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La rete e la ruspa: I nuovi populismi fra politica e antipolitica
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E-book166 pagine2 ore

La rete e la ruspa: I nuovi populismi fra politica e antipolitica

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La questione populista che ha fatto irruzione nell’agenda politica planetaria presenta un profilo non privo di contraddizioni: se tutto è populismo, nulla è più precisamente individuabile come populismo. Il caso italiano merita dunque un’osservazione specifica. Per la prima volta, infatti, due forze antagonistiche, ma assai diverse fra loro, concorrono alla guida di un grande Paese europeo. A presiedere all’operazione è una specie di contratto notarile che dovrebbe surrogare il più politico degli atti: la formazione niente meno che di un «governo del cambiamento» immaginato come l’esito di una rivoluzione elettorale.
Nicola R. Porro, sociologo della politica e docente universitario, propone una lettura originale del doppio populismo «di lotta e di governo». Il suo stato nascente è ricostruito attraverso vicende esemplari tratte dall’attualità e attingendo alla cassetta degli attrezzi delle scienze umane e sociali. Il partito di Salvini e il Movimento 5 Stelle si configurano sociologicamente come la Lega Nord e la Lega Sud di un Paese inquieto e disilluso. Intercettandone gli umori, i due movimenti - identificati attraverso le metafore della rete e della ruspa - sembrano interpretare una rivolta anti-élite dagli esiti incerti, non storicamente inedita ma permeata da una cultura di massa che mescola vecchio e nuovo, politica e antipolitica, feticismo della rete e nostalgie autoritarie.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2018
ISBN9788832760705
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    Anteprima del libro

    La rete e la ruspa - Nicola R. Porro

    Ascanio

    Introduzione

    Tracciare una mappa leggibile dei nuovi populismi può sembrare un’impresa disperata. Troppo variegato il profilo dei casi, troppo labili le identità culturali, troppo usurati gli stessi strumenti di analisi – elaborati per indagare e interpretare i partiti del Novecento – per pervenire a una facile sintesi. Ci si domanda persino se il gioco valga la candela. Eppure disporre di una rappresentazione aggiornata dei populismi possiede una sua utilità. Soprattutto per un Paese come l’Italia che, a fronte del collasso della cosiddetta Seconda repubblica, ha sperimentato il primo caso di una coalizione fra due forze classificabili come populiste. Forze, si badi bene, che si dichiarano pronte a riscrivere la Storia del Paese ma che rifiutano di considerarsi alleate: un così vasto programma affida la formazione dell’esecutivo che dovrebbe realizzarlo a un contratto notarile... Questa singolare intesa di lotta e di governo fra una forza che si colloca senza reticenze nella galassia della destra xenofoba continentale e un movimento neo-qualunquista, ispirato a una fantasiosa forma di democrazia digitale, segna un salto di qualità nel panorama dei populismi. Certamente l’antipartitismo cinquestelle e il sovranismo leghista rappresentano insieme il prodotto di una crisi di legittimità del sistema politico e un suo formidabile amplificatore. Lo stato nascente dell’esperimento del doppio populismo, che si consuma in Italia dopo le elezioni politiche del 4 marzo, si inscrive entro queste coordinate. Per paradosso, è l’irruzione dell’antipolitica a esigere una ridefinizione della politica nel tempo di ciò che, in mancanza di meglio, chiamiamo populismo.

