Jiox il Sikano
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Ogni popolo ha un eroe. un eroe senza ambizioni reali e con la totale assenza del falso nei confronti del suo popolo, il popolo sikano.
un eroe uscito fuori dai confini sikani e con il dono della mediazione fattiva.
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Anteprima del libro
Jiox il Sikano - Giuseppe Panepinto
ISBN
Giuseppe Panepinto
I Sikani
JIOX IL SIKANO
Romanzo Storico
Studio Byblos
Al Sikano che più amo al mondo
Flavio Panepinto
mio figlio
La voglia di riscatto di un popolo ed il forte senso di giustizia, hanno portato un eroe, un piccolo eroe sikano a liberare una terra che, sotto il giogo manipolatore del falso senso di democrazia di popoli ospiti in terra sikana, erano diventati padroni e carnefici.
Ogni popolo ha un eroe. Un eroe senza ambizioni reali e con la totale assenza del falso nei confronti del suo popolo, il popolo sikano.
Un eroe uscito fuori dai confini sikani e con il dono della mediazione fattiva.
Poche parole e tanti fatti e sono proprio questi a parlare di lui.
Un esempio per i giovani e garanzia per i vecchi.
Un eroe senza elmo e senza paura di metterci la faccia nei combattimenti.
Un uomo che capisce la più grande delle verità: che tutti i popoli di quella terra che tanti chiamano Trinacria, sono fratelli ed anche coloro che si definiscono greci si nutrono dei prodotti della stessa terra, bevono l’acqua delle stesse fonti e quando spunta il sole, spunta per tutti gli abitanti di quella meravigliosa isola al centro del Mediterraneo.
La più grande miniera di grano del grande mare e la più ambita preda di tutti i popoli.
L’eroe è Jiox il sikano.
Prefazione
Se è vero, ed è vero, che l’abito non fa il monaco, non sono le magnifiche armi scintillanti, la sfavillante armatura, la possente figura a fare di Jiox un eroe. Jiox non è un erudito, non sa di grammatica ne’ di nulla altro che non sia relativo al mondo agro pastorale a cui appartiene e in cui è nato e vive; il suo maestro è un vecchio saggio che non gli ha dato prescrizioni, non gli ha mai detto: Questo si fa e quello no
, ma gli ha semplicemente
raccontato fatti e accadimenti del popolo e della terra a cui entrambi appartengono. Jiox è intelligente e, attratto dai racconti del vecchio saggio, nutre nel suo animo quello che già c’è di buono in se’: amore per la sua terra, abominio per le ingiustizie, ricerca della verità, rettitudine, senso di fratellanza, brama di conoscere e desiderio di pace. Conoscendo Jiox attraverso la lettura delle pagine di questo romanzo sembra di sentire riecheggiare nelle orecchie quanto Anchise disse a Enea: Haec tibi erunt artes, pacisque imponere mores, parcere subiectis et debellare superbos
(Il tuo compito sarà questo, imporre norme alla pace, risparmiare quelli che si sottomettono e debellare i superbi
- Virgilio, Eneide – VI libro).
Jiox conosce il mondo pian piano con tutte le sue bruttezze: ciò che vede è fortemente in contrasto con i buoni sentimenti che lo nutrono annidati nel suo animo, e non può esimersi dal ribellarsi al male e porre quindi rimedio; le armi sono per lui un mezzo per portare a compimento la lotta alla prevaricazione e alle ingiustizie e lui, illetterato ma dottore per gli insegnamenti pratici ricevuti dal vecchio, è capace (anche per dote innata) di tenere discorsi convincenti tanto da coinvolgere, lui adolescente (teenager!) vecchi capi militari consunti in anni di battaglie.
La sua intelligenza e vivida intuizione gli consentono anche di ideare strategie militari che sembrano strutturate nella sua mente da lungo tempo, ed è sempre pronto a gettarsi in prima persona nella mischia. Questo suo sapersi mettere in gioco, unito a tutte le altre qualità, gli consente subito di emergere e di farsi notare come un vero condottiero.
