Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La fionda: Tecnopolitica. Dal momento populista al governo dell'emergenza
La fionda: Tecnopolitica. Dal momento populista al governo dell'emergenza
La fionda: Tecnopolitica. Dal momento populista al governo dell'emergenza
E-book389 pagine5 ore

La fionda: Tecnopolitica. Dal momento populista al governo dell'emergenza

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il governo di Mario Draghi sembra la definitiva consacrazione del primato degli esecutivi tecnici su quelli politici. Eppure, non più di tre anni fa le elezioni ci consegnarono la vittoria dei movimenti e dei partiti populisti e anti-sistema. Quel momento è definitivamente tramontato? Ne discutono alcuni fra i massimi politologi italiani.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita29 mar 2022
ISBN9791221307993
La fionda: Tecnopolitica. Dal momento populista al governo dell'emergenza

Leggi altro di Aa. Vv

Correlato a La fionda

Titoli di questa serie (5)

Visualizza altri

Ebook correlati

Politica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La fionda

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La fionda - AA. VV

    AA. VV.

    La fionda 1 2022

    Tecnopolitica. Dal momento populista al governo dell'emergenza

    Comitato scientifico

    Paolo Borioni

    Anna Cavaliere

    Massimo D’Antoni

    Alfredo D’Attorre

    Paolo Desogus

    Carlo Galli

    Chantal Mouffe

    Pier Paolo Portinaro

    Onofrio Romano

    Pasquale Serra

    Marcello Spanò

    Antonella Stirati

    Wolfgang Streek

    Davide Francesco Tarizzo

    José Luis Villaca ñ as Berlanga

    Umberto Vincenti

    Andrea Zhok

    Mimmo Porcaro

    Vladimiro Giacché

    Pino Arlacchi

    Alberto Bradanini

    FROMBOLIERI

    Andrea Bellucci, Marco Baldassari, Savino Balzano, Giacomo Bandini, Marco D e Bartolomeo, Francesco Berni, Michele Berti, Lorenzo Biondi, Antonio Bonifati, Matteo Bortolon, Fabio Cabrini, Carlo Candi, Fabrizio Capoccetti, Anna Cavaliere, Francesca Cocomero, Paolo Cornetti, Mario Cosenza, Leandro Cossu, Antonio Di Dio, Antonio Di Siena, Lorenzo Disogra, Giulio Di Donato, Francesca Faienza, Matteo Falcone, Thomas Fazi, Antonella Garzilli, Antonello Gianfreda, Roberto Michelangelo Giordi, Giulio Gisondi, Gabriele Guzzi, Simone Luciani, Mattia Maistri, Matteo Masi, Lucandrea Massaro, Diego Melegari, Giulio Menegoni, Alessandro Monchietto, Riccardo Muzzi, Matteo Nepi, Francesco Polverini, Giandomenico Potestio, Geminello Preterossi, David Proietti, Francesco Ricciardi, Pietro Salemi, Lorenza Serpagli, Alessandro Somma, Ludovico Vicino, Alessandro Volpi, Cristiano Volpi, Sirio Zolea, Piotr Zygulski.

    Direttore editoriale

    Geminello Preterossi

    Direttore responsabile

    Alessandro Somma

    Comitato di redazione

    Andrea Muratore, Anna Cavaliere, Marco Baldassari, Davide Ragnolini, Diego Melegari, Fabrizio Capoccetti, Francesca Faienza, Giulio Gisondi, Giulio Menegoni, Matteo Bortolon, Matteo Falcone, Sirio Zolea, Savino Balzano, Marco Adorni, Valeria Finocchiaro

    Coordinamento e comunicazione

    Giulio Di Donato, Alessandro Volpi, Paolo Cornetti, Matteo Masi

    Editore

    Rogas

    Marcovaldo di Simone Luciani

    viale Telese 35

    00177 – Roma

    P. Iva 11828221009

    Iscr. ROC 35345

    ISSN 2724-4946

    ISBN: 9788845294778

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice

    Perché «La fionda»?