    L’assenza non solo di un’ideologia condivisa ma persino di un comune sentire fra i populismi di governo costituisce, ad esempio, un’apparente anomalia. Idonea a convalidare un giudizio senza appello circa l’opportunismo e la logica di mero potere che presiede al contratto di governo, essa riproduce però un tratto genetico del populismo tout court. Secondo alcuni studiosi, infatti, esso non costituirebbe una configurazione politica da indagare in chiave storica o sociologica bensì piuttosto un codice culturale, un linguaggio antropologico, una forma espressiva. Il populismo non sarebbe un cosa, ma un come. Da qui la sua irriducibilità a forme tradizionali di conflitto sociale e di opposizione ideologica (borghesia/proletariato, destra/sinistra, conservatori/progressisti). O meglio: al conflitto identificabile in concreti interessi materiali e in forze sociali mobilitate – la cui genesi storica si associa all’industrializzazione e alla nazionalizzazione fra XIX e XX secolo – le narrazioni populiste sostituiscono una diversa sequenza di opposizioni. Le nuove polarità antagonistiche – noi-loro, alto-basso, popolo-casta (élite) – rispondono a una diversa grammatica della politica e non sono riconducibili ad alcuna categoria sociologica tradizionale, come quella di classe (conflitto industriale) o di nazione (nazionalismi identitari). Liberi dai vincoli opprimenti delle ideologie e delle coerenze, refrattari alla loro sintassi, i populismi del presente si identificherebbero insomma con la narrazione di sé: uno story-telling del risentimento che periodicamente riemerge come un torrente carsico scandendo le transizioni sociopolitiche della storia politica contemporanea.

    Le sfide della globalizzazione, l’innovazione tecnologica che ha trasformato il mercato del lavoro a scala planetaria e creato un inedito e sconfinato circuito di comunicazione e le dinamiche migratorie prodottesi a cavallo fra XX e XXI secolo rappresentano scenari da cui nessuna analisi a scala macro può prescindere. I nuovi populismi non sono un prodotto automatico di questi processi epocali, ma ne rappresentano sensori importanti e tentativi di risposta. Uno scenario tanto frastagliato rende problematica una definizione unitaria del fenomeno, ma è possibile almeno individuarne i tratti ricorrenti. Fra questi (i) il nuovismo, che tende a descrivere i movimenti populisti come veicolo di innovazione, anche quando riproducano idee stantie e antichi stereotipi; (ii) la diffidenza o il rifiuto per le ideologie edificate attorno a un sistema di pensiero forte; (iii) una svalutazione del ruolo e della funzione dei corpi sociali intermedi. Ricorrente, ma non peculiare dell’esperienza neo-populistica, è anche la figura di un leader che fa discendere il proprio carisma da una volontà generale maldestramente riferita, in qualche esempio di casa nostra, al pensiero di Jean-Jacques Rousseau.¹

    È anche possibile, tuttavia, rovesciare la prospettiva. Se i populisti si servono della demonizzazione delle élite e dell’allarme sociale per catturare consenso, l’opinione pubblica usa il populismo per dare voce alla rabbia. È per questa via che si sono costruiti in Paesi come la Russia di Putin, l’India di Modi, l’Ungheria di Orbàn o la Turchia di Erdogan la rappresentazione politica delle democrature, l’aberrante ossimoro delle democrazie illiberali e un riemergente culto del Capo.

    La volatilità del comportamento di voto, l’astensionismo crescente, il declino della militanza politica rappresentano indicatori empiricamente verificabili della crisi di legittimità e rappresentatività che anche nelle democrazie mature spiana la strada alle avventure populiste. Con esiti e sviluppi non lineari. In alcuni contesti i populismi di governo tendono a istituzionalizzarsi promuovendo però una torsione autoritaria della democrazia parlamentare.² Dove l’offerta politica è innovativa (Macron in Francia) il populismo pare in un primo momento arretrare ma presto il disincanto confluisce nella disaffezione elettorale o in un pulviscolo di rivendicazioni localistiche o micro-corporative. Un quadro per nulla omogeneo e coerente.

