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Riscoprire il conflitto: Dal neoliberismo al neolaburismo
Riscoprire il conflitto: Dal neoliberismo al neolaburismo
Riscoprire il conflitto: Dal neoliberismo al neolaburismo
E-book207 pagine3 ore

Riscoprire il conflitto: Dal neoliberismo al neolaburismo

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Info su questo ebook

Negli ultimi quarant’anni il mondo intero ha visto il netto, progressivo prevalere di una visione politica ed economica orientata ai canoni del cosiddetto «neoliberismo». Ma cos’è il neoliberismo? E cosa ha prodotto?
Una inesorabile erosione dei diritti e un impoverimento di chi lavora. La finanza ha il sopravvento sulla politica e l’economia sul sociale, la persona è ridotta ad un fattore della produzione, un individualismo spinto ha trionfato sul senso di solidarietà e mutualità che da sempre sono state le uniche armi per il mondo del lavoro per far valere le proprie istanze.
Tutto ciò non ha portato a una redistribuzione della ricchezza in senso egualitario ma, al contrario, ha alimentato le disuguaglianze e concentrato sempre più risorse nelle mani di una minoranza.
La riscoperta del conflitto, inteso non come alternativa al confronto, ma come diversa e nuova modalità dura, pura, leale, senza sudditanza, contraria alla logica del «contenimento del danno» e orientata alla contrapposizione nelle piazze e nelle aule dei tribunali, è la strada proposta, da valutare e rivalutare.
Volume patrocinato dall’associazione Comma2 – lavoro è dignità.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita25 apr 2024
ISBN9791223031728
Riscoprire il conflitto: Dal neoliberismo al neolaburismo

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    Anteprima del libro

    Riscoprire il conflitto - Tommaso Vigliotti

    Prefazione

    di Cesare Damiano

    Alla radice del mio pensiero, così come della sinistra in cui mi sono sempre riconosciuto, c’è un principio riformista. Non estremista, non moderato. Siamo riformisti. E, in questa ala della sinistra, io posso definirmi come un riformista radicale.

    Siamo immersi in un’epoca – che dura ormai da quasi quattro decenni – di dominio, sullo scenario politico ed economico, del neoliberismo. Che, declinato in sistemi totalitari come quello russo o cinese, o perfino in forme di «democratura» come quella ungherese, pesa ferocemente sulle spalle di chi del proprio lavoro vive; o dovrebbe vivere. E, per conciliare la nostra natura riformista radicale con una nuova capacità di rispondere alle sfide che ci incalzano in questo tempo, sono convinto che si debba costruire una cultura politica di vasto respiro che definisco da tempo «neolaburista».

    Per far ciò non basta però ricostruire un pensiero e delineare un’iniziativa relativi ai temi del lavoro e del w elfare s tate. Occorre invece dare avvio a un’opera di ricostruzione più ampia, che vada oltre i confini della politica economica e della politica sociale.

    Il punto da cui dobbiamo partire, infatti, è squisitamente politico. Punto che consiste nell’acquisizione della consapevolezza del fatto che oggi, a essere in crisi, è innanzitutto la politica in quanto tale. I partiti politici e l’attività che essi svolgono sono distanti dai cittadini, non li rappresentano. Tra le molteplici cause di questo fenomeno, ormai variamente avvertito in diversi Paesi europei, una mi pare abbia un’importanza decisiva. Il superamento delle ideologie del Novecento, che di per sé era assolutamente necessario, ha portato con sé la cancellazione dei valori. Ciò vale per la destra, ma vale soprattutto per la sinistra. Ne è derivata una politica tutta pragmatica, fatta di posizionamenti tattici, in cui si assiste all’an­nullamento delle differenze fra destra e sinistra. In particolare, per la sinistra, rinunciare al catalogo dei propri valori ha significato dimenticare che essa stessa è nata per lottare per l’uguaglianza e per la difesa dei lavoratori e di chi è afflitto dalle molteplici disuguaglianze che conosciamo.

    A causare questa crisi della politica sono però intervenuti anche altri fattori. Già alla fine degli anni Settanta – anche come reazione al trentennio di espansione delle conquiste di carattere laburista, keynesiano, socialdemocratico che avevano marcato l’Occidente capitalistico – comincia a manifestarsi la penetrazione, sempre più diffusa, della cultura neoliberista generata dagli economisti della scuola di Chicago.