    Introduzione

    Oltre la democrazia del pubblico fra tecnopolitica, governo dell’emergenza e momento populista

    Democrazia, politica e diritto al tempo dell’emergenza

    Lo strano caso del Professor Sunstein e Mister Nudge

    Eccezionalismo ed emergenzialismo

    Emergenze, storia, analogie, mitologia

    Quel che resta della Costituzione fra tecnopolitica e pandemia

    La tecno-politica come nuovo paradigma politico

    Il ruolo del Capo dello Stato nel parlamentarismo a bassa razionalizzazione prima e dopo la rielezione di Mattarella

    Tecnica, politica e diseguaglianze territoriali ai tempi dell’emergenza da Covid-19

    PNRR: una corsa verso il crepuscolo della democrazia

    Voto di classe e cultura politica in Europa. Una analisi di dati e ricerche

    L’alternativa alla tecnopolitica fra questione ecologica e questione sociale

    Potere e tecnica

    Dall’ideale democratico al meccanismo tecnocratico

    Don’t look up

    Lo sciame e il formicaio. Risignificare la libertà per ricostruire la politica

    Pan-distopia. Appunti per una mappatura provvisoria

    L’Io esposto e sorvegliato: scissione social e legami dell’avvenire

    Il sistema cinese di credito sociale. Qualche nota esplicativa

    Totalitarismo digitale

    È finito il momento populista?

    I tempi del populismo

    Perché il populismo non è questione di momenti

    Rivoluzione passiva e riattivazione populista: quale spazio per la politica nel contesto (post)pandemico

    Tecnopopulismo: genesi e scenari futuri

    Il populismo è finito, andate a sinistra!

    Il momento populista è finito? No, ma produce solo rivoluzioni passive

    Perché dobbiamo studiare il populismo argentino

    Voci dall’estero

    La chiusura di un ciclo nella politica spagnola*

    Passato e presente

    Togliatti e la politica

    Perché «La fionda»?

    Perché è lo strumento di chi si ribella all’oppressione. Di chi non può contare su grandi risorse materiali né gode di protettorati mainstream , ma mira dritto perché ha il coraggio delle idee. La forza dell’irriverenza, che fa analizzare in contropelo i luoghi comuni. La passione intellettuale e politica di chi non aderisce alle idee ricevute, ma sottopone tutte le tesi a una verifica attenta. L’ostinazione ragionata di chi non ha paura di smentire la propaganda, squarciando il velo della post-verità del sistema neoliberista. La lucida coerenza di non negare i fatti, o edulcorarli, per approfondire e cercare di capire di più, senza fermarsi di fronte alle convenienze, alle interpretazioni di comodo.

    « La fionda » è uno spazio pluralista e libero di elaborazione culturale e politica, promosso da una comunità di persone che condivide alcune precise idee ‒ statualiste, autenticamente democratiche e antiliberiste ‒ , senza compromessi contraddittori né opacità furbesche. Ma che ha l’autentico desiderio di confrontarsi, di dare luogo a un dibattito vero, fecondo, senza tabù. Questo deve essere il tempo della nitidezza e dello spirito critico che non arretra di fronte a nulla. Solo così sarà possibile ripartire non gattopardescamente, ma cambiando paradigma.

    La fionda di Davide contro Golia. Ma anche la fionda di Gian Burrasca.

    Geminello Preterossi

    Alessandro Somma

    Introduzione

    L'esperienza del governo Draghi rappresenta il momento della consacrazione definitiva del primato dei tecnici e del vincolo esterno; eppure, le premesse di questa legislatura erano state ben altre, e la tornata elettorale del 2018 aveva segnato l'affermazione delle forze critiche antisistema. Si era, secondo diversi analisti, all'interno del momento populista, il quale, fra mille contraddizioni e ambiguità, esprimeva una disperata rivendicazione di democrazia, espropriata dal modello neoliberale ormai in crisi.

    In questo terzo numero cercheremo di capire se quella stagione può considerarsi definitivamente tramontata, sebbene non siano certo scomparse le contraddizioni che ne hanno generato l'insorgenza. Indagheremo, inoltre, il nesso fra potere politico e tecno-scienza/tecno-capitalismo, guardando sia allo scenario occidentale che a quello orientale.

    Dapprima l’esperienza del governo Monti, poi quella a guida Draghi, sembrano averci condotto verso una nuova e potremmo dire più matura forma di tecnocrazia che ha ibridato la politica, che abbiamo deciso di chiamare tecnopolitica. Questa mutazione «epistocratica» della democrazia si è mostrata pienamente nei mesi della crisi sanitaria, come a rivelare un nesso profondo fra emergenza, vincolo esterno e primato dei tecnici.