Per ottenere la pace Jiox deve quindi usare anche le armi che sa usare con estrema perizia e abilità: Si pace frui volumus, bellum gerendum est
- (Se vogliamo godere della pace, occorre fare la guerra – Cicerone, Philippicae VI), ma non è un attaccabrighe, anzi, se intuisce la possibilità di una alleanza ne è ben lieto, e non convince l’avversario con parole melliflue, ma usa ragionamenti concreti che rivelano tutta la saggezza del contadino e del pastore di un tempo che fu e che, ci auguriamo, sia ancora e per lungo tempo.
L’amore dell’Autore per la sua terra traspare da ogni pagina, in modo sentito, forte ma garbato; avere radici, conoscerle e condividerle è quel senso di cultura che non costa niente ma produce frutti preziosi.
Alessandro Borghi
Capitolo I
Quella sera, la cena era una zuppa di latte che non vedeva l’ora di terminare per andare a sentire il grande saggio raccontare le storie. La storia del suo popolo, della sua gente, del lungo viaggio fatto prima di arrivare in quella terra che i suoi antenati chiamarono Sikania e che già aveva nome di Trinacria per chi Sikano non era. Quella terra fertile, ricca di acqua, piena di animali, ottima per gli armenti e per la coltivazione del grano. Una terra che era un’isola al centro del grande mare.
Fece una grande corsa per arrivare prima degli altri e mettersi vicino al vecchio saggio e vicino al fuoco. Stava per arrivare l’estate ma sulla montagna la sera faceva ancora freddo e lui, come tutti, era vestito di pelle di pecora conciata nella parte bassa ed una grande casacca rossa ricavata dalla lana di pecora, filata e cucita dalla madre.
La ricchezza dei Sikani era data dagli armenti, dal grano e dallo scambio di mercanzie con mercanti punici, fenici e greci.
Mentre correva si era fermato, come sempre, a contemplare il cielo, ne era innamorato ed era sempre un miracolo degli antenati e dei loro spiriti.
Le stelle sembravano vicine, tanto vicine, come quasi a poterle toccare.
Il cielo era di un blu scuro da rimanere incantati ed infatti Jiox, rimaneva fisso a contemplare quella magia e, puntualmente arrivava sempre dopo gli altri: ma lui amava la terra e guardava in alto come se volesse guardare la sua amata, proprio con gli occhi dell’amante, dell’amante sikano.
Il vecchio saggio era innamorato dell’acutezza, dell’intelligenza e dalla curiosità di Jiox e prima di iniziare il racconto lo aspettava.
La casa del vecchio saggio era nella parte alta di Hippana, simile a tutte le altre. La parte bassa in pietra viva e la parte alta con pali in legno di libano sikano, legati ad uno più largo ed alto che veniva piantato al centro.
La copertura esterna era costituita da fascine e fango mentre, nella parte centrale, in alto, vi era un’apertura tonda per fare uscire il fumo e gli odori.
Come porta un accrocco fatto da piccoli pali legati fra loro ed attaccati ad un altro palo piantato a terra con delle strisce di cuoio. Fra le pietre, nella parte bassa, si metteva del gesso impastato con acqua come collante.
La casa era sempre di forma circolare con al centro il fuoco sempre acceso, con al di sopra una grossa pentola per il fabbisogno giornaliero di cibo, acqua calda e come forma di riscaldamento. Al centro della città c’era una costruzione simile alle altre ma molto più grande e di forma rettangolare, la dimora del Re. Una volta al mese vi si radunavano tutti i capi delle città, villaggi ed insediamenti, tutte le maestranze ed i capi militari. Si decideva per alzata di mano e si dettavano le regole della vita sociale del grande, antico, regno sikano. In città risiedevano le donne, i bambini, i soldati e gli artigiani. I pastori e gli agricoltori scendevano dalle montagne una volta a settimana e vivevano perennemente con gli armenti in pagliai fissi fra le montagne e nelle terre coltivate a grano e frutta.
Hippana si trovava di fronte a Monte Cavallo e da lì, in lontananza si ancora oggi si vedono Rocca Busambra, il Monte Cammarata e la grande valle del Cratèn che porta al mare seguendo il fiume Sòsio.
Quella sera, il saggio chiese al ragazzo: -Cosa vuoi risentire Jiox?
Voglio che racconti ancora una volta le terre che abbiamo lasciato e la grande traversata fatta dal nostro popolo. Vorrei risentire del grande mare e delle grosse navi per attraversarlo
.
