Storie Cartaginesi e Racconti Antichi di Sardegna
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Anteprima del libro
Storie Cartaginesi e Racconti Antichi di Sardegna - Fabrizio Trainito
Gli Shardana e i Popoli del Mare alla conquista dell'Egitto
Sardegna, terra del popolo dei Serdàioi o Serdan o Shardana, uno dei Popoli del Mare
.
Chiamata dai Greci Icnussa o Ichnusa o anche Sandaliotis, per la sua forma simile alla orma di un sandalo. Fu denominata Sardinia dai Romani.
Le nebbie dei tempi passati avvolgono nome e vicende di un popolo in parte ancora sconosciuto.
La storia che narro appartiene ad una possibile interpretazione storico-archeologica, che mi è piaciuto scegliere. Seguitemi e scoprite uno dei passati possibili di questa terra e del suo antico popolo.
Sardegna, terra degli Shardana, 1186 a.C.
Mi chiamo Ursarus e da sempre sono un guerriero. Ero giovane quando mio padre, Tunila, mi porse una mazza di legno. Senza attendere mi aveva attaccato, investendomi con colpi e spinte. Mi aveva buttato a terra e lì mi aveva incalzato col suo bastone. Io paravo come potevo quei colpi, come avevo visto fare, come più volte avevo fatto giocando con i miei compagni, ma non era mai sufficiente. Lui trovava varchi aperti nella mia difesa e ogni volta affondava un colpo. Non erano dati con tutta la forza, erano trattenuti, ma facevano comunque male. In breve ero pieno di lividi e doleva ogni mio muscolo. Quando stentavo a rialzarmi mi urlava addosso e mi colpiva con più rabbia. Sembrava un demone! Alla fine rimanevo giù, senza più forze. Solo allora si placava e sembrava trasformarsi. Mi tirava su, controllava che non fossi ferito. Andavamo sulla spiaggia a tonificare i nostri muscoli in acqua salata. Il mare sanificava ogni cosa e ristorava la mente. Ogni onda ci lavava via le ferite e la stanchezza, mentre il sole al tramonto dava ristoro alla mente. Noi isolani siamo gente di mare, abbarbicati alla nostra terra, ma sempre pronti a salpare. C'è sempre chi, come mio padre, preferisce tener bene i piedi saldi sul terreno e menar con la mazza o trafiggere con la spada e chi invece ama volar via spinto dal vento e accompagnato dalle correnti. Io son troppo giovane e di questi due gruppi non so ancora a quale apparterrò, seppur mio padre propenda per me un destino che a lui mi accomuni.
Ho tirato con l'arco, ho persino vinto la gara del nuraghe l'estate scorsa. Mio padre non ha detto una parola, il suo volto impassibile mi aveva ferito. Poi, la sera, a casa, mi aveva preso da una parte e mi aveva parlato. Un arciere non è un vero guerriero, mi disse serio. In battaglia un popolo ha bisogno di arcieri e di frombolieri, sia negli scontri in mare, sia nella difesa delle mura, sia prima della mischia per sfoltire le fila avversarie o per rallentare l'impeto del loro assalto. Poi quello che davvero importa è il combattimento corpo a corpo. Quello vero, fatto di colpi dati e ricevuti, di finte, affondi e parate, di ferite e clangore. La battaglia è un tripudio di sangue che si mescola e disseta il terreno e i suoi dei.
Solo il guerriero vero è degno di prenderne parte, mentre l'arciere da lontano scocca verso chi non vedrà mai negli occhi. Le sue frecce colpiscono all’improvviso, a tradimento, senza che la vittima possa difendersi. Non è valore questo, ma solo codardia. Quando un arciere viene attaccato da un guerriero è un uomo morto. Non abituato a difendersi nel combattimento ravvicinato è facile preda.
Solo noi guerrieri abbiamo davvero il diritto di prendere una vita, perché onoriamo il nostro nemico incontrando la sua spada, sentendone il respiro, guardandolo negli occhi. I veri guerrieri combattono corpo a corpo e si proteggono l'un l'altro nella mischia, gli altri osservano la battaglia da lontano e al primo pericolo fuggono. Concluse dicendo che voleva combattere sapendomi al suo fianco e non su una collina lontana a scoccare frecce.