    Se questo è vero, lo stato d’emergenza costituisce allora tanto lo sfondo quanto il mezzo per l’attuazione della curvatura tecnocratica impressa alla nostra democrazia costituzionale. In ogni caso esso suggella e potenzia tendenze nate anche prima e altrove, ma che necessitavano di una premessa che le giustificasse (proprio per questo alcuni autori, anche in questo numero, parlano di uso politico-mediatico del paradigma emergenziale). D’altronde l’emergenza presuppone tempestività di decisione, chiede di forzare i tempi e le forme della dialettica parlamentare a vantaggio del potere esecutivo, anche perché non c’è da scegliere fra opzione diverse, si tratta solo di affidare a figure di comprovata competenza tecnica l’applicazione del­l’unica soluzione possibile. Ancora una volta: there is no alternative.

    Tutto questo non poteva che avere profonde ricadute nei rapporti fra i poteri dello Stato e sugli equilibri costituzionali, basti pensare alle vicende che hanno condotto al Matterella bis (in quella fase la coesistenza tra tecnocrazia e politica è parzialmente andata in cortocircuito) e al completo esautoramento del Parlamento (con il beneplacito dei partiti) che è diventato essenzialmente il luogo di ratifica di sintesi e mediazioni contrattate altrove.

    Con il peso della rappresentanza ai minimi storici, con la crisi dei movimenti che intendevano contestare gli assetti consolidati di potere assumendo il punto di vista del popolo degli esclusi, la distanza tra vertici e base della società è ormai siderale, e questo alimenta una crisi di fiducia e legittimità dagli effetti imprevedibili. Nel frattempo l'idea elitaria della superiorità della (pseudo-neutrale) amministrazione rispetto alla rappresentanza popolare non è neanche più taciuta.

    Se nel primo numero della «Fionda», intitolato Nulla sarà più come prima?, uscito più di un anno fa ci interrogavamo in più direzioni sui processi innescati da questa fase storica, e nel secondo, intitolato La grande trasformazione, ci concentravamo sulla dimensione del lavoro, in questo terzo il focus è quello delle forme della politica e dei mutamenti istituzionali.

    Attraverso il contributo di studiosi e attivisti di diversa provenienza, cerchiamo di indagare le tendenze più profonde che a­gitano questa fase di crisi e trasformazione, senza rinunciare al tentativo di gettare lo sguardo in avanti, ragionando sulle possibili via di fuga che siano, allo stesso tempo, antropologiche, culturali e intimamente politiche.

    La redazione

    Oltre la democrazia del pubblico fra tecnopolitica, governo dell’emergenza e momento populista

    Giulio Di Donato*

    * Giulio Di Donato è d ottore di ricerca in filosofia del diritto. Fa parte del comitato di redazione de « La Fionda » .

    L’irreversibilità del declino delle democrazie occidentali oltre a essere una tesi sostenuta da diversi studiosi appartiene ormai anche al comune sentire dei cittadini [1] . Ovunque domina un clima di scetticismo e disincanto e sono sempre meno coloro che credono si possa cambiare la realtà attraverso la partecipazione alla vita pubblica. Il divario tra governati e governanti costituisce una frattura che si manifesta in un insieme eterogeneo di aspetti: il clima di disaffezione e di scarsa partecipazione alla sfera pubblica, la decadenza dei partiti tradizionali così come delle forze politiche che sono nate rivendicando più o meno strumentalmente nuovi e rinnovati legami con il popolo, la crescita impetuosa dell’astensionismo, l’accresciuta importanza del leader, ma anche la rapida deperibilità del ruolo di quest’ultimo. D’altro lato, la stessa politica non riesce più a legittimarsi come un progetto di trasformazione del modo di vivere e di pensare.

