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Il pensiero federalista nella storia del Sardismo: Enciclopedia del Sardismo
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E-book648 pagine9 ore

Il pensiero federalista nella storia del Sardismo: Enciclopedia del Sardismo

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Il pensiero federalista nella storia del Sardismo è la più completa e organica ricostruzione delle elaborazioni sardiste su uno dei temi più innovativi mai affrontati dalla filosofia politica contemporanea. Sin dai primordi il PSdAz si è distinto dal resto delle culture politiche per l’elaborazione di una originale prospettiva di organizzazione del potere in grado di far coesistere il diritto naturale alla indipendenza con la massima rappresentatività delle comunità autodeterminate all’interno di una originale architettura federale.
La ricchezza degli apporti, la assoluta continuità del pensiero federalista in cento anni di storia, e la originalità dei percorsi sardisti e dei suoi numerosi protagonisti, fanno del PSdAz la forza politica che in Europa ha prodotto il maggior numero di contributi nella controversa, minoritaria ma preveggente questione dell’etno-federalismo inteso come massima traduzione politico-istituzionale della questione nazionale sarda.
Con il suo innovativo pensiero federalista, studiato nelle sue varie articolazioni (costituente, etnico, euro-mediterraneo), il PSdAz si pone come la sola forza politica capace di interpretare la diversità storica e culturale della Sardegna, e di collocare l’insularità in una più vasta cornice europea e internazionale che riconosce, in forme ormai nuove e per certi versi inedite, il diritto dei popoli a sperimentare una autodeterminazione e a rivendicare una originale soggettività all’interno delle complesse architetture di integrazione federale. Ecco perché la lettura dei testi integrali dei vari protagonisti di un secolo di storia e di lotte impone di non ridurre il PSdAz entro i limitati schemi dipendentistici dell’autonomismo, che infatti nel corso dell’intera storia sardista avrà la mera funzione di ripiego tattico e situazionale.
Il volume rende omaggio a Gianfranco Contu, il primo vero storico del pensiero federalista sardista, autore tra l’altro di una rassegna storica di sintesi riprodotta in Appendice.
LinguaItaliano
EditoreCondaghes
Data di uscita4 mag 2024
ISBN9788873567516
Il pensiero federalista nella storia del Sardismo: Enciclopedia del Sardismo

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    Anteprima del libro

    Il pensiero federalista nella storia del Sardismo - Alberto Contu

    sovraccoperta-su-sardismu-vol3

    Alberto Contu

    Il pensiero federalista nella storia del Sardismo

    Enciclopedia del Sardismo

    Volume III

    1

    Condaghes

    Indice

    Volume III – Il pensiero federalista nella storia del Sardismo

    Introduzione

    Giovanni Battista Tuveri

    Combattenti Sardi

    Egidio Pilia

    Camillo Bellieni

    Luigi Oggiano

    Luigi Battista Puggioni

    Francesco Fancello

    Gonario Pinna

    Emilio Lussu

    Antonio Simon Mossa

    Mario Melis

    Efisio Serrenti

    Gianfranco Contu

    Giovanni Lilliu

    Appendice

    L'Autore

    Colophon

    VOLUME III

    Il pensiero federalista nella storia del Sardismo

    Introduzione

    Premessa storica

    È stato autorevolmente osservato che «il federalismo è un’idea più nota che conosciuta»¹. Come in molti campi del sapere, ormai avvertiamo la stanchezza delle parole. La geografia concettuale di cui ci serviamo è realmente alterata, e si fa strada il crescente disagio di chi maneggia idee e concetti, parole e categorie che ormai non riescono più ad interpretare il mondo che cambia. Una delle idee al contempo più abusate e meno «conosciute» è proprio compendiata nella parola «federalismo» e nei suoi derivati. Più abusato, perché soprattutto in Italia quella parola è stata utilizzata nelle forme e nei modi più vari e scorretti; è stata inquinata nella sua pregnanza, e si è contribuito così a delegittimarla. Meno conosciuta, inoltre, proprio perché la sua utilizzazione politica strumentale ha reso impossibile o semplicemente superfluo lo studio della propria natura complessa, polivalente, multidisciplinare.

    Parlare di federalismo significa allora ripensarne la storia, rivisitarne le categorie, adattarne la ratio al divenire storico e ai suoi repentini e vertiginosi mutamenti. Ma ripensare un’idea implica un distacco dalla polemica politica quotidiana. Come insegnava un grande sociologo contemporaneo, Norbert Elias, occorre sapientemente dosare il «coinvolgimento» emotivo del militante con il «distacco» necessario dello scienziato². Ma non è tutto. Per parlare con cognizione di causa di federalismo è necessaria quell’operazione forse «pedantesca» ma indispensabile che Max Weber indicava nel metodo delle definizioni concettuali³. Definire con un minimo di precisione cosa si intende per federalismo è un’operazione solo apparentemente accademica. La chiarezza concettuale è infatti uno strumento indispensabile per smascherare le attuali (e le future) mistificazioni sull’idea federalista. Ed è anche, naturalmente, un ottimo strumento per inoltrarsi in un campo complesso, oggetto di più discipline, e storicamente variegato.

    In genere, a dimostrazione del fatto che i problemi dell’attualità non nascono solo dagli «ordini del giorno»⁴ ma, al contrario, affondano le radici nella storia, viene utilizzata una famosa distinzione che risale al 1787. Come è noto, si tratta di una data di fondamentale importanza per la storia degli Stati Uniti d’America e, più in generale, per la storia del federalismo. In quella fatidica data, infatti, viene promulgata la Costituzione americana che rappresenta il più grande esempio storico di ingegneria costituzionale e di «sapienza» federale mai realizzata. E – cosa assai importante – si tratta di una carta costituzionale ancora vigente, perché, non ostante decisivi mutamenti storici e sociali, ha saputo formulare princìpi e soluzioni flessibili che sono risultati validi anche per il futuro nella maggiore parte delle sfere di possibile applicazione. In una sola espressione, quella americana è, non a caso, la Costituzione più vecchia del mondo⁵. In che senso, allora, la «rivoluzione costituzionale»⁶ americana è il primo esempio della logica federale? E, ovviamente, a cosa si è opposta? A queste due domande si può rispondere tornando ai classici del pensiero federalista, vale a dire, anzitutto, agli autori dell’opera di scienza politica The Federalist (pubblicata a New York in due volumi tra il 1787 e il 1788): Alexander Hamilton, John Jay e James Madison.