    Con l’irruzione di quella visione politico-economica è cessato il periodo che era stato fondato sulle macerie sparse dalla Seconda guerra mondiale. Oggi, i conflitti militari che si sono accesi su base regionale rischiano di espandersi a gran velocità. Sul finire della Seconda guerra mondiale non ci fu solo la conferenza di Yalta. Ci fu anche quella di Bretton Woods. Lo ricordo per sottolineare che già allora si capì che un nuovo ordine mondiale non poteva essere fatto solo di equilibri politici, ma aveva bisogno anche di poggiare su credibili equilibri economici. Allo stesso modo, oggi la sinistra neolaburista dovrà tornare a pensare agli scenari economici globali, o, per dir meglio, ai nuovi equilibri economici globali possibili da qui ai prossimi decenni. Il che è cosa più complessa di una mera analisi delle conseguenze della globalizzazione.

    È ora di recuperare solide categorie valoriali che ci diano la base per costruire una politica capace di tirarci fuori dalla «trappola neoliberista» evocata dal pregevole libro di Tommaso Vigliotti.

    Introduzione

    A cosa è ridotto oggi il mondo del lavoro? Com’è ridotto chi lavora, chi vive di lavoro? Quanto è garantita la dignità che il lavoro dovrebbe assicurare? Come e in che misura tutto ciò dipende dalla direzione che le dinamiche dei rapporti di forza tra «parte forte» del contratto di lavoro (le aziende, i datori di lavoro) e «parte debole» (il lavoratore) ha assunto? Quale ruolo e quale peso riveste l’agire sindacale e come esso è influenzato dal prevalere di idee e visioni politiche proprie del modello di società imperante? E cosa fa, ha fatto e dovrebbe fare la politica? Cosa fa, ha fatto e dovrebbe fare chi rappresenta il mondo del lavoro e le sue istanze?

    Negli ultimi anni, floride sono la letteratura e la saggistica su come stiano cambiando il mondo del lavoro e i modelli produttivi dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, soprattutto a causa dell’avvento degli algoritmi e delle trasformazioni imposte dalla cosiddetta rivoluzione o transizione digitale e tecnologica. Si perlustra in profondità anche il nebuloso mondo delle nuove forme di lavoro, a cavallo tra tipologie di lavoro pseudoautonomo e para-dipendente, il cosiddetto lavoro etero-organizzato. Il legislatore, passando da uno schieramento politico all’altro suo opposto, con intermezzi cosiddetti tecnici, annaspa sul tema e la magistratura del lavoro supplisce, talvolta, alla sua latitanza e alla sua inefficacia.

    Ma non si è, forse, sufficientemente indagato sul come e sul perché si sia intrapresa l’attuale direzione di profonda e incalzante precarizzazione del lavoro e di ampliamento crescente del divario nella distribuzione della ricchezza.

    Da anni osservo, studio, mi interrogo su tutto ciò e in questo saggio provo a esprimere il mio pensiero.

    1. Quarant’anni di neoliberismo: raccogliamo le macerie

    Meglio un pessimo accordo che nessun accordo! , d isse il sindacalista, senza rendersi conto di dove si fosse giunti e delle macerie di cui era disseminato il sentiero che lo aveva condotto lì.

    Meglio una cattiva riforma che nessuna riforma!, disse il parlamentare riformista senza rendersi conto del danno che stava causando a chi avrebbe dovuto votarlo, e che in effetti da tempo non lo faceva più, «buttandosi a destra».

    È quella che io definisco «politica del contenimento del danno»: senza giri di parole, senza vuota diplomazia, affermo che non funziona. Non più. Se mai sarà stata utile e necessaria in una certa fase storica, ha fatto il suo tempo, è oramai fuori contesto ed è inutile e dannosa alla causa di chi invece si dovrebbe rappresentare, proteggere e tutelare.

    Tutti (il sindacalista e il parlamentare) complici di un grande complotto? Consapevolmente asserviti al capitale? O intrisi, spesso in buona fede (magari non sempre e non tutti), di una mentalità intrinsecamente neoliberista?

    Che sia l’una o l’altra ipotesi, il sindacalista e il parlamentare – e, con essi, tanti studiosi, intellettuali, divulgatori, attivisti – sono diventati parte integrante di una visione del mondo, della società, di un modello economico, politico e sociale che si è imposto attraverso un percorso durato decenni e ha preso il sopravvento negli ultimi quattro decenni, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso.

    Il danno subito dalla working class è enorme, la ferita è grave ed infetta, non c’è più nulla da contenere e c’è poco da perdere. Mentre c’è molto da recuperare, da conquistare, anche da ri-conquistare. Ed è bene chiarire subito che la working class non si è né estinta né ridotta in termini di consistenza numerica a seguito dell’evoluzione dei mezzi e delle forme di produzione, ma si è ampliata nella sua composizione, molto più variegata, nella sua trasversalità e nella sua distribuzione. E ci sono alcuni grandi elementi che accomunano tutti quelli che lavorano e vivono di lavoro, in qualsiasi ambito lo facciano (industria, servizi, terziario, agricoltura, I t, nuove professioni, lavoratori digitali ecc.): il progressivo impoverimento in termini di potere d’acquisto reale; il costante arretramento in termini di sicurezza sociale; il crescente indebolimento in termini di diritti.