    Tutto questo si traduce in una maggiore fluidità del corpo elettorale, che è meno prevedibile negli orientamenti, molto più disposto che non in passato a rinegoziare i vincoli di fedeltà a opinioni e scelte di campo, anche a costo di abbandonarli. Se fino a qualche decennio fa la competizione dei partiti per il potere avveniva in nome di valori e culture politiche collocabili al di qua e al di là del discrimine destra/sinistra, negli ultimi tempi lo scontro si è andato dislocando altrove: ad esempio tra l’alto e il basso, tra l’ élite e il popolo, tra le forze politiche riconducibili all’ e ­ stablishment , al rispetto dei vincoli di compatibilità, e chi si percepisce invece fuori del recinto, nelle periferie del disagio e dell’e ­ sclusione. Resta da chiedersi quale sarà il nuovo terreno di scontro tra simboli, il luogo di una nuova frontiera mobile, al di là e al di qua della quale si formeranno nuove soggettività fluttuanti alla ricerca di miti e significanti universali in cui immedesimarsi.

    Secondo numerosi interpreti, ci stiamo ormai spostando da una «vera« democrazia a una «postdemocrazia», in una sorta di «zona grigia» al confine tra democrazia e non democrazia meglio definita come tecnocrazia: dal mondo delle imprese ai mercati finanziari fino alle stanze della politica il potere delle decisioni è passato progressivamente nelle mani dei tecnici, degli «esperti», dei manager. I «competenti» siedono alla testa del Fmi e della Bce, delle maggiori banche del mondo, persino dei governi, e provengono dalle fila di un’ elite ristretta, priva di legittimazione democratica, che si candida a ricevere la funzione di governo come atto dovuto, quasi mai sottopo­nendosi a un voto popolare, semplicemente sulla base delle qualifiche e dei titoli, spesso esibiti come prova di una naturale attitudine al potere.

    La nozione di «postdemocrazia» fotografa bene un assetto in cui rimangono in vigore le «forme» della democrazia, ma cambia lo scenario generale: la partecipazione diventa del tutto occasionale, la discussione pubblica assomiglia a uno spettacolo al quale i cittadini assistono passivamente, mentre si assiste a un progressivo depotenziamento delle istituzioni rappresentative nazionali e a una netta verticalizzazione dei processi decisionali in forza della quale le scelte politiche sono scivolate via dalle sedi più ampie e partecipate e si sono ritirate in luoghi meno accessibili, per lo più riservati a gruppi ristretti e oligarchici. In sostanza la tendenza è quella di una separazione dei cittadini rispetto agli eletti, dei parlamentari rispetto all’esecutivo, dell’esecutivo stesso rispetto a organismi sovranazionali caratterizzati da una più o meno marcata natura tecnica.

    Nel frattempo, le identità collettive si perdono a tutto vantaggio della fiducia personale diretta, mentre i partiti si allontanano dalla società e, parallelamente, si leaderizzano, ponendosi al servizio di leader piccoli piccoli, che sviluppano il rapporto con i cittadini e gli elettori servendosi dei media e delle tecniche del marketing politico-elettorale. Proprio per questo, Bernard Manin, nel suo celebre volume dedicato ai Principi del governo rappresentativo (Il Mulino, 2010), parla di «democrazia del pubblico», nella quale lo spazio della rappresentanza coincide con il rapporto diretto fra leader e opinione pubblica, attraverso i nuovi e vecchi media. Si tratta, tuttavia, di una relazione asimmetrica perché a senso unico: l’autonomia dell’opinione pubblica è difatti limitata, con gli elettori ridotti a spettatori che vengono misurati in termini di audience e a colpi di sondaggi. Ma il pubblico, come ha notato lo stesso Manin, oggi non è più un «insieme relativamente omogeneo, portatore di valori e convinzioni diversi, spesso opposti tra loro, ma esposto agli stessi flussi informativi e a un ambiente comunicativo simile. (…) I recenti sviluppi della comunicazione, la proliferazione di canali televisivi che grazie alla tecnologia digitale e via cavo trasmettono contenuti per target specifici (TV locali, etniche, religiose, ideologiche, ecc), la diffusione dell’uso di Internet, il successo crescente dei social media hanno trasformato l’ambiente comunicativo e informativo cui sono esposte porzioni sempre più ampie di popolazione. In larga misura, anche se non totalmente (…) non vi è più un unico pubblico, ma vi sono dei segmenti di pubblico, ciascuno relativamente omogeneo e non comunicante con gli altri segmenti» [2] . I nuovi media, in particolare, hanno permesso a esperienze periferiche di connettersi, al di fuori del controllo verticale dei soggetti politici e dei media tradizionali, favorendo il coinvolgimento e l’intervento diretto di un’area molto ampia di persone. Per questo, la rete è divenuta il riferimento per un modello diverso e alternativo di partecipazione politica, in nome della dis-intermediazione. Producendo un cambio di segno nel rapporto fra personale politico e cittadini, non più basato su messaggi e immagini centrati sulla fiducia e su determinati riferimenti politico-culturali, ma nel suo opposto, sulla sfiducia e sulla diffidenza.