Rispose il ragazzo, curioso di capire il perché di quella traversata ed il perché un popolo fosse costretto a lasciare tutto a causa di altri popoli senza motivi apparenti.
Il saggio cominciò a raccontare mentre con un legno fine e lavorato rimestava la cenere ed il fuoco. Ad ascoltare c’erano tanti ragazzi e tanti adulti e tutti erano attenti e non volevano perdere una sola parola del vecchio saggio. L’uomo quando raccontava, sembrava essere in un altro posto e quasi sempre le lacrime gli riempivano le rughe che dagli occhi gli percorrevano il viso.
Dopo attimi di silenzio, interminabili, inizia: "Vi racconto ciò che il nonno di mio nonno diceva e raccontava.
Era una terra meravigliosa, che gli Dei avevano donato al nostro popolo.
Una terra piena di fiumi e di montagne.
Una terra dove regnava la pace e l’armonia.
I nostri amici erano i Galli a nord e gli Iberici a sud e a est il grande mare, tutto aveva un senso e tanta era la pace che non vi era necessità di avere guerrieri e soldati.
La nostra gente viveva di caccia, di pesca, di bestiame, dei prodotti della terra e di ciò che la natura e gli Dei regalavano.
Un giorno il nostro popolo vide delle grandi navi piene di uomini armati, erano i Liguri e gli Apuani. Costoro non vivevano nella pace ed i loro Dei erano per la guerra e la sopraffazione: dopo avere sottomesso gli altri popoli, li derubavano, violentavano le donne, prendevano i bambini come schiavi e li addestravano alla guerra, non erano genti con cui trattare. Inoltre il saggio già aveva avuto delle visioni in cui i Liguri e gli Apuani facevano versare a noi sangue e ci portavano tanta sofferenza. Allora radunati Re e capipopolo, li convinse che sarebbe stato meglio per tutti andare via da quelle terre. Lasciati un gruppo di cacciatori ed i vecchi come diversivo, tutti si misero in marcia verso nord per poi costeggiare il mare ed andare a sud. Erano pochi i villaggi ma erano ricchi.
Sapevamo lavorare l’oro e i metalli, l’argilla per fare utensili di terracotta per mezzo di grandi forni costruiti sotto terra o nelle grotte delle montagne.
Le urla di chi fu ucciso del nostro popolo si sentivano in lontananza ma, i Liguri e gli Apuani avevano paura dei Galli e degli Iberi per inseguire gli altri che erano già partiti.
Dopo tre giorni di cammino i nostri entrarono nelle Gallie e costeggiando il grande mare andarono verso est fino alle terre italiche degli Etruschi dove camminarono tanto e senza sosta. Molti morirono di stenti, malattia, carestia. Le giovani mamme perdevano il latte e i più deboli si ammalavano e rimanevano indietro ma, non potevano fermarsi.Lungo il tragitto vi erano villaggi ed allora i nostri si inoltrarono sulle montagne fino a raggiungere una terra ricca di boschi dove si fermarono per riposare così i cacciatori poterono dar ben da mangiare ai nostri anche con l’aiuto di chi fra i nostri sapeva raccogliere il cibo che offre la natura. Di più diedero da mangiare ai ragazzi che erano il futuro della nostra gente ormai decimata. La stagione fredda era alle porte ed il Re decise che sarebbe stato meglio rimanere in quel luogo per ripartire a primo sciogliersi della neve nelle montagne. Allora i nostri si divisero in otto gruppi separati, si distanziarono e ricominciarono a vivere. I nostri durante la caccia si incontravano con gli uomini che abitavano in quei luoghi di montagna. Essi abitavano in città fortificate, erano pacifici ma nelle loro città avevano soldati addestrati alla guerra. I nostri pastori erano benvoluti ed insegnarono a queste genti di pace la lavorazione del formaggio, mentre le nostre donne insegnarono alle loro donne a filare la lana. A differenza nostra essi avevano navi buone per commerciare e capaci di attraversare il grande mare. Un giorno i loro marinai commercianti raccontarono di un’isola grande e rigogliosa, poco abitata e piena di verde e di boschi e di sole.