    Riassumendo, tra il 1774 e il 1776 si assiste alla definitiva rottura del rapporto politico tra le Colonie nordamericane e la madre patria. La famosa Dichiarazione d’Indipendenza proclama, di fatto, l’avvenuta creazione di tredici Stati indipendenti ognuno dei quali si dota di una propria Costituzione. Il legame che intercorre tra i neonati tredici Stati sovrani si riassume in un vincolo politico di collaborazione. Questo sistema di relazioni si chiama «confederazione», ed il «confederalismo» è una unione di Stati in cui non sono poste in discussione le sovranità statali. Gli stessi organi della confederazione, i quali hanno il compito di vigilare sulla difesa comune degli Stati e su altre materie di comune interesse, non dispongono di poteri reali capaci di costringere ogni singolo Stato a rispettare le politiche confederali. In estrema sintesi, insomma, se uno Stato decide di non dover ottemperare agli obblighi confederali, o se addirittura intende unilateralmente uscire dalla confederazione, lo può fare senza subire alcuna conseguenza e senza limiti. Si capisce, pertanto, come la soluzione confederale dia luogo ad una organizzazione debole, insicura, inefficiente. Di questi pericoli è stato acuto interprete Alexander Hamilton. Secondo il brillante scrittore politico americano, memore della lezione storica dell’Europa settecentesca formata da più Stati tra loro concorrenti, «ben poca fede si deve riporre in trattati che non hanno altra garanzia che la reciproca lealtà, e che, all’impulso immediato di un interesse o di una passione oppongano delle considerazioni generiche di pace e di giustizia»⁷. Ma non basta. La mancanza di un potere realmente in grado di costringere gli Stati a sottostare ad una politica comune è anche fonte (almeno potenziale) di guerre e di disordini. Di ciò era acutamente consapevole il realismo politico di Hamilton: «Se i vari Stati fossero staccati l’uno dall’altro, o anche riuniti in diverse combinazioni, quali potrebbero risultare dal naufragio della grande Confederazione, essi sarebbero soggetti a quelle vicissitudini di guerra e di pace, di amicizia e di inimicizia reciproca, che son toccate in sorte a tutte le nazioni vicine e non rette da un unico governo»⁸.

    È proprio per evitare il «naufragio» che occorre passare dal sistema confederale al federalismo. Passaggio storico che fu davvero compiuto con la Convenzione di Filadelfia. Questa, trasformata in una vera e propria Assemblea Costituente, scrisse la famosa Costituzione degli Stati Uniti. Il grande progetto federalista prendeva finalmente corpo. Con la nuova forma costituzionale, infatti, ogni Stato confederato perdeva la propria qualità di Stato sovrano indipendente per cedere una parte di questa sovranità a favore di quell’organo posto sopra le parti chiamato «sovranità federale». Ogni ex-Stato, da quel momento, è assoggettato ad un’unica Costituzione federale nella quale si riconosce l’intero popolo americano. Ma, tranne poche materie indispensabili – basti pensare soltanto all’esercito, alle politiche fiscali, alle politiche sociali – tutto il resto delle competenze rientra nella libera disponibilità di quegli enti federati che continuano a chiamarsi Stati pur avendo perso la sovranità.

    Riassumendo molto schematicamente, lo Stato federale è un organismo complesso che ha il potere di vincolare direttamente, con rapporti di diritto statale, tutti i cittadini della federazione. Ciò nonostante, il maggior numero di competenze è demandato agli enti federati, e solo se questi non le esercitano scatta il meccanismo federale surrogatorio. Ora, se questa è per sommi capi la storia dell’evoluzione dal confede­ralismo allo Stato federale, non bisogna dimenticare che il modello americano ha soprattutto approfondito il problema della teoria delle istituzioni. È invece rimasta in ombra la dottrina dei valori. In poche parole, non è sufficiente creare uno Stato federale se poi non vengono rispettati alcuni princìpi fermi. Si ricordi, anzitutto, che il modello federale nasce per rendere impossibile la guerra tra Stati e per rendere effettive – cioè vincolanti – le relazioni economiche, politiche e sociali e le relative normative uniformi all’interno dell’ordinamento.

    Storicamente, la più alta e compiuta formulazione del nesso tra valore della pace internazionale e modello federale si deve al filosofo Immanuel Kant. Può sembrare strano, ma questo grande pensatore illuminista, autore della Critica della ragion pura, poco amato dagli studenti, e in genere poco studiato dagli insegnanti, non si è limitato a scrivere le pur fondamentali opere di filosofia teoretica. Anche il filosofo di Könisberg, fuori dall’immagine accademica, è più noto che conosciuto. Kant è infatti autore di altrettanto importanti scritti politici e di filosofia della storia e del diritto. Ma, a parte la notissima operetta Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, non si è mai insegnato che il pensiero kantiano, culminante nello straordinario scritto sulla Pace perpetua del 1795, è come una piramide al cui vertice si pone il federalismo. In poche parole, lo sbocco obbligato di tutto il sistema filosofico kantiano si riassume nel trittico Ragione-Pace-Federalismo. In estrema sintesi, il progetto kantiano parte dall’imperativo categorico che vuole l’uomo libero da ogni forma di condizionamento paternalistico e assolutistico. L’uscita dell’uomo dallo «stato di minorità»⁹, quale vero e proprio manifesto filosofico dell’Illuminismo, presuppone l’emancipazione dall’ostacolo più grande: la guerra civile e l’anarchia internazionale. Sotto questo profilo, per Kant l’equilibrio fittizio della potenza e l’inefficace diritto internazionale costituiscono il maggior ostacolo all’edificazione della «pace perpetua». Ma per superare questo modello occorre pensare ad uno strumento per garantire la pace e l’unione dei popoli entrati nella scena storica dopo la Rivoluzione Francese. Questo strumento è il federalismo mondiale. Ma questa visione è resa possibile solo se si postula, secondo i dettami di una grande filosofia lineare della storia, che il corso storico rappresenti il luogo in cui si afferma gradualmente la Ragione. Tanto più l’uomo si libera dalle pastoie delle leggi di natura, tanto più ha il potere di sviluppare l’idea di libertà. E la conquista della libertà si ottiene solo controllando responsabilmente il corso della storia, e solo ammettendo che se si nega la ragione degli altri si negano la Ragione e la Libertà. L’eguaglianza tra gli uomini e tra i popoli è perciò la pre-condizione per realizzare il grande progetto federalista. Disarmare gli Stati, allora, significa sia rinunciare alle politiche di potenza che li costringe ad armarsi sempre di più, sia a sottoporsi ad una legge razionale capace di porre fine non ad una guerra, ma «a tutte le guerre e per sempre»¹⁰: la tregua, infatti, è collocata da Kant sul versante della guerra, se è vero, come è vero, che la semplice separazione degli Stati nel diritto internazionale è «già di per sé uno stato di guerra»¹¹.