    Bisogna poi considerare quella che Stuart Hall chiamava «decodifica oppositiva»: le persone decodificano la comunicazione pubblica dall’alto a partire dal loro vissuto, e dunque possono smascherarla come ideologica, come menzogna, con la conseguenza di aggravare ulteriormente il deficit di fiducia e di credibilità, generando uno scollamento sempre più profondo tra «mondo della vita» e dimensione istituzionale.

    Siamo così entrati in una nuova fase, oltre la «democrazia del pubblico», siamo, cioè, per dirla con Ilvo Diamanti, in una «post-democrazia del pubblico» [3] . Che mantiene i tratti sostanziali del modello precedente, ma li supera mescolandoli assieme. Questo anche perché la partecipazione attraverso i social media non ha rimpiazzato i media tradizionali e, in particolare, la televisione. L’esito è quello di una «comunicazione ibrida» che ha contribuito a modificare le forme della partecipazione democratica, fornendo canali e spazio all’insoddisfazione popolare e alle manifestazioni di protesta direttamente rivolte contro le istituzioni e gli attori della democrazia rappresentativa (partiti e uomini politici, per primi), dettate dalla sfiducia nel potere e da un'esigenza di maggiore democrazia contro lo svuotamento della sovranità popolare (le persone avvertono che la loro vita è nella mani di potenze oscure, che il loro destino viene deciso da altri, e questo genera rabbia, frustrazione, opposizione per opposizione) e di maggiore sicurezza e giustizia sociale contro le vecchie e nuove forme di precarietà, alienazione e sfruttamento. Infine, per paradosso, osserva Manin, perfino la competizione elettorale, l’alternanza di governo, requisiti costitutivi della democrazia rappresentativa, hanno contribuito al clima di sfiducia. Perché il vincolo esterno delle compatibilità date spinge i partiti e i governi a fare le stesse scelte, le stesse politiche, a prescindere da quelli che sono gli esiti delle singole tornate elettorali. E ciò alimenta il sospetto che l’alternanza, e, in fondo, la stessa democrazia, siano inutili.

    Lo scenario sopra descritto, del resto, non è altro che il compimento di un processo avviato da tempo, iniziato con la crisi dei partiti di massa che costituivano l’ossatura della democrazia partecipata e che erano agenzie di formazione della classe dirigente, luoghi di confronto e conflitto tra visioni diverse della società. Proprio «l’inaridirsi degli spazi di partecipazione effettiva, vitale determina, per compensazione, il bisogno che nutre l’illusione della democrazia immediata, veloce, semplice. Questa nega la necessità dell’articolazione politica della società e della rappresentanza del pluralismo» [4] .

    La fase segnata dall’emergenza Covid-19 ha rappresentato la lente di ingrandimento di questa involuzione che ha condotto alla sublimazione del teorema: l’emergenza e il vincolo esterno sono tutt o all’insegna del motto « There is no alternative » , il resto è niente. Senonché il resto è proprio formato dai cittadini, considerati come oggetti e non come i protagonisti della dialettica democratica. In quel resto ci sono, in particolare, i nuovi ceti subalterni, ci sono il disagio, le inquietudini, le difficoltà del vivere quotidiano che alimentano sentimenti oscillanti tra l’indifferenza e l’accettazione rassegnata dell’abbandonato (che, a sua volta, abbandona) e il risentimento per i torti e gli inganni subiti. C’è insomma il mondo delle periferie sociali e culturali del nostro tempo che aveva rivolto le ultime speranze alle forze spregiativamente definite populiste e sovraniste: due termini imprecisi escogitati per screditare chiunque si prefigga di dar voce e rappresentanza alle classi popolari, al loro scontento, alla loro rabbia, e soprattutto alle loro attese; o si proponga di sollevare il problema della sovranità democratica, assegnando una nuova centralità ai territori e ai contesti concreti, quanto mai cruciale in tempi di deglobalizzazione e di profonde tensioni a livello geopolitico.