    «Ma qual è questo grande male?», si starà chiedendo il curioso lettore.

    È il neoliberismo. Anzi, una versione di un modello che diviene anno dopo anno sempre più hard, aggressivo, invasivo, pervasivo, famelico e che io definisco ultraneoliberismo spinto.

    Ma cos’è, nella realtà fattuale, il neoliberismo? Ecco, è bene chiarire subito un equivoco di fondo. Il neoliberismo non si è concretizzato come la riproposizione aggiornata del liberismo di Adam Smith, quello della «mano invisibile» del mercato che, con la logica del laissez faire, aggiusta gli squilibri, fa incontrare domanda e offerta, favorisce la libera concorrenza in nome della quale tutto è ammesso. Già questo pensiero economico e le sue leggi, in realtà, seppur fosse vero che generano equilibrio tra domanda e offerta di merci e prodotti, producono però squilibri tra domanda e offerta di lavoro, in quanto un pur lieve tasso di disoccupazione superiore a quello considerato naturale e fisiologico è una leva per spingere verso il basso i salari.

    Ma il neoliberismo si è affermato come qualcosa di molto peggiore: esso rinnega la libera concorrenza e conduce ai monopoli. Muovendo da basi simili a quelle del liberismo, in nome dell’assoluta libertà di impresa giunge a negare il principio cardine del liberismo – quello, appunto, della libera concorrenza –, porta alla concentrazione in grandi oligopoli, spesso aziende di dimensioni globali capaci di muovere capitali di entità superiore ai bilanci degli Stati, e produce monopoli di fatto. Per i quali il lavoro è solo un fattore della produzione e va sfruttato, in tutti i sensi, al massimo, spingendo verso il basso le retribuzioni e i diritti, perché parte fondamentale del paradigma ultraneoliberista (e qui siamo alla fase attuale, che io così definisco) è l’ampliamento a favore del capitale della forbice nella distribuzione della ricchezza prodotta, la quale si fonda in buona parte sullo sfruttamento di chi lavora, intendendo con questo anche il fatto di pagare il meno possibile il lavoro (più avanti vedremo in quanti modi, ben più pericolosi, perché subdoli, delle forme di schiavitù conosciute nella storia).

    E dov’è finito Keynes? Sono convinto che vada riscoperto, recuperato, riproposto, rilanciato. Perché è proprio l’abdicazione da parte dello Stato non solo al ruolo di attore economico, ma anche e soprattutto a quello di equilibratore [1] tra la parte forte e quella debole del contratto di lavoro che ha reso possibile la realtà mostruosa in cui oggi ci muoviamo, con la quale dobbiamo fare i conti e che bisogna, a mio avviso, contrastare e combattere.

    Ma andiamo con ordine, o almeno proviamoci. Chi avrà la pazienza di seguirmi in un sintetico excursus storico e in un’analisi frutto di studi ma anche di esperienza sul campo, comprenderà il senso del mio ragionamento e la ricetta che propongo.

    *****

    Prendendo come punto di partenza la seconda metà del secolo scorso, quindi dal Dopoguerra in avanti, appare evidente come l’esistenza di un mondo suddiviso in due blocchi contrapposti – quello occidentale di stampo capitalista e quello sotto la sfera d’influenza del socialismo di stampo sovietico – abbia assicurato, o imposto (dipende dai punti di vista), un certo equilibrio tra le diverse e alternative visioni del mondo e dell’economia.

    Subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la pressoché contemporanea «spartizione» del mondo nelle due grandi sfere d’influenza – quella americana e quella sovietica – abbiamo assistito, complici le esigenze di ricostruzione e gli ingenti investimenti delle superpotenze (si pensi al Piano Marshall per l’Europa) a un periodo di forte, progressivo e veloce rilancio dell’economia.

    Mi soffermo, per ovvi motivi di «competenza», sulla sfera occidentale, con particolare riguardo al nostro Paese.

    La democrazia (che pur è un sistema imperfetto, come vedremo più avanti), finalmente, si afferma come modello politico in Paesi governati per anni da dittature come l’Italia e la Germania. In Italia, il referendum sulla forma istituzionale vede il prevalere della Repubblica sulla monarchia, che si era definitivamente compromessa col sanguinario e dittatoriale regime fascista che la lotta partigiana aveva abbattuto col contributo degli alleati.

    In Italia, nel giro di pochi anni, si passa dalla ricostruzione post-bellica ad un vero e proprio boom economico, che porta con sé una serie di fenomeni quali l’industrializzazione, l’urbanizzazione, l’abbandono delle campagne.