    Il grande progetto kantiano dell’«unione federativa universale» non è esente da interne contraddizioni, aporìe e difficoltà concettuali. Ma non importa qui stabilire dove Kant ‘sconta’, per così dire, i limiti culturali e storici del proprio tempo. Ciò che importa è che con il filosofo di Könisberg viene istituito una volta per tutte il nesso indissolubile pace-federalismo. Di conseguenza, è anche acquisito una volta per tutte che «Stato federale» e «federalismo» non possono essere utilizzati come sinonimi. Per federalismo come dottrina sociale globale si intende la compresenza dell’aspetto di struttura (lo Stato federale) e dell’aspetto di valore (il nesso pace-federazione mondiale)¹².

    In base a questa impostazione, insomma, non è possibile dissociare i due aspetti costitutivi del federalismo se non a prezzo di snaturarne la portata e, in definitiva, di mistificarne la sostanza. Ma non basta. La lezione storica del federalismo insegna che questo modello di convivenza democratica non può essere utilizzato solo per affrontare i problemi settoriali di un singolo Stato o di una singola regione ma, coerentemente alla propria vocazione cosmopolitica, deve potersi esplicare nella dimensione più ampia possibile. Chi dimentica questa vocazione compie evidente opera di mistificazione. È altrettanto evidente, però, che il federalismo di fine Settecento non può essere considerato il modello privilegiato, assoluto e compiuto per affrontare i problemi attuali dell’interdipendenza mondiale. Fenomeni come l’esplosione demografica, gli armamenti atomici, l’inquinamento planetario, lo sviluppo economico-tecnologico, la crisi del modello di Stato nazionale, ecc., implicano oggi una più adeguata strategia federalista. È ad esempio ormai chiaro che i due referenti classici – Stato nazionale e organizzazioni sovranazionali – non sono più sufficienti a render conto dei molteplici livelli di azione entro cui si applica il federalismo¹³.

    Per tutto l’Ottocento e in parte nel Novecento, in omaggio all’era dei nazionalismi, si è ragionato esclusivamente in termini di «federalismo interno» (o infra-nazionale) e di «federalismo esterno» (o sovra-nazionale)¹⁴. Con il primo si è variamente indicato il processo di articolazione ‘federale’ interna a ciascuno Stato nazionale, intendendo con ciò, generalmente, null’altro che un processo di creazione di una compagine che oggi chiameremmo regiona­lismo. Con il secondo termine, si è variamente indicato il processo di dis­arti­colazione dello Stato nazionale verso l’alto, vale a dire il processo di ten­denziale perdita di quote di sovranità delegate ad un organismo federale posto al di sopra degli Stati. In proposito, va rilevato come storicamente il rapporto tra i due livelli «interno» ed «esterno» sia stato sempre interpretato come a-sincronico. In altri termini, il dato che emerge dall’analisi della storia dell’idea federalista italiana ed europea è un orientamento di separazione tra i due livelli. Chi ha pensato – e quasi sempre per motivi politici contingenti – al federalismo interno, difficilmente ha dedicato pari attenzione al federalismo esterno, e viceversa. Se poi ci spostiamo nel versante più dichiaratamente europeistico della prima metà del Novecento, si può rilevare come a volte il federalismo europeo abbia avuto serie difficoltà a porsi come «valore di progetto concreto»¹⁵. Difficoltà, questa, che in genere viene spiegata come frutto coerente del nazionalismo che ha mitizzato l’idea di Stato-nazione. Con una conseguenza fondamentale: l’incapacità di pensare ad un federalismo esterno che disarmi i singoli Stati così privati del tradizionale potere sovrano. Da ciò è derivata la curiosa dissociazione tra europeismo e federalismo, la quale è stata combattuta da grandi personalità – si pensi per tutti, in Italia, a Luigi Einaudi e Altiero Spinelli –, ma ha poi avuto un peso notevole nel ritardo culturale e politico con cui si è affrontato operativamente il problema dei cc.dd. «Stati Uniti d’Europa».

    Come si accennava prima, però, oggi i problemi sono ancora più complessi e non sempre è facile decifrarne la natura. In particolare, nell’epoca della fine sostanziale del modello di Stato nazionale appare sempre più difficile non vedere che i livelli politici di azione sono diversi, molteplici e persino concorrenti. La lealtà verso gli Stati perde vertiginosamente quota a favore di nuove lealtà di dimensioni più locali. Correlativamente, le dimensioni dell’economia mondiale implicano ormai la necessità di pensare al fatto che sempre più numerosi problemi non sono risolubili se non in contesti di coordinamento sovra­nazionale. Per questi motivi oggi si parla di principio di sussidiarietà. Con questa espressione si intende in genere il seguente modello di coordinamento: ogni livello significativo di potere deve gestire tutte le competenze inerenti a quella dimensione. Ogni altro potere che ‘debordi’ deve essere allora gestito (o co-gestito) al livello immediatamente superiore. In questo movimento ascendente è chiaro che è immaginabile una pluralità di sedi e livelli di competenza ben più articolata rispetto all’immagine ottocentesca. Così, ad esempio, Comuni, Province, Regioni, coordinamenti interregionali, livelli statali, dimensioni europee ed intercontinentali formano una complessa trama di rapporti che è difficile da armonizzare, ma che richiede in ogni caso di abbandonare come unico referente un modello di Stato nazionale ormai sempre più inadeguato.

    Si tratta – è evidente – di una complessa dinamica evolutiva sostanzialmente estranea, sotto il profilo storico, alle elaborazioni del primo Novecento. È comunque a partire da questo orizzonte problematico che occorre valutare con attenzione il contributo del pensiero federalista in Sardegna all’idea globale di federalismo.

    Premessa metodologica

    Prima di affrontare in concreto temi e problemi emergenti dall’elaborazione dell’idea federalista in Sardegna è necessaria una premessa metodologica. Questa premessa è strettamente collegata alla scelta del referente storico che si ritiene più idoneo come punto di partenza. È ad esempio chiaro che se si opta per una definizione larga e onnicomprensiva di federalismo, si può credere di rintracciare le radici persino a partire dall’organizzazione politica nuragica, a mano che non si acceda, più correttamente, all’idea di federatività, intesa estensivamente come dimensione reticolare di distribuzione dei poteri su scala territoriale¹⁶. Ovviamente non si tratta solo di un problema definitorio. Chi si occupa di federalismo deve fare i conti con la storia. E questi conti presuppongono se non una data certa di nascita del federalismo, quanto meno una collocazione temporale non equivoca e significativa. Anzitutto perché il federalismo è un’idea tutta moderna, legata addirittura all’esigenza di superare i limiti angusti dello Stato nazionale riferito al modello europeo. E poi perché occorre sempre molta attenzione, soprattutto nello studio dei fenomeni storico-politici e giuridico-istituzionali, a non cadere nelle trappole di una falsa continuità storica codificata in termini di paradigmi storiografici anziché, come è assai più produttivo, in termini etno-simbolici e mitopoietici, nei quali la storia ha funzione ancillare. Non si ripeterà mai abbastanza che non basta una analogia linguistica o un’identica espressione nel corso dei secoli per pre-datare la nascita di un fenomeno: «analogie estrinseche nascondono differenze sostanziali»¹⁷.