    ******

    Se vincolo esterno ed emergenza rappresentano ormai stabili coordinate di fondo, tecnocrazia, transizione ecologica e transizione digitale (come per Gramsci fascismo, americanismo e fordismo) costituiscono i nuovi volti della rivoluzione passiva, contrassegnata dalla necessità di rinnovare senza intaccare le strutture profonde, «l’essenziale», che non può essere minacciato. La cifra prevalente, ancora oggi, non è tanto la produzione di una pur debole dinamica storica, ma la protezione conservativa del quadro esistente. Eppure sono tempi di trasformazione, di tormenti sociali profondi, in cui occorre rivoluzionare le vecchie certezze e i parametri che per mezzo secolo esse hanno imposto.

    Ci troviamo quindi al cospetto di una nuova « restaurazione progressiva » , che in una qualche misura soddisfa le esigenze (spesso indotte) dei soggetti sui quali è esercitata con interventi di tipo dispotico-illuminato, in un quadro di generale passività delle classi popolari. Nel frattempo, trainato dai settori emergenti del grande capitale, l’Occidente in crisi promuove e cavalca le nuove istanze di modernizzazione dal volto «umano e sostenibile» per rilanciare e rilegittimare se stesso sia sul fronte produzione-consumo che sul fronte ideologico (e di lotta geopolitica).

    Ma si può parlare di rivoluzione passiva, al modo in cui la intendeva Gramsci, anche nella misura in cui il processo è diretto dall’«egoismo gretto, angusto, antinazionale» delle nostre classi dirigenti nel nome di un vincolo esterno che impone ritmi e finalità. Alla base di questo cedimento vi è un giudizio tragico sul nostro Paese, il cui destino si ritiene opportuno delegare ad altri, ma anche un profondo divario tra le masse popolari e un ceto politico «scettico e poltrone» prigioniero di un’interpretazione subalterna del vincolo esterno. L’esito di questa scelta è stato l’aggravamento delle zavorre già esistenti con l’aggiunta di problemi nuovi, vale a dire la spoliticizzazione della società e la contestuale neutralizzazione del «sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari» [5] .

    D’altra parte, tornando a Gramsci, sono assai strette le connessioni che collegano le categorie gemelle di rivoluzione passiva e cesarismo, entrambe indispensabili alla decifrazione degli attuali scenari politici (si pensi allo Spengler di Tramonto dell’Occidente, per il quale il cesarismo « cresce sul suolo» di un’epoca ormai esaurita e priva di anima, ristabilendo il primato della politica sull’economia [6] ). L’auspicio, nella visione gramsciana, è verso un cesarismo progressivo «anche senza un Cesare, senza [cioè] una grande personalità eroica» [7] da divinizzare. All’epoca, proprio come oggi, si rendeva più che mai necessaria la funzione dirigente di «individui capaci di esprimere con chiarezza e precisione il tumulto di sentimenti e passioni che agita la comunità lavoratrice» [8] ; in particolare si rende (e si rendeva) necessario l’intervento di minoranze consapevoli, in grado di guidare le masse fuori dalla palude in cui un ceto politico subalterno e autoreferenziale ci ha scaraventati. Contro il dirigismo tecnocratico dall’alto bisogna allora suscitare « élites di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa» [9] , con la quale debbono rimanere a contatto, in modo da alimentare una continua dinamica espansiva in opposizione a ogni chiusura castale-oligarchica. Al fine di avvicinare la volontà collettiva del popolo-nazione ai contenuti della nostra Costituzione e di riaffermare il senso perduto dell’autonomia della politica e di una visione strategica degli interessi nazionali. Avviando una profonda trasformazione che si riferisca al «destino dell’uomo e non a suoi particolari problemi», per citare Claudio Napoleoni. Per fare questo c’è bisogno di reinvestire la politica di pensieri lunghi sorretti da un lavoro critico di fondo, di rilanciare cioè l’idea di una politica forte in grado di intrecciare tanto le condizioni concrete di vita delle persone quanto le domande diffuse di significato, che sono anche domande di una qualità della vita diversa, di un diverso modo di relazionarci agli altri e a noi stessi. Questa rivendicazione di autonomia della politica, di una politica capace di riannodare il legame sociale e di schiudere le possibilità di un orizzonte di significato diverso, può però funzionare solo se l’azione politica viene sottratta alla trappola della neutralizzazione tecnocratica di matrice neoliberale.

