettivi per molti Paesi si rivelano impossibili o fallimentari; non solo perché la guerra appare, nel XVII secolo, endemica ma anche perché nel corso del secolo una diversa gerarchia economica si appalesa prima e si rafforza poi. Da una parte, le risorse degli Stati vengono messe all’asta e in alcuni casi gli Stati stessi diventano simulacri di private attività e interessi di privati finanzieri; dall’altra, le guerre e le rivoluzioni che sconvolgono il secolo prefigurano diversi soggetti che tentano di piegare l’economia al servizio del potere politico. Sullo sfondo, la decadenza: ma non per tutti e non ovunque.

    Pubblico e privato al servizio dell’economia?

    Il Seicento è ancora epoca indistinta: certo, il funzionamento del pubblico potere – qualunque sia la forma istituzionale – non è più garantito soltanto dal patrimonio personale del sovrano. Tuttavia, le forma che assume lo Stato, le possibilità o le capacità di accertare la ricchezza di chi ci abita o di chi vi produce, il modo di convogliarla verso gli obiettivi e l’uso che si fa delle risorse drenate o da chi si attingono e con quali conseguenze, si situano in una zona opaca. La fiscalità non è del tutto specchio della natura dello Stato, né indice della sua modernità perché la compresenza di tanti soggetti, tante resistenze e tanti interessi producono sovrapposizioni di ruoli e funzioni ma, soprattutto, perché ancora indistinta è la differenza tra pubblico e privato giacché l’uno si incunea, si sovrappone, scaturisce dall’altro. Comunque, e ovunque, c’è bisogno di denaro: per far le guerre, per opere pubbliche o di difesa, per embrionali o complesse infrastrutture: per interessi che coinvolgono molti, quasi sempre al servizio di pochi.

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