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Cigni senza collo: Lo sguardo breve delle democrazie tra Putin e Hamas
Cigni senza collo: Lo sguardo breve delle democrazie tra Putin e Hamas
Cigni senza collo: Lo sguardo breve delle democrazie tra Putin e Hamas
E-book337 pagine4 ore

Cigni senza collo: Lo sguardo breve delle democrazie tra Putin e Hamas

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Il volume raccoglie gli editoriali scritti da Sergio Fabbrini per Il Sole 24 Ore nel biennio 2022-2023. Un biennio di drammatici conflitti che si estende dall’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 all’attacco terroristico di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023. Conflitti che continuano a generare devastazioni umane e materiali senza precedenti. Le democrazie di entrambe le sponde dell’Atlantico, sia pure per ragioni diverse, si sono dimostrate capaci di reagire alle due guerre, ma non di agire per anticipare queste ultime e per promuovere la loro soluzione. Non avevano previsto le guerre, si sono trovate impreparate quando queste ultime sono esplose e, una volta esplose, hanno continuato ad affrontarle con lo sguardo rivolto verso il basso. Insomma, i cigni democratici sono molto belli, il loro piumaggio è impareggiabile, ma i loro colli si sono ridotti. Il loro collo ha faticato ad alzarsi per guardare negli occhi le sfide di Putin e di Hamas (e le loro conseguenze).

Le democrazie mi ricordano i cigni. Come i cigni sono uccelli di poco comune bellezza, così le democrazie costituiscono un regime politico di poco comune apertura. Come i cigni sono capaci di volare quando un pericolo si avvicina, così le democrazie riescono a prendere decisioni importanti di fronte a minacce esistenziali. Tuttavia, nell’ordinarietà, le democrazie, contrariamente ai cigni, hanno il collo corto.

LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2024
ISBN9791254843154
Cigni senza collo: Lo sguardo breve delle democrazie tra Putin e Hamas

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    Anteprima del libro

    Cigni senza collo - Sergio Fabbrini

    Parte Prima

    La guerra di Putin

    La Ue deve superare le debolezze politiche

    L’invasione russa dell’Ucraina, ha scritto Emma Ashford, rappresenta un «cambiamento tettonico» della politica mondiale, di sicuro di quella europea. Con tale invasione si è definitivamente concluso il dopo Guerra Fredda iniziato con l’implosione dell’Unione Sovietica tra il 1989 e il 1991 e la sua trasformazione nella Federazione Russa. Quali sono le implicazioni per l’Europa? Il dopo Guerra Fredda è finito perché l’erede della potenza sconfitta nella Guerra Fredda (la Federazione Russa) ha rifiutato (militarmente) la principale conseguenza di quest’ultima, cioè la sua normalizzazione in uno Stato «territorialmente delimitato» (per dirla con Richard Haas). Da tempo, in realtà, la Federazione Russa agisce militarmente per alterare gli equilibri territoriali formatisi negli ultimi trent’anni. Essa non si pensa come uno Stato territoriale, bensì come una potenza imperiale che ha il diritto di ricostruire l’area continentale che era stata sotto il dominio dell’Unione Sovietica. Tuttavia, mentre quest’ultima si era basata su un’ideologia (il comunismo) per giustificare quel dominio, la Federazione Russa si basa su un nazionalismo etnico-religioso che non è esportabile nei Paesi della vecchia sfera di influenza sovietica (se non tra le minoranze russofone presenti in alcuni di essi). Nell’occupazione dell’Ucraina c’è solamente l’affermazione del potere di una nazione forte su una nazione debole, come è proprio dell’azione degli imperi.

    Ha scritto Stephen M. Walt che l’Occidente avrebbe dovuto riconoscere «il senso di insicurezza» creatosi a Mosca con la fine della Unione Sovietica, costruendo un sistema di sicurezza che la garantisse. Può darsi. Però, se è vero che Mosca si sente un impero, per di più privo di bilanciamenti interni, sarebbe stato difficile rassicurarla. Un impero, per sua logica, ha bisogno di espandersi, senza preoccuparsi del diritto dei popoli conquistati a non farsi controllare da esso. Di qui, l’instabilità che si riversa sul resto del continente.