    ******

    Quella che stiamo vivendo (qui in Italia, ma è un discorso che può essere allargato anche agli altri paesi occidentali) è dunque una penetrante e scivolosa crisi di legittimazione dell’ordinamento nel suo complesso, già in corso da lungo tempo nella sfera politica, ma ora si è estesa a tutte le forme di trasmissione di potere e sapere dall’alto.

    Bisogna pur dire che la democrazia non ha mai raggiunto il suo stadio definitivo e per sua natura è sempre attraversata da «crisi»: per le sue dinamiche interne, essa alimenta speranze e aspettative che vengono spesso disattese. Tra l’altro, principio di legittimità democratica dei governanti e sentimento di diffidenza dei governati nei confronti di chi detiene il potere hanno in parte sempre convissuto [10] . È una tensione che vede contrapposti due elementi costitutivi come legittimità e fiducia: la prima si fonda sul principio della sovranità popolare, la seconda indica, invece, «un’ipotesi su una condotta futura» [11] .

    Ora, una volta che si sia scelto di aggirare determinati presupposti, in primis il principio della sovranità popolare, la tenuta del sistema va assicurata in altro modo: la logica del vincolo esterno e l’uso politico-mediatico delle emergenze (vere o presunte che siano) diventano nei fatti una fonte sostitutiva di legittimazione. Rimarrebbe il criterio dell’efficienza, della performatività, ossia il fatto di garantire a larghe maggioranze un certo benessere sociale; ma anche questa promessa, nel tempo presente, non trova risposte soddisfacenti, producendo una inevitabile crisi di funzionalità.

    In assenza di un vincolo interno, di un indirizzo politico autonomo a cui attenersi, la nostra malmessa democrazia sembra dunque in grado di attivarsi solo in risposta a determinati stimoli, siano essi dettati dal vincolo esterno o dell’emergenza, la quale diventa lo sfondo e la copertura ideologica per assolutizzare alcuni temi e sottrarli alla discussione pubblica, sancendo tanto l’insindacabilità del bene superiore nel nome del quale vengono richiesti continui sacrifici quanto l’intrascendibilità dell’ordine esistente. In tal modo viene ristabilita l’unità di una società «senza nervi e senza più riflessi» che altrimenti dovrebbe confrontarsi apertamente con le proprie divisioni e i propri conflitti.

    All’emergenzialismo come visione del mondo corrisponde un nuovo paradigma di governo che comprime la dialettica democratica provocando una sempre più marcata verticalizzazione dei processi decisionali, deprime il dibattito pubblico, necrotizza col pensiero critico la possibilità di immaginare una società diversa e affida gli strumenti di governance a presunti esperti visti come gli unici depositari del sapere tecnico necessario a fronteggiare il susseguirsi di crisi ricorrenti. In questo modo la democrazia scivola inevitabilmente verso una «riedizione dell’oligarchia in forma epistocratica, spesso travestita moralisticamente, sostenuta dalla fede nella tecno-scienza al servizio dei divini mercati e dei poteri globali, e nell’oggettività scientifica del neoliberismo» [12] . A questa nuova configurazione del potere diamo ora il nome di tecnopolitica.

    ******

    Questo non è tempo di sperimentazioni, di politiche del possibile, di populismi e sovranismi. Questo è il tempo della necessità, ammiccano benevoli le nuove vestali del potere.

    Nel regno della necessità la storia si chiude, la scelta è obbligata, la partecipazione politica è un esercizio irrilevante, l’astensionismo diventa addirittura una risorsa, una sorta di tacito consenso. E il tecnico sostituisce il politico perché l’obiettivo non è scegliere tra opzioni diverse ma di applicare l’unica legge rivelatasi universalmente valida. Rigore e produttività, competitività e stabilità, tecno-scienza e tecno-capitalismo: in questo perimetro perfetto non figurano né la giustizia sociale, né la piena occupazione, né la riduzione delle disuguaglianze.