    Facciamo un esempio concreto. Foedus è una parola ben presente nel diritto romano, e indica approssimativamente l’idea di un patto d’unione, di un’alleanza, di un coordinamento di forze prima disunite. Ma non è operazione scientificamente corretta pensare e asserire che perciò «germi» di federalismo erano già ben presenti nell’antichità classica¹⁸. In realtà, infatti, il primo referente su cui si misura, si confronta, e si scontra quel movimento storico che poi si chiamerà federalismo è lo Stato moderno. E questa complessa organizzazione artificiale non nasce con le orde barbariche né con la polis greca. A meno che non si attribuisca a questo concetto un significato talmente «vago e generico così da comprendere ogni forma di convivenza politica degli uomini»¹⁹.

    Lo Stato non è un archetipo. Non ha nulla di eterno e di metastorico. Non è un mito necessario. È un prodotto storico di un’evoluzione che culmina nella «grande discontinuit໲⁰ storica tra ‘500 e ‘600, e che oggi tende ormai a declinare. Lo Stato moderno nasce per porre fine a secolari guerre e disordini accentuati dalla micro-frammentazione della defunta Res publica Christiana in regni e particolarismi in lotta. Se il fine ultimo dello Stato moderno è l’ordine interno a qualunque prezzo, il federalismo nasce per risolvere lo stesso problema speculare ma collocato in una dimensione più vasta: la comunità internazionale. Gli Stati ‘pacificati’ al loro interno sono comunque bellicosi nei loro rapporti con gli altri Stati sovrani. Il diritto internazionale, affidato alla buona volontà dei contraenti, è in definitiva il luogo della sopraffazione del più debole ad opera di chi ha più forza materiale. Anzi, il rapporto tra Stati «è vacillante»²¹, si configura come il luogo anarchico in cui si consumano le «serie repliche della storia»²², e quindi come il luogo storico in cui ha sempre ragione – e diritto – chi vince. Il federalismo, dunque, nasce per porre fine all’anarchia internazionale. Finita l’epoca degli homini hominibus lupi – cioè dell’anarchia dello stato di natura, in cui le relazioni selvagge tra individui crea uno stato di guerra perenne –, inizia l’epoca dei «regna regnis lupi»²³, vale a dire degli Stati bellicosi. Se lo Stato moderno ha regolato e pacificato gli uomini-lupi, il federalismo si è proposto – e si propone – di pacificare gli Stati-lupi artificiali, «assai più selvaggi, incontrollabili e pericolosi degli uomini naturali che li avevano creati onde affidarsi alla loro tutela»²⁴.

    Naturalmente, anche questa ricostruzione, tutta novecentesca, che ripropone a fini retorici ciò che sul piano fattuale è inesistente, vale a dire la presunta realtà dello stato di natura internazionale, pecca di analiticità e sottovaluta la giuridicità del diritto internazionale, le regole esplicite e implicite che regolano i rapporti interstatali nell’era della globalizzazione, e nell’ansia di costituzionalizzare l’intero mondo tramite la trasposizione del federalismo statuale nel federalismo globale, cade nell’errore di considerare il diritto internazionale non ancora «federalizzato» come uno stato di natura fondato sull’anarchia internazionale²⁵.

    Le origini del pensiero federalista sardista

    La storia del pensiero federalista sardista non può prescindere da questo quadro di riferimento. E, a meno che non si reputi storiograficamente corretto postulare fili aurei storiografici che collegano l’età nura­gica con Tuveri, è bene chiarire le ragioni che spiegano le presenti scelte storico-ricostruttive. Anzitutto, parlare dell’idea federalista in Sardegna implica un chiarimento a monte del concetto di «questione sarda». La tesi qui sostenuta è che ad ogni modello di questione sarda corrisponde una diversa interpretazione del punto di partenza dell’elaborazione federalista. Così, quanto più si restringe il campo definitorio della questione sarda, tanto più si coglie la pregnanza dell’idea federalista.

    Naturalmente, come è documentato altrove, occorre separare nettamente le questioni di metodo storiografico dalle questioni attinenti alla dimensione mitopoietica, fondata su referenti etnosimbolici: nella mitopoiesi è del tutto corretto trovare una interpretazione complessiva della storia sarda secondo la teoria delle costanti (salvo poi dissertare, ma sul piano politico, quale costante interpreti meglio l’aspirazione all’indipendenza: se sia meglio la costante autonomistica di Cardia, la costante identitaria di Simon Mossa, la costante resistenziale di Lilliu)²⁶. In questo senso, perciò, proprio in riferimento al pensiero federalista, occorre separare nettamente l’analisi storiografica da quella mitopoietica, dato che il progetto federalista si basa sull’utilizzo molto restrittivo di categorie e concetti costituzionalistici, mentre una estensione del paradigma federale, oltre a porsi come una indebita forzatura, trasforma il federalismo in vago contenitore in cui convivrebbero dimensioni istituzionali tra loro disomogenee se non addirittura tra loro contrastive (Stato regionale e Stato federale; decentramento e autonomia, ecc.).

    Senza voler entrare in una polemica storiografica ancora aperta, è bene almeno chiarire i termini fondamentali del problema. Per «questione sarda» si è inteso, genericamente, l’insieme dei problemi istituzionali, politici, economici, sociali e culturali i quali hanno caratterizzato, nel corso di una storia millenaria, la condizione di subalternità della Sardegna rispetto alle varie dominazioni subìte. Con questa lettura estensiva sono state perciò azzardate interpretazioni di grande rilievo compendiate nella nota formula della «costante resistenziale sarda»²⁷. La formula è certamente suggestiva, da inquadrare nella sua valenza politico-polemica degli anni Settanta, ma di fatto incapace di render conto di forti cesure storiche a partire dall’età moderna in rapporto all’emergere della questione federalista. Tuttavia, la costante resistenziale non è fondata sulla sterile e fuorviante ricerca di quelle che Comte chiamava «questioni inaccessibili o chime­riche sulle diverse origini» storiche dei fenomeni²⁸, ma si colloca nel più diverso versante delle radici etniche delle nazioni, e implica una dimensione mitopoietica di alto valore etico e politico, la quale, tuttavia, non appare utilizzabile per la ricostruzione dei fondamenti costituzionalistici su cui deve misurarsi il progetto federalista. Ma anche a voler restringere l’arco temporale, sono state proposte interpretazioni storiografiche le quali, o partono dai Giudicati per ‘dimostrare’ che la questione sarda parte dalla coscienza della «statualità» della Sardegna²⁹; o dall’età spagnola, in cui sarebbero maturati nell’isola fermenti ‘nazionali’³⁰; o, ancora, dal ‘decennio rivoluzionario sardo’, interpretato come il frutto maturo di una avvenuta presa di coscienza nazionale³¹. In tutti questi casi, però, nonostante pregevoli spunti di riflessione e di analisi, è documentabile una confusione metodologica spesso spiegabile se si tiene conto della valenza politica di volta in volta assunta a monte del lavoro storiografico.