    Mosca mostra che la visione kantiana di una pace perpetua, così diffusa nelle leadership politiche ed economiche europee (a cominciare da quelle tedesche), è irrealistica. Eppure, con la fine della Guerra Fredda, quelle leadership avevano finito per pensare che la storia era davvero finita, per dirla con Francis Fukuyama. L’Unione europea è così diventata una grande potenza mercantilistica, nell’assunzione che i commerci avevano ormai preso il posto delle armi. L’irenismo delle leadership europee (c’è un interesse comune alla pace) non è stato scalfito dalla sequenza di conflitti esplosi in Europa e ai suoi confini (prima e dopo l’11 settembre 2001). Per quelle leadership non c’era più bisogno di proteggersi perché il mondo non era più minaccioso (e, comunque, ci sarebbero stati gli americani a farlo, se necessario). L’Ue si è specializzata nella produzione di norme e di regole, entrambe basate sul mutuo riconoscimento degli interessi. Tuttavia, alcune di quelle regole (dell’Organizzazione mondiale dei commerci o dell’Eurozona, ad esempio) non hanno funzionato come ci si aspettava, attivando sentimenti di chiusura nazionalistica in molti settori di opinione pubblica. Il nazionalismo, nelle sue varianti etniche e religiosi (se non razziali), ha rimescolato le carte. Karl Schmitt si è messo a soffiare sul collo di Immanuel Kant, in diverse capitali europee e non solo a Mosca.

    Bruxelles non può affrontare tali mutamenti senza cambiare il proprio modo di pensare oltre che di funzionare. L’Ue è stata costruita sull’assunto che il nazionalismo non rappresentasse più una minaccia esistenziale, sia al suo interno che all’esterno. Con il risultato che, all’esterno, si è esposta ai ricatti dei nazionalisti in campi cruciali come l’energia o la sanità, oppure è stata costretta ad affrontare giganteschi flussi migratori senza una politica comune, o ha dovuto ricorrere alla benevolenza americana per garantire la propria sicurezza (dalla ex-Jugoslavia alla Libia). Mentre all’interno ha finito per farsi bloccare dai nazionalisti al potere nei suoi Stati membri, avendo strutturato un sistema decisionale in politiche cruciali (come la difesa militare e l’intelligence) basato sulla loro buona volontà a cooperare. La preoccupazione principale dell’Ue è stata quella di mediare tra gli interessi e le idiosincrasie dei suoi Stati membri, come se il mondo esterno non ci fosse. Bruxelles non dispone di una credibile forza militare, eppure nella politica di difesa e di sicurezza comune ha costituito ben 35 comitati e sottocomitati sulle tematiche più disparate. Il suo Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza è alla testa dell’Agenzia europea della difesa, eppure il suo potere è inferiore a quello di un capo del personale. Gli Stati membri, a cominciare dalla Francia, non hanno voluto rinunciare alla loro (formale) sovranità militare, anche se poi sono costretti a telefonare a Washington D.C. ogni volta che si sentono (nei fatti) sfidati. Invece di affrontare la questione della propria debolezza politica, Bruxelles si inventa ogni giorno un modo per spezzettare il suo funzionamento, dall’unione della salute all’unione dell’energia o all’unione della difesa. Nata per addomesticare i nazionalismi, l’Ue rischia di essere addomesticata da questi ultimi.

    Insomma, l’invasione russa dell’Ucraina rappresenta un punto di non ritorno per l’Ue. Quest’ultima, se rimane prigioniera della propria introversione, non potrà affrontare le sfide dei nazionalismi esterni ed interni. Solamente chi dimentica, scrisse tempo fa Bronislaw Geremek, può pensare che la storia non si ripeta.

    27 Febbraio 2022

    Ora la difesa europea deve fare un salto di qualità

    L’aggressione russa dell’Ucraina ci ha fatto capire la natura di chi l’ha compiuta, anche se non mancano (in Italia) coloro che non vogliono capire. A sinistra, leader sindacali e organizzazioni partigiane hanno giustificato quell’aggressione «perché provocata» dalle mire espansionistiche della Nato, senza alcuna evidenza. A destra, leader politici con legami organizzativi con il partito di Putin (Russia Unita) hanno ricondotto quell’aggressione a un conflitto territoriale tra due Paesi, anche qui sfidando l’evidenza. In nome del realismo del più forte, entrambi chiedono di depositare le armi, come se i torti fossero condivisi. Vladimir Il’ič Lenin aveva chiamato «utili idioti» coloro che esaltavano la rivoluzione bolscevica senza capirla. Lenin è morto da tempo, ma gli utili idioti dell’autoritarismo sono in buona salute (come l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, finalmente allontanato dal suo partito). Vediamo invece come stanno le

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