    Nel regno della necessità la politica assume la forma della tecnopolitica, che costituisce la negazione della politica stessa, una forma polemica di antipolitica condotta dall’alto. In basso, alla sua estremità, come suo naturale oppositore, si colloca invece il populismo che è la forma della politica al tempo della polverizzazione di un tessuto sociale complesso ed eterogeneo, della polarizzazione estrema delle opinioni (ogni tema, soprattutto sui social, è un pretesto per una guerra di religione) e della crisi del rappresentato (legata quest’ultima al disfacimento delle identità collettive, allo smarrimento del senso del legame sociale e alla volatilità dei ruoli sociali e lavorativi [13] ). Si tratta di un fenomeno contrassegnato da limiti e ambiguità: il populismo nasce sul terreno della crisi del modello neoliberale (riflettendo soggettività forgiate nel neoliberalismo, senza appartenenze ideologiche né legami consolidati) ma si oppone alle conseguenze del neoliberalismo stesso nel momento in cui esprime una rivendicazione di democrazia espropriata, che è anche una critica radicale del paradigma tecnocratico.

    Se la politica è tanto «immanenza conflittuale energetica», che rinvia al conflitto amico/nemico come «possibilità reale» sempre presente, quanto mediazione, forma, affidate «alla decisione per la rappresentazione del trascendente assente» [14] , la tecnopolitica è immediatezza con il suo superamento della mediazione politica ridotta ad amministrazione e con la sua volontà di immunizzare il piano dell’immanenza da ciò che può eccedere e trascendere da essa, ovvero dalle ipoteche della sovranità e del conflitto sociale; il populismo è invece immediatezza sia per i suoi meccanismi di identificazione con una guida personale dall’alto, sia come aspirazione ad una democrazia «immediata» [15] , a una sorta di «iper-democrazia dove la richiesta di controlli e di limiti supera quella di autorità e decisione. Dove, comunque, la sfiducia, più che a limitare e a controllare le autorità e i decisori, diventa un meccanismo di delegittimazione, finalizzato alla legittimazione di chi la esercita» [16] .

    C'è un confine preciso tra questa idea di iper-democrazia e la democrazia dei partiti del secondo dopoguerra, e il confine è che quest’ultima si rappresentava come un sistema nel quale la volontà popolare è anche il frutto di un processo di maturazione: esiste una dialettica, si riteneva, tra l'esercizio di un ruolo dirigente, di guida, d'indirizzo, e la formazione della volontà popolare [17] . Guidare, orientare, finanche educare le masse popolari, a patto però, ci insegna Gramsci, di sapersi immedesimare con le loro speranze e i loro tormenti, stabilendo una «connessione sentimentale» con l’umanità popolare, aderendo alla sua vita più intima e concreta, praticando una «compartecipazione attiva e consapevole», perché si tratta di rimanere «a contatto coi semplici e in questo contatto trovare la sorgente dei problemi da studiare e risolvere».

    Tornando alla tecnopolitica, se questa abita il regno della necessità dove tutto è amministrazione e legittimazione dell’esistente, dove la politica è al livello minimo hobbesiano della protezione della mera vita e del «godimento dei frutti dell’industria»; il populismo vive invece nel regno del possibile, dove vale il principio della critica e della trasformazione radicale del ­ l’esistente. Contro una politica ridotta a giochi di potere, a iniziative di corto respiro, a diplomatismi, appiattita sulla pratica del piccolo cabotaggio, sulla routine del giorno per giorno, nel regno del possibile vengono invocati i tratti di antico splendore, sovranità e intensità della politica stessa, quasi rievocando la concezione mitologica e totalizzante alimentata un tempo dai grandi partiti di massa fortemente caratterizzati sul piano ideologico.

    In questi anni i movimenti comunemente definiti populisti, pur fra mille differenze e contraddizioni, hanno comunque prevalso non tanto in virtù di ricette politiche concrete, quanto per la loro capacità di ripoliticizzare il corpo sociale in uno spazio politico ormai impoverito e svuotato, il tutto attorno a dicotomie secche, senza determinazioni ulteriori, tra poli o campi di forza i

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1