    In altre parole, non si è mai distinto chiaramente tra due ordini di problemi. Una cosa è parlare di un insieme di questioni aperte che hanno caratterizzato la lunga parabola della storia della Sardegna. Altra cosa è la trasformazione di un aggregato di questioni in un fascio organico che vede la questione sarda come vera e propria questione politica-autonomistica. Ora, se tracce di tale «questione» si possono ritrovare nella «carta autonomistica della Sardegna»³², è però storiograficamente più produttivo post-datare la nascita della questione sarda a partire dalla (pretesa) rinuncia dell’autonomia del Regnum Sar­di­niae³³, per arrivare alla fase del suo definitivo consolidamento politico, vale a dire l’Unità d’Italia.

    La questione sarda nasce insomma come vero e proprio problema politico-autonomistico in stretta correlazione con il problema dell’unificazione ‘nazionale’ italiana. Al punto che non è sempre facile distinguere la questione sarda dalla critica contro lo Stato accentratore³⁴. Ed è proprio dalla critica contro la piemontesizzazione dell’unificazione, vale a dire contro la creazione di uno «Stato piemontese territorialmente più vasto, ma, come ispirazione ideale, ugualmente angusto»³⁵, che si sviluppano le prime compiute formulazioni dell’idea federalista in Sardegna. Non a caso, è a partire dal 1848 che la collo­cazione geo-politica dell’isola acquista una nuova e diversa valenza storica. Tutti i problemi già presenti in secoli passati si coagulano adesso in un progetto politico alternativo, e vengono assorbiti all’interno delle nuove contraddizioni che esplodono, non a caso, proprio nel momento in cui la Sardegna entra organicamente a far parte di un nuovo e più moderno assetto politico-costituzionale. Ciò, ovviamente, non è argomento che disconfermi la legittimità etico-politico della mitopoiesi sardista, che trova nella costante nazionalitaria una continuità storica tra l’età nuragica e la storia contemporanea, ma si tratta semplicemente di problemi metodologici diversi, che occorre accuratamente separare tra loro.

    In questa sede non è più possibile una disamina articolata dei fermenti federalisti già presenti nel ’48, almeno in via embrionale³⁶, né del pensiero federalista di Giorgio Asproni³⁷, fatto più che altro di riferimenti frammentari, ma occorre soprattutto soffermarsi sulla figura più rappresentativa e originale del panorama politico-culturale della Sardegna ottocentesca: Giovanni Battista Tuveri. Una figura che solo di recente è stata ristudiata e restituita alla sua obiettiva dimensione, vale a dire al più ampio versante del pensiero federalistico del Risorgimento italiano³⁸. Una figura – è doveroso aggiungere ­–, che è ben lontana da quella dimensione localistica, provinciale o comunque estranea all’ef­fettualità delle lotte politiche risorgimentali in cui è stato per troppo tempo incasellato – si pensi alla decennale fortuna tributata al Tuveri «pensatore solitario»³⁹ ­–. E infatti, solo dopo accurati e approfonditi studi, oggi Tuveri trova meritatamente posto in quel ristretto filone del «‘cattaneismo’ concretamente operante entro i limiti del possibile nella realtà»⁴⁰. Questa annotazione è per più versi importante. Da una parte, rende giustizia della dimensione del pensatore e dei suoi collegamenti non casuali, né episodici e né estrinseci con figure fondamentali del Risorgimento ‘dissidente’; dall’altra parte, l’elaborazione federalista tuveriana non ha valore di astratta petizione di principio ma, sulla scia di Cattaneo, si presenta come una vera e propria strategia politico-culturale sufficientemente flessibile per interpretare senza velleitarismi le vicende politiche locali e nazionali, e profondamente radicata nell’analisi militante, concreta e sistematica dei fenomeni per non cadere nelle trappole del­l’utopismo velleitario.

    L’idea tuveriana di federalismo è stata studiata con attenzione⁴¹, e in questa sede sarà sufficiente sintetizzare i risultati di questo lavoro storiografico mettendo in luce i limiti storici in cui ha operato Tuveri e la sua importanza, come punto ideale di riferimento, per il federalismo del primo Novecento.

    Tuveri, attento e profondo conoscitore dei grandi modelli federali del suo tempo, gli Stati Uniti d’America e la Svizzera, espone una dottrina federalista molto avanzata e audace. Si tratta del primato attribuito al concetto giuridico di residualità, in cui, cioè, la ripartizione dei poteri tra sovranità federale ed enti federati è tutta a favore di questi ultimi. Il potere federale centrale, infatti, è titolare di quei pochi poteri appunto residui – difesa, esteri, moneta, ecc. – i quali non possono essere lasciati alla libera disponibilità di ogni ente federato in virtù della loro importanza strategica e collettiva. Resta esemplare la definizione tuveriana di Stato federale: «Perché uno stato possa dirsi veramente federale bisogna che le grandi frazioni che lo costituiscono siano sovrane in tutto ciò che non è incompatibile con l’interesse generale»⁴². È da sottolineare che se la definizione del modello residuale è derivato dal dual federalism americano, la concreta articolazione dell’ordinamento proposta da Tuveri è improntata sul modello cantonale svizzero del 1848. E infatti, per Tuveri l’Italia doveva diventare una repubblica federale in cui gli enti federati sarebbero stati le regioni storiche o gruppi di regioni. La stessa istituzione di una seconda Camera legislativa al posto del Senato per rappresentare pariteticamente ogni ente federato, e del referendum popolare per decidere su leggi di fondamentale importanza nazionale, tradiscono l’opzione tuveriana per il sistema costituzionale svizzero.

    L’originalità del federalismo tuveriano – si ricordi che oltre alla teoria delle istituzioni è vivissima in Tuveri l’esigenza di reale educazione all’auto­governo dal basso – risiede nel fatto che si tratta di un modello il quale già nell’Ottocento risulta più avanzato del moderno regionalismo. E anzi, il pensiero tuveriano si discosta da molte elaborazioni federalistiche del Risorgimento proprio per la distinzione netta e inequivocabile tra autonomismo e federalismo. L’autonomismo che non spezza il cerchio magico dello statalismo centralista può anche concedere larghe autonomie locali: ironicamente, infatti, Tuveri ricorda che persino le «monarchie assolute» concedettero «larghe libertà locali»⁴³. Il federalismo spezza questo circuito e rende i poteri centrali non più in grado di esercitare poteri di fatto assoluti. Del resto, ad unificazione (piemon­tesizzante) avvenuta, quando ormai il dibattito sul federalismo conosce in Italia notevoli battute d’arresto, Tuveri si occupa a fondo, sia come studioso critico e militante sia come amministratore, di autonomie locali. Da acuto interprete dei vizi dello statalismo, Tuveri sapeva davvero che solo da una profonda riforma economica, politica e morale delle autonomie dal basso poteva derivare, e sia pure nei tempi lunghi, il principio federalista. Di questo progetto Tuveri è stato il più acuto interprete, e proprio in un’età in cui lo Stato nazionale unitario auto-celebrava i propri trionfi senza neppure sospettare di essere quasi arrivato al capolinea della storia.