    La cornice è quella di un’Italia in cui il capolavoro di equilibrio politico e valoriale rappresentato dalla nostra Costituzione – che nei decenni successivi subirà orribili modifiche che, pur peggiorandola, non ne hanno ancora del tutto distrutto lo spirito – trova riscontro in un panorama politico e in una pluralità di partiti e movimenti che intercettano le più svariate istanze e le diverse sensibilità che si vanno affermando nella società, dando loro voce e rappresentanza.

    Un partito di ispirazione cattolica, la Democrazia cristiana erede dei popolari di Don Sturzo, che assorbe al suo interno varie anime, da quelle più conservatrici a quelle sociali passando per quelle liberali, si afferma come partito leader e, alleato con formazioni laiche minori, come quelle repubblicane, liberali e socialdemocratiche, assume la guida del Paese.

    Con il boom economico e il forte popolamento delle città e delle fabbriche, quindi con la crescita sia in termini di numeri che di coscienza della classe operaia, si fa strada una rivendicazione non solo salariale ma anche sociale e di diritti, che trova i suoi interpreti nei grandi sindacati di massa e nei partiti politici di opposizione di ispirazione marxista: comunisti e socialisti, ai cui fianchi negli anni sorgeranno una serie di movimenti extraparlamentari.

    Il contesto particolare, forse unico nel suo genere, in cui questi fenomeni si sviluppano è quello di un Paese che ospita sul proprio territorio la Santa Sede ed il Papa, capo di un piccolo Stato ma anche di una grande, grandissima e influentissima religione; e dell’u­nico Paese del blocco occidentale in cui il Partito comunista è più rappresentativo del Partito socialista. Sono aspetti di forte rilevanza su quanto avviene nella società e nella politica, che non vanno dimenticati o sottovalutati quando si analizza ciò che avviene in quegli anni.

    Il fermento che sale dalle classi popolari, la domanda di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, il mutualismo tra i lavoratori e il senso di solidarietà di classe spingono alcuni leader democristiani, i più lungimiranti tra loro, in primis Aldo Moro, ad avviare un’opera di avvicinamento dei socialisti al governo del Paese, col duplice scopo di dare, da una parte, una risposta alle istanze del proletariato, ma anche della nascente piccola borghesia di colletti bianchi; dall’altro, di impedire la creazione di un blocco di sinistra socialcomunista stabile e minaccioso per gli equilibri geopolitici del Paese (cui guardano con preoccupazione gli influenti alleati americani) e di arginare la crescita del Partito comunista. Si avvia così, negli anni Sessanta, l’era del Centrosinistra, con i socialisti stabili alleati della coalizione di governo: la stagione delle nazionalizzazioni è un risultato di questa manovra, anche se le aziende statali si muovono, di fatto, come imprese private, con l’unica caratteristica peculiare data dalla lottizzazione partitica nella definizione degli organismi di governo e dei ruoli apicali.

    Insomma, la risposta c’è, da parte dei partiti politici al potere, ma non è sufficiente. La reazione c’è, da parte della classe (politica, sociale, economica) dominante, alla crescita del grido di dolore degli operai, ma non è sufficiente.

    Non lo è anche perché al grido di dolore degli operai si aggiunge, negli anni a venire, quello proveniente da altre frange della società: i giovani con i movimenti studenteschi, che reclamano una società e una forma di governo più aperte, più partecipate; le donne, che con i movimenti femministi, chiedono un diverso ruolo nella società, una diversa società e un nuovo equilibrio nel rapporto tra i generi nel mondo del lavoro, nella politica, nella famiglia; i primi movimenti ambientalisti che denunciano, rimanendo praticamente inascoltati fino a oggi, la deturpazione del pianeta dovuta alle attività umane, guidate da una logica estrattivista e produttivista. Insomma, siamo di fronte allo sfruttamento intensivo e irrispettoso tanto delle risorse naturali quanto del lavoro. Allora come oggi. Anzi, oggi la situazione è peggiorata su entrambi i fronti, ma proseguiamo per gradi.

    La risposta della classe politica e delle forze economiche dominanti non è sufficiente ad arginare la protesta incalzante. Non lo è perché, in realtà, è una posizione di forma che non risponde realmente, nei fatti, ai bisogni della società. È la politica del «contentino», che tanta strada farà negli anni successivi fino ai giorni nostri e, purtroppo, è tanto efficace nel narcotizzare il malcontento quanto è inefficace nell’affrontare e risolvere le criticità. Si narcotizza elargendo briciole, dividendo i fronti di protesta, incutendo il timore che ci sia qualcosa da perdere, insinuando

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