Poco abitata perché nella parte occidentale non c’erano ancora gli Elimi, loro che fuggirono da una città di nome Troia che era stata distrutta dopo una guerra durata dieci anni. A quei tempi gli Elimi, ancora non vivevano come oggi del commercio del sale e del pesce lavorato, doni del grande mare, e ancora non avevano fondato la loro città principale Eryx. Sempre nell’isola a nord non c’erano ancora neanche i Fenici fondatori di Zyz e di Mothye e poi verso est, sotto la grande montagna fumante spruzza-fuoco, non ci viveva neppure il popolo dei Siculi come oggi. Questi racconti piacquero e affascinarono i nostri e così una sera il re e i capi si riunirono e decisero che, una volta finito il freddo, si sarebbero messi in viaggio verso l’isola verde piena di sole per dare di nuovo una patria e una terra al nostro antico popolo. Venne il tempo della fine del freddo, la neve iniziò a sciogliersi, e, sebbene le donne e le pecore avessero già partorito, il cominciare un viaggio così lungo sarebbe stata cosa priva di senno.
Così i nostri invitarono i loro ormai amici marinai commercianti, a portarli con le loro navi fino all’isola verde. Chiesero in cambio ai nostri tutto l’oro e le cose preziose. Senza condizioni.
Il Re e i capi acconsentirono e con quasi tutte le navi che avevano a disposizione salparono. Il nostro popolo contava tremila persone, più gli armenti.
Dopo due settimane in mare, finalmente, arrivarono e sbarcarono in un punto fra le Zyz ed Eryx che conosciamo a nord dell’isola, esattamente fra le terre che saranno poi degli Elimi e dei Fenici.
Il Re ed i capi pensarono di mettersi in marcia verso l’entroterra e così fecero e più si addentravano, più erano stupiti dalle ricchezze naturali che si presentavano loro sotto gli occhi. Dopo una settimana di cammino raggiunsero i luoghi abitati dalle nostre genti e vi si stabilirono. Diedero nome all’isola, la chiamarono Sikania".
Il vecchio saggio raccontava ed i suoi vecchi occhi opachi si inumidivano e le lacrime solcavano le tante rughe della faccia, come sempre.
Ogni tanto faceva delle pause e nel mentre con il legno frugava nella ceppi che ardevano e fra la cenere, non smetteva mai di farlo, forse lo aiutava a ricordare. Il silenzio, durante le pause del racconto, era sacro ed assordante. In quel momento tutti vedevano in cuor loro e nelle loro menti, ciò che i loro antenati lontani hanno dovuto sopportare.
Poi il saggio continuò il racconto: "Con gli Elimi venuti dopo di noi diventammo amici ed alleati ed i nostri popoli scambiavano mercanzie e pure parenti perché i nostri giovani si sposavano fra loro ma, nonsiamo stati e non siamo oggi un unica gente. Il nostro popolo, grazie agli spiriti dei nostri antenati, ha prosperato ed ha fondato villaggi e città su tutta l’isola tanto che, anche gli Elimi ora vivono in terra Sikana, tutti vivono in terra Sikana. Tutta l’isola si è riempita di noi e abbiamo rispettato gli antichi Dei Sikani della natura. Abbiamo rispettato tutto dell’isola e lei ci ha ripagato e ci ripaga con abbondanti messi e non ci fa mancare nulla. Le spighe sono state sempre piene e le macine dei mulini sono state sempre a girare.
Grazie al commercio abbiamo avuto cavalli, oro, ferro, bronzo, rame e tutto in abbondanza. Grazie al commercio chi tra di noi prima fu cacciatore ora è soldato e guerriero ed abbiamo imparato a mantenere il nostro essere Sikani anche usando le armi.
Non c’è luogo sull’isola che non conosciamo. Siamo diventati un grande popolo, rispettato e temuto. Dopo tanti inverni, quando siamo diventati tanti quanto le stelle, le nostre città vicine a dove sorge il sole hanno visto uscire il fuoco dalla grande montagna fumante e sono state seppellite da quel fuoco e tanti sono stati i morti. Così alcune città si spostarono verso di noi mentre altre andarono verso sud. Un giorno i nostri che abitano verso est videro tante navi in mare, ma tante da riempire l’orizzonte,