    L’eredità tuveriana e il pensiero federalista nella storia del sardismo

    L’eredità ideale di Tuveri, morto nel 1887, ha dato i suoi frutti ad un trentennio di distanza. Il merito fondamentale di questa riscoperta va attribui­to pressoché interamente a Gioele Solari, professore di Filosofia del diritto presso la Regia Università di Cagliari dal 1912 al 1915, massimo studioso della questione sarda e acuto interprete di Tuveri e della cultura del suo tempo⁴⁴. Questo riferimento è importante almeno per spiegare come il revival tuveriano di primo Novecento abbia come interpreti proprio quelle figure rappresentative che hanno scritto la storia dell’autonomismo e del federalismo nella Sardegna della prima metà del Novecento. Naturalmente si tratta di un’eredità ideale, di un riferimento storico, di una riabilitazione autorevole. Ma fuori dal doveroso tributo al maggior federalista sardo dell’Ottocento, l’idea federalista elaborata nella Sardegna novecentesca si trova a interpretare una realtà geo-politica e culturale per certi versi incomparabile con quella di appena trenta-quarant’anni prima. Il discrimine fondamentale è ovviamente la prima guerra mondiale. Da quel momento la storia europea ed italiana entra in un altro ordine di complessità. Si fa strada la società di massa, entra in crisi definitiva il vecchio modello di Stato liberale ereditato dal Risorgimento, il fascismo è alle porte, si fa strada l’idea della crisi e del tramonto dell’Occidente e dei suoi valori consolidati. E nel momento in cui emerge la consapevolezza della crisi del vecchio Stato ottocentesco, e della necessità di soluzioni politico-operative di livello sovranazionale, il primo grande conflitto mondiale, in un apparente paradosso, contribuisce a rinforzare proprio il nazionalismo. La perfetta e artificiale identificazione tra Stato e Nazione produce il rafforzamento e la progressiva centralizzazione dello Stato nazionale unitario e del suo «mono­cen­trismo geostorico»⁴⁵. «Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza»⁴⁶ – sentenziava profeticamente Einaudi –, eppure l’attenzione generale dei fede­ralisti sardi, con tutta la varietà di accenti, timbri e motivazioni, si dirige essenzialmente verso il problema del federalismo interno.

    Secondo una linea apparentemente paradossale, ciò vale sia per il versante antifascista, sia per quello che in qualche modo è vicino alle posizioni anche ufficiali del regime. In ambedue i versanti, infatti, o la riforma federale dello Stato accentrato è una necessità prioritaria per sconfiggere il regime fascista, o una proiezione federale euro-mediterranea è auspicata, ma per accentuare la posizione egemonica dello Stato nell’unico versante geo-politico internazionale ancora disponibile. A parte sporadici accenni formali ed episodici, la proiezione del federalismo esterno è meramente sussidiaria ed è sempre subordinata al versante interno. In poche parole, è sostanzialmente assente l’elaborazione concettuale della necessità di depotenziare la sovranità statale in favore di una sopra-ordinata sovranità federale garante della pace in Europa: «Chi vuole la pace – scriveva isolato Einaudi – deve volere la federazione degli Stati»⁴⁷.

    Naturalmente, il panorama offerto dalle elaborazioni dei federalisti sardi nella prima metà del Novecento è molto variegato e registra un’interessante pluralità di accenti e posizioni. A costo di esemplificare e di irrigidire schema­ticamente la pluralità delle posizioni, l’idea federalista nella Sardegna della prima metà del Novecento si articola attorno a tre livelli fondamentali di analisi: a) il federalismo interno; b) il federalismo euro-mediterraneo; c) il federa­lismo esterno europeista. A questa classificazione – è evidente – non corrisponde la normale periodizzazione tripartita «combattentismo – regime fascista – II guerra mondiale/Assemblea Costituente», la quale va tenuta presente solo per inquadrare storicamente le concrete elaborazioni. L’ordine sincronico, soprattutto nel caso della storia delle idee e dei modelli, è da preferire rispetto all’ordine diacronico, nel senso che è forse più utile, in questa sede, evidenziare concetti e categorie piuttosto che seguire pedissequamente un rigido ordine cronologico a livello espositivo.

    a) Il federalismo interno

    Sòrgono particolari problemi di analisi e di interpretazione ogni qual volta ci si accinga ad affrontare l’esame del federalismo interno nel pensiero dei federalisti sardi. Si tratta di problemi concettuali molto complessi, la cui analisi puntuale costringerebbe a scrivere un’ampia monografia. È allora sufficiente sottolineare alcune difficoltà che meritano almeno un accenno. Si pensi alla ricorrente confusione tra federalismo e autonomismo, o, per essere ancora più precisi, tra riforma in senso federale dello Stato e riforma regionalistica. Si tratta di una confusione che ha origini e cause diverse. La prima può essere formulata come segue: nella letteratura politica sul problema del federalismo in Sardegna non si registrano scritti di veri e propri teorici del diritto o della politica. È invece ben presente e condizionante l’apporto di uomini d’azione, di militanti della politica, strutturalmente più occupati ad affrontare problemi settoriali, piuttosto che ad elaborare teorie generali del federalismo. Ciò non significa, ovviamente, che l’orizzonte analitico sia ottuso. È però chiaro che la ragione militante prevale spesso sulla stessa esigenza di chiarificazione concettuale. Questo è molto evidente nella letteratura politica dei primi anni Venti. In particolare, il combattentismo ha avuto un ruolo non marginale nel subordinare il rigore scientifico alla ragione militante e alla stessa strategia politica complessiva.