    A fare argine ai populismi del Novecento, del resto, è stata la forma storica del partito di massa, modellato su una rappresentazione solida della società, che produceva un conflitto dicotomico ancorato a precise e identificabili categorie sociali (la classe operaia, la borghesia; i conflitti fra Stati e Nazioni). L’Italia ha rappresentato nella seconda metà del Novecento un caso esemplare di insediamento sociale diffuso e persistente dei grandi partiti di massa. Ne erano protagoniste una forza egemone interclassista (la Democrazia cristiana) e un’opposizione insediata nelle classi popolari (il Pci). Entrambe avrebbero concorso, con ruoli diversi, alla stabilità della democrazia repubblicana. Questo equilibrio si è rotto agli inizi degli anni Novanta. Tangentopoli ha scandito l’inizio della fine della Prima repubblica. L’avventura berlusconiana e il complessivo ridisegno del campo politico nazionale hanno annunciato e per alcuni aspetti anticipato le insorgenze populistiche agli albori del XXI secolo. È in tale cornice che si colloca, senza pretese di esaustività, questo itinerario nella stagione di stato nascente dei populismi di lotta e di governo, fra il voto politico del marzo 2018 e l’autunno dello stesso anno. Si cercherà di sviluppare alcune riflessioni in riferimento alla letteratura sul tema, privilegiando gli aspetti salienti del caso italiano e isolandone le specificità in vista di possibili ulteriori approfondimento e aggiornamenti. Nella consapevolezza che l’Italia ha rappresentato più volte – nel bene o nel male – un laboratorio di sperimentazione della politica europea, si cercherà anche di verificare se, e in che misura, il nostro caso nazionale costituisca un potenziale idealtipo di una trasformazione della politica contemporanea. O se non vada invece ridimensionato a sintomo ed epifenomeno di una delle ricorrenti crisi di adattamento che scandiscono le transizioni dei sistemi politici.

    N.R.P.

    Il testo qui proposto rappresenta una rielaborazione e un aggiornamento degli articoli dedicati a Populismo e populisti, comparsi a mia firma sul blog www.spazioliberoblog fra il 29 dicembre 2017 e il 31 agosto 2018. La bibliografia si riferisce alla produzione scientifica consultata, mentre gli articoli comparsi su giornali, riviste o pubblicazioni specializzate sono sempre citati in nota.

    Un’ideologia del risentimento

    Quello che convenzionalmente definiamo populismo rappresenta un idealtipo di non facile definizione. Esso va declinato preferibilmente al plurale: esiste infatti un astratto genotipo (il populismo come un astratto modello politico-culturale), ma solo i suoi fenotipi (i populismi) possono essere analizzati con gli strumenti della scienza politica, della storia e della sociologia. Nel corso del Novecento governi populisti si sono insediati al potere in numerosi Paesi, anche appartenenti all’area europea e mediamente sviluppati. Una certa storiografia distingue perciò fra populismi radicali, dominati dalle ragioni della testimonianza e mai pervenuti al potere (l’archetipo potrebbe essere rappresentato dai narodniki russi del XIX secolo), e populismi che hanno dato vita a concrete esperienze di governo. Fra questi si possono collocare quei regimi, ammantati di retorica libertaria ma spesso repressivi nell’esercizio del potere, che hanno caratterizzato quasi tutti i sistemi politici latino-americani a partire dal 1810, quando ebbe inizio il collasso della potenza coloniale spagnola nelle Americhe. Nel corso del Novecento il peronismo argentino, per un verso, e il castrismo cubano, per un altro, hanno rappresentato casi esemplari in cui si mescolavano nazionalismo e antimperialismo, rivendicazione giustizialista e pulsioni rivoluzionarie, culto del leader e terzomondismo. Anche fuori dal continente americano, tuttavia, le insorgenze populiste hanno intercettato istanze di modernizzazione autoritaria e tentato di governare i processi sociali indotti dalla decolonizzazione. Modelli che è problematico applicare ai Paesi occidentali di democrazia matura, dove il nuovo populismo – nelle sue diverse configurazioni – sembra associarsi piuttosto alle incertezze indotte dalla globalizzazione, agli effetti della lunga crisi economica innescata nel 2008 dal crollo di Wall Street e all’impatto delle dinamiche migratorie.³ Nella maggior parte dei Paesi dell’area Ue l’avanzata elettorale delle forze populiste e xenofobe nella seconda decade del Duemila si configura come relativamente omogenea per consistenza elettorale e sequenza temporale. Ciò ha indotto diversi studiosi a concentrarsi sulle strategie comunicative dei movimenti, che la rivoluzione digitale avrebbe uniformato non senza produrre inedite forme di interazione con i media tradizionali.

    Il sociologo e psicoanalista argentino Ernesto Laclau (2005), in particolare, ha proposto una lettura del fenomeno orientata a valorizzarne le potenzialità di rigenerazione della democrazia piuttosto che a demonizzarne ruolo e finalità. La sua attenzione si è concentrata sulla figura dei leader e sul lessico da loro impiegato. Il populismo costituisce infatti, agli occhi di Laclau, un gigantesco gioco linguistico dominato da figure eponime (i capi) e da alcune ricorrenze, come la cultura del sospetto, che permettono di accreditarsi come coloro che svelano le verità taciute alle masse dalle élite (la casta nella versione italiana). In questa opera di disvelamento, che evoca le culture sciamaniche, consiste la missione palingenetica dei leader populisti. La comunicazione populista non riposa del resto sull’argomentazione razionale bensì sull’eccitazione del risentimento. Non di rado fa ricorso alla teatralità del leader per veicolare i propri contenuti.⁴ Nell’antagonismo noi-loro, l’autoproclamatosi popolo non coincide più con la classe o la nazione, come per le ideologie del Novecento, bensì con gli umori viscerali e mutevoli covati da un attore sociale indistinto. Il loro non si identifica soltanto con la mefitica cupola del potere politico, ma anche con le élite scientifiche, economiche, intellettuali, giornalistiche. Una sorta di Spectre dal profilo sociologicamente indefinibile che avrebbe come sola ragione sociale la preservazione dei propri privilegi attraverso l’occultamento e/o la manipolazione della verità. Questa narrazione a tinte paranoiche accomuna l’indulgenza cinquestelle per i deliri no vax e il sovranismo anti-europeista in cui si è riciclata la fiction del secessionismo padano. Il corollario di questa anomala rappresentazione del conflitto sociale è che all’opposizione destra-sinistra si sostituisce quella alto (dove abitano le caste)-basso (dove giace il popolo calpesto e deriso).

    Il nuovo populismo matura nella crisi dei vecchi paradigmi ideologici, rendendoli inservibili proprio perché mutano gli attori e le dinamiche del conflitto. Non è più questione di aggiornamenti o parziali revisioni. Se la sinistra si ostina ad applicare all’universo sociale del XXI secolo le categorie interpretative elaborate per spiegare il XIX e se la destra cerca rifugio nelle nostalgie identitarie o nel neoliberismo economico, la sfida potrà volgere a favore della cultura populista, intrisa di paranoia, socialmente interclassista e ideologicamente amorfa. Certo: insieme alla vecchia dialettica destra-sinistra, non potrà cancellare quel bipolarismo tendenziale fra chi ha e chi non ha, fra chi crede nelle potenzialità dello sviluppo e chi predica la decrescita felice, fra chi continua ad assegnare una valenza positiva all’idea di progresso e chi vi oppone il ripiegamento nella tradizione o nella filosofia del piccolo è bello. Talvolta pare addirittura affiorare un’ispirazione totalitaria nella visione del mondo dei nuovi populismi. Totalitaria nel senso letterale del termine, in quanto identificazione di sé stessi con il tutto e drastica contrazione del discorso pubblico a opposizioni elementari (noi-loro, popolo-élite, alto-basso). Visione allo stesso tempo debole, permeata com’è dalla convinzione che le tecnologie della persuasione digitale possano surrogare qualsiasi forma di sistematicità, avere ragione di vincoli e

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