Siamo una stirpe di guerrieri. I padri hanno combattuto in terre lontane, oltre il mare, nei regni ad oriente. Egizi, Ittiti, Micenei, popoli il cui racconto spesso travalica nel mito. Ci sono storie di carri da guerra, di lame ricurve, di fiumi immensi e città ricchissime. Da sempre l'Oriente è stato per noi terra di conquista e di facile bottino. Lì presto saremmo andati. Era stata pattuita con altri popoli guerrieri una grande alleanza. Il premio era l’oriente con tutte le sue ricchezze. In molti avevano già combattuto in quelle terre e le conoscevano bene. Avevano fatto i mercenari prima, erano tornati poi per far razzie, adesso erano tutti decisi ad impossessarsi di quei regni per farne la loro nuova dimora.
Tebe nel Regno d'Egitto, intorno al 1185 a.C.
Ramses III è da qualche anno il nuovo faraone, salito al trono, dopo lo splendido lungo regno di Ramses II e quello del divino Merenptah. L'Egitto vive tempi di pace e di ricchezza, ma già si avverte che non vi è più il fasto dei regni precedenti. Egizi e Ittiti dominano su territori sconfinati. Avevano stretto un'alleanza militare e commerciale e la pace da allora regnava in tutto il mondo o almeno così ci veniva continuamente ripetuto. Sessanta anni prima mio nonno era stato l'artefice di quell'importante accordo. Si era recato dal sovrano ittita per conto del faraone. Era stato via a lungo, quasi due mesi, poi era tornato con una proposta interessante. Due popoli, che si erano affrontati a lungo e che ben ricordavano l'epica battaglia di Qadeš, ognuno attribuendosene la vittoria, stringevano così un patto per dividersi il mondo intero e tutte le rotte commerciali. Ricchezza e potere non erano mai stati così concentrati in poche mani.
Per anni regnò la pace e non ci fu bisogno di grandi eserciti. Molti mercenari furono così rimandati a casa, ahimè con loro evidente disappunto.
D’altronde se la pace regnava nei paesi alleati, all'esterno forze malvage sempre più insistentemente premevano sui confini, mettendo a dura prova gli eserciti, impegnati in una continua opera di difesa e di respingimento. Nubiani, Libici, Assiri, Popoli del Mare provenienti da ogni dove erano portatori di insicurezza. Gli stessi mercenari che avevano combattuto per il faraone erano sempre più spesso protagonisti di attacchi e saccheggi.
Mio padre Ottah prima e mio fratello Sef poi accorrevano con i soldati del faraone per ricacciare indietro quei predoni che si facevano sempre più audaci. Il mio nome è Oseye, che significa 'felice', ma non mi sentivo davvero felice in quelle situazioni difficili. Avrei voluto fare la mia parte, ma chi dava retta ad una giovane ragazza? Per noi non c’era posto nell’esercito, né venivamo ascoltate in alcun modo. Ero sempre con mio padre e avevo imparato molte cose. Da lui ero sempre stata trattata con affetto, non era però sufficiente per aver un ruolo in tutto quel discorso tipicamente maschile che era la guerra.
Mio fratello Sef, che significava 'il lupo', era il più ardito nelle manovre e il più coraggioso negli scontri. Era stato posto al comando della squadra di carri più forte, quella sempre in prima fila. Era l'orgoglio della nostra avanguardia e il preferito di nostro padre. I carri che ci furono portati in dono dagli Ittiti erano diventati la nostra arma più forte. Li avevamo migliorati e avevamo imparato le tecniche di combattimento più efficaci. Mio fratello si era più volte distinto in azioni militari, che lo stesso faraone aveva apprezzato.
Sembrava comunque che nulla avrebbe potuto turbare la quiete della corte e del popolo d'Egitto, ignaro dei rischi che provenivano da oltre confine. Tuttavia quella mattina un messaggero giunse dalle terre a nord con notizie incredibili. Il regno degli Ittiti e il regno di Ugarit erano sotto attacco. I Popoli del Mare stavano insidiando gli storici alleati dell'Egitto. Al faraone veniva richiesto un aiuto militare per ricacciare in mare gli assalitori.
Mio fratello subito si era offerto di comandare i soldati del faraone in aiuto degli alleati Ittiti. Col