    Nello Schema di programma politico approvato a Macomer nel 1920⁴⁸ si legge, ad esempio, che i combattenti sardi sentono il dovere di evitare «ogni utopistica e dottrinale costruzione di eventualità future», vale a dire «ogni velo di teorie e di formule». Così impostato, il programma federalista non può che avere la dimensione di una (spesso generica) esigenza di riforma interna dello Stato. A ciò va aggiunto il fatto che l’esperienza della prima guerra mondiale, vissuta drammaticamente da un’intera generazione di sardi e di italiani, ha avuto l’effetto di rafforzare proprio il concetto e la superiorità di un’unica Nazione italiana entro cui si deve riconoscere la Sardegna. Occorre ricordare che la cultura politico del primo sardismo, in aderenza ai postulati della scienza giuspubblicistica tardo-ottocentesca, e al prevalente orientamento marxista e idealista, concepisce l’identificazione di Nazione con Stato, al punto che l’espressione Stato nazionale diventa la formula sintetica che incarna plasticamente quella identificazione, mentre altro discorso è la posizione del primo sardismo nei confronti della Sardegna come nazione che, storicamente, non si è costituita in Stato. Questa posizione rende impossibile immaginare – se si seguono, almeno, le categorie politiche tardo-otto­centesche – un destino di statualità e, al limite, di indipendenza dell’isola. Ma nonostante l’aporìa, il pensiero sardista articola la necessaria identificazione di Nazione e Stato in un’ottica federale che trova una collocazione originale all’interno del rinnovato mito dell’unità nazionale italiana. Così, insomma, si apre il campo ad una valutazione anche morale della superiorità del momento unitaristico, temperato e corretto, ovviamente, dalla necessità, carissima a Bellieni, che l’unità federale sia ispirata «da un alto spirito di solidarietà fraterna per produrre una tutela efficace dei comuni interessi e del comune patrimonio ideale»; e che, ovviamente, sia ispirata dal principio dell’«equa ripartizione degli oneri». Il concetto di «patria» e il senso di italianità rappresentano il comune denominatore dell’intera visione federalistica di uno dei più grandi federalisti sardi, Camillo Bellieni. Ma questo progetto affonda le proprie radici psicologiche ed etico-politiche proprio nell’esperienza combattentistica. In un curioso gioco delle parti, infatti, il sentimento ‘nazionale’ dei sardi trova la sua più alta espressione proprio nella tragedia della prima guerra mondiale combattuta in nome della comune Patria italiana. Anzi, l’immaginario collettivo del combattentismo rivendica all’evento bellico la funzione di strumento capace di esaltare e compattare la grande questione nazionale sarda attraverso il filtro decisivo del superiore spirito patriottico italiano⁴⁹. Naturalmente, si tratta di questioni che sono state brutalmente semplificate in chiave polemica, ma la concezione di Bellieni va intepretata alla luce complessiva del suo pensiero, e nella considerazione che si tratta sempre di una posizione federalista, e non riduttivamente autonomistica⁵⁰.

    Se Bellieni non viene inquadrato in questo contesto storico, non si possono comprendere a fondo le motivazioni ideali che ànimano la sua visione del federalismo interno. E, naturalmente, non si coglie la reale distanza che sèpara Bellieni, anche successivamente, dai cosiddetti «sardisti del villaggio»⁵¹, considerati estranei ai fermenti culturali del federalismo europeo e fautori del mito antistorico della piccola patria sarda autarchicamente interpretata al di fuori del clima nazionale ed europeo. Non si tratta di sfumature. La visione federalistica di un Bellieni è necessariamente «uccisione della mentalità provinciale». Lo si legge chiaramente nella relazione al II Congresso del Partito Sardo d’Azione, nel 1923⁵²: «Con il mito della redenzione della Sardegna – scrive Bellieni – noi assicureremo il nuovo trionfo d’Italia nel mondo». Ma non si tratta di una pura petizione di principio. Il federalismo o è il frutto di una lotta politica dal basso o non è: «organi della battaglia» sono gli enti locali, da conquistare e da trasformare in organi di autogoverno. E la stessa visione regio­nalistica «non dovrà sorgere da un atto grazioso del governo centrale» ma dalla «libera volontà» delle autonomie locali. Questo progetto non si identifica con l’attuale modello regionalistico. Il federalismo di Bellieni è un acuto strumento di critica demistificante di ogni riforma regionalistica che si ponga di fatto come «paravento» che maschera e dissimula la permanenza dell’intera «pesante macchina statale». Per Bellieni, in effetti, occorre spezzare il vecchio unitarismo di natura monarchica, fondato sull’istituzione prefettizia e su un ordinamento finanziario accentratore e favoritistico, ingerente e arrogante. Non a caso, l’avan­zato federalismo interno bellieniano è consapevole di voler giungere ad un vero e proprio «processo di disintegrazione» dello Stato: «parti giuridicamente indifferenziate dell’organismo burocratico uniforme, stile francese, assurgerebbero a vita autonoma». Ma si tratta di un processo rivoluzionario che non concede nulla al separatismo. L’ideale cooperativo che fonda l’intero fede­ralismo di Bellieni postula una trasformazione politico-istituzionale da attuarsi «con profondo senso d’italianità, in tutte le regioni d’Italia». Una trasformazione profonda che prefigura già una compiuta elaborazione del principio di sussidiarietà costitutivo dei sistemi federali più avanzati. Un principio organiz­zatorio, questo, che implica una rigida ripartizione delle competenze tra sovra­nità federale ed enti federati, la quale viene attuata secondo lo schema del federalismo dualista. Ogni livello, cioè, ha competenze pressoché esclusive. Solo in caso di mancato esercizio scatta il potere sostitutivo da parte dell’ente sovra­ordinato.

    Ora, sulla base di questa schematica ricostruzione, è evidente la prepon­deranza dell’interesse del pensiero politico di natura combattentistica verso la compiuta formulazione del federalismo interno. Ma, come è stato già sottolineato, questa scelta è spiegabile a partire dal clima politico degli anni Venti. Può in ogni caso essere almeno significativo il fatto che non è comunque assente l’esigenza di pensare ad un progetto federalista su ben più vaste dimensioni politico-territoriali. Come Bellieni ha scritto più volte, «l’autonomismo è preparazione all’internazionalismo, inteso però non come semplicistico abbat­timento di frontiere in nome di un astratto ideale umanitario, ma come accordo d’interessi per la creazione di una forma statale che superi le attuali divisioni nazionali». La grande lezione di Bellieni, insomma, veniva compendiata nell’istituzione di un nesso strettissimo tra le ragioni dell’ideale e l’azione politica. Idea e politica federalista si fondono così in un unico modello d’azione, sufficientemente flessibile per interpretare operativamente la lotta politica, ma solidamente fondato su rigorosi princìpi inderogabili tali da assicurare ad ogni mossa politica contingente la necessaria legittimazione ideale.

    Su questa base, e su questa esigenza d’apertura, coerente con una visione moderna e disincantata del federalismo⁵³, si svilupperà poi la successiva elaborazione federalista negli anni dell’antifascismo. Negli anni Trenta è mutato radicalmente il quadro politico italiano ed europeo. Il fascismo ha gettato la maschera e in tutta Europa i totalitarismi mostrano apertamente il proprio volto demoniaco. Lo scontro ideologico-politico assume i toni tragici dello scontro epocale. L’antifascismo, l’esilio e la soluzione federalista rappresentano tre punti-chiave per capirne a fondo le interne motivazioni. Di questo clima Emilio Lussu è senz’altro il maggiore interprete. Come è stato già evidenziato altrove, la visione federalista lussiana va distinta nettamente in due fasi: nella prima, che va dagli anni Trenta sino alla seconda guerra mondiale, viene privilegiato il livello del federalismo interno; nella seconda, che va dagli anni della Costituente agli anni Cinquanta, e nel mutato clima internazionale, trova posto anche un’interessante teoria del federalismo esterno⁵⁴.

