Il cappello al chiodo
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Info su questo ebook
Questa è la storia di un uomo che ha saputo non solo mettersi in gioco, ma anche affrontare gli alti e i bassi di una vita che mai avrebbe pensato di intraprendere. È una storia, soprattutto, di perseveranza e impegno, sudore e costanza, lacrime e coraggio. Una vita, raccontata senza fronzoli, di una lunga strada fatta di incredibili successi costruiti nell’arco di anni e che, da un momento all’altro, hanno rischiato di essere distrutti e annullati, ma di fronte ai quali non si è persa la speranza nel futuro.
Roberto Scipioni nasce ad Albano Laziale nel 1942. Dopo una carriera durata vent’anni nell’Aeronautica Militare, cambia totalmente versante e inizia una nuova vita nel mondo pubblicitario, per poi occuparsi della nascente industria delle televendite, dove riscontra enorme successo. Varie vicissitudini lo portano, infine, a dedicarsi al mondo immobiliare, in cui tutt’oggi lavora.
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Anteprima del libro
Il cappello al chiodo - Roberto Scipioni
Roberto Scipioni
Il cappello al chiodo
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-4567-1
I edizione dicembre 2023
Finito di stampare nel mese di dicembre 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Il cappello al chiodo
Dedico questo libro ai miei figli, Nathalie ed Emanuel. Ho avuto da loro sempre grandi soddisfazioni sia scolastiche (si sono laureati brillantemente l’una in architettura l’altro in scienze politiche) che lavorative (in quanto entrambi inseriti in attività di rilievo) ed affettive, dimostrandomi grande comprensione e partecipazione.
La dedica va anche alla mia compagna Manuela, che ha saputo seguirmi nel bene ed ancor di più nel male della mia esistenza, trovando sempre in lei un punto di riferimento preciso e collaborativo.
Capitolo 1
Frammenti d’infanzia
10 maggio 1942.
Le verdi acque del lago di Albano Laziale riflettono il profilo di un pacifico paese dei Castelli Romani. Un luogo che assiste, dai suoi quattrocento metri sopra il livello del mare, allo srotolarsi della storia di fronte e sotto di sé da duemila anni: da quando, dall’altra parte del lago, sorgeva la mitica capitale latina di Alba Longa.
Da tre anni quello svolgimento si è fatto frammentato, ondulato, crepato: la Seconda Guerra mondiale sta sconquassando l’ordine delle cose, agitando il sentiero su cui gli eventi della storia camminano. Ma, di lì a poco, Albano avrebbe smesso di essere testimone per diventare, come tante altre città, tanti altri paesi, tante altre vite, sacrificio sull’altare della guerra, delle bombe e della follia umana.
10 maggio 1942. Mia madre, dandomi alla luce, spera di donarmi un futuro lontano da quella guerra infame che prosegue ormai da tre anni. Una speranza che le dona la forza di superare i crampi della fame e l’inquietudine di una sensazione di crollo imminente, di una tempesta e di nubi nere che dall’orizzonte lentamente si avvicinano fino a sovrastare tutto e a rendere il mondo grigio e sporco.
Una speranza vana.
Nemmeno due anni dopo Albano viene colpita, come gran parte della regione, dai bombardamenti delle forze alleate. I rifugi diventano una seconda casa, mura anonime e fredde si trasformano in un alveo di precaria sicurezza mentre all’esterno il sibilo delle bombe anticipa, come un lampo prima del tuono, il tremolio della terra.
Passai così i miei primi mesi di vita, tra la mia casa in quel paese un tempo pacifico e i rifugi antiaerei. La scarsità di cibo costringeva mia madre a nutrirmi quasi esclusivamente di latte materno; un latte avvelenato dalla paura delle bombe, dalla preoccupazione per il presente e per il futuro, dalla salute del suo bambino. Quel latte inquinato, quella paura liquida, mi arrecò un’infezione purulenta, uno sfogo di pustole e cisti che richiesero l’intervento di un medico, il quale incidendomele segnò indelebilmente la mia pelle.
Da Albano scendiamo verso la capitale. Roma presentava delle zone rimaste intatte e intoccate dagli aerei alleati, che avevano graziato tra le altre la centrale piazza Cavour. Fu lì che ci insediammo, prima presso un nostro parente e successivamente per conto nostro. Benché in lontananza si sentissero i fischi delle bombe e si intravedessero nubi di polvere ergersi dalle macerie, la vita sembrava proseguire tranquilla, e i ricordi che conservo di quegli anni sono felici, addirittura spensierati. Mi tornano alla mente le colazioni al bar, quando chiusi tra le mura del locale lucidato a nuovo sembrava di essersi teletrasportati in un altro luogo e un’altra epoca, e le passeggiate serene tra le vie del centro.
Quel periodo di pace fu interrotto dalla sopraggiunta necessità di tornare ad Albano: mia madre viene colpita da un’infezione all’orecchio. Il medico che la operò, non potendo chiudere la ferita, le diede un consiglio ormai andato fuori moda, ma un tempo usato a mo’ di panacea, una terapia sempre efficace: Andate a vivere dove c’è dell’aria pulita
. Lo sporco del mondo, creato dall’uomo, doveva essere compensato dal pulito della natura; l’essenziale era riequilibrare gli umori, riacquistare quel verde già allora perduto per mano umana e far sì che coprisse il grigio