    La visione lussiana del federalismo interno è più cospicua e profonda sia sotto il profilo dell’elaborazione teorica, sia sotto quello della produzione quan­titativa. Senz’altro, è l’aspetto più noto e studiato⁵⁵, e in questa sede è sufficiente limitarsi a ripercorrerne schematicamente i nodi fondamentali. Il federalismo di Lussu, coerentemente ad una continuità ideale con il pensiero politico sardo più avanzato tra Ottocento e primo Novecento, è pensato contrattualisticamente come un processo che si sviluppa dal basso e tende a valorizzare compiutamente un vasto reticolo di istituzioni autonomistiche in funzione di veri e propri contropoteri. La sostanza del pensiero lussiano è a grandi linee la seguente: quanto più uno Stato è organizzato centralisticamente, tanto più è facile per una dittatura impadronirsene. Conseguentemente, più il potere è diffuso alla base, alla periferia, al centro, più diventa illusorio e velleitario pensare ad una marcia su Roma. L’esempio dei maggiori sistemi federali confermava questo dato. In secondo luogo, anche Lussu è tendenzialmente assertore del principio del riparto delle competenze tra sovranità federale ed enti federati. Solo che, a differenza di Bellieni, Lussu si rende conto che questo tradizionale modello federale ha bisogno di essere maggiormente articolato: le nuove esigenze dello Stato sociale impongono un più organico coordinamento tra le politiche federali e quelle degli enti fe­derati. Lussu, insomma, non si lascia ingannare dalle sirene dei poteri esclusivi imputati agli enti federati, in quanto intravede che questo disegno, se non è riequilibrato da una politica di integrazione e di cooperazione, può portare a pericolose tendenze separatiste. Sotto questo profilo, quella di Lussu è una posizione che innova «rispetto alla tradizione federalistica»⁵⁶. Anzi, è stato acutamente osservato che finché Lussu «non intervenne personalmente, le enun­­­ciazioni federaliste rimasero nel vago»⁵⁷. Ma il pensiero lussiano è importante anche perché ha stabilito una decisiva distinzione tra autonomia (come mero decentramento) e federalismo. Distinzione sottile, perché anche in Lussu è fondamentale spezzare il cerchio magico dell’unitarismo e del decentramento amministrativo che si limita a riprodurre in scala minore i vizi strutturali del centralismo statale⁵⁸.

    In ogni caso, quando Lussu affronta il problema della Sardegna nel quadro di un ordinamento federale, lo fa avendo ben chiaro che il federalismo è uno strumento per procedere alla ricostruzione dello Stato⁵⁹. Anzi, nella prima fase, e soprattutto negli anni Trenta, Lussu utilizza in forma militante il progetto federalista come strumento decisivo per la lotta contro il centralismo fascista. Perciò, la stessa riforma riferita alla Sardegna va inquadrata in un contesto nazionale ed europeo: «l’autonomismo sardo va inserito nel quadro di un movimento federalista italiano»⁶⁰. Ciò si configura, nella visione lussiana, come la grande occasione storica per porre fine al «millenario isolamento» della Sardegna, nel quadro di «una più grande civiltà italiana ed europea»⁶¹. Naturalmente, anche Lussu non si limita a proporre una sia pur organica teoria delle istituzioni federali, ma allarga il tema del federalismo ai valori dell’educazione rivoluzionaria alla democrazia: «Oggi, come allora per Cattaneo, rivoluzione significa rivoluzione profonda nel popolo e nello Stato». Il fede­ralismo, infatti, «non può essere il trionfo di un gruppo di dottrinari o la concessione elargita per conciliazione, ma una conquista consapevole, reclamata e difesa dalle varie collettività nazionali partecipi alla rivoluzione»⁶². L’imperativo dell’«autogoverno», inteso come «diritto di partecipare autonomamente alla trasformazione dello Stato italiano»⁶³, pone perciò la visione federalista di Lussu nel versante di un progetto politico immediatamente operativo e, sia pure in un orizzonte da definire, aperto alla più vasta dimensione europea e sovranazionale.

    Ma l’apertura esplicita e incondizionata verso il problema del federalismo esterno in Sardegna tarda ad arrivare. Tra le cause di questa assenza, si pone senza dubbio l’attenzione dedicata da molti autori ai problemi della Costituente, e più in generale, alle forme della ricostruzione dello Stato all’indomani della caduta del fascismo. Conformemente alla tendenziale vocazione pragmatica, politico-operativa, e filosofico-militante del pensiero federalista in Sardegna, l’elaborazione del federalismo è per così dire ritagliata sulla concreta situazione politica regionale e nazionale. Così, la priorità delle opzioni, e la necessità di offrire immediatamente soluzioni di pur largo respiro, determinano un com­pren­sibile silenzio intorno a questioni non meno importanti quali il federalismo esterno. Ma sarebbe storiograficamente fuorviante derivare da questa situazione un giudizio negativo di valore sull’univocità o sull’antistoricità dell’elaborazione federalista in Sardegna. Si tratta piuttosto di prendere atto che anche il pensiero federalista isolano si sviluppa in un arco temporale che conosce la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e la fase della ricostruzione nazionale.

    Le voci più autorevoli del federalismo in Sardegna sono quelle che, in contrapposizione al generale fervore autonomistico caratterizzante un clima dominato dall’idea della ricostruzione nazionale unitaria, ritengono purtuttavia di dover superare le secche di un regionalismo ‘prefettizio’ attraverso l’introduzione del federalismo. Queste voci, pur nella diversità di analisi, toni e accenti, concordano sul fatto che l’unitarismo nazionale non coincide con l’idea dell’unità composita. Qualunque unitarismo – e il fascismo è stato solo l’ultimo esempio – può diventare facile preda di nuove dittature camuffate. Nel pluralismo, nell’equilibrio istituzionale dei pesi e contrappesi, nella costruzione di una pratica autonomistica coerente con il progetto federalista, vengono trovati perciò i rimedi duraturi contro qualunque pretensione autoritaria.

    Del resto, l’esigenza di uscire da vaghe e generiche formulazioni autono­mistiche e federaliste è sentita in Sardegna come un punto imprescindibile per l’azione politica. Senza pretendere di avere il monopolio d’idee, e senza agitare illusorie ricette per soluzioni pre-confezionate, per Gonario Pinna, uno dei più lucidi federalisti della prima metà del Novecento, è comunque «giunta l’ora di definire, chiarire e precisare». La rottura del «cerchio magico ma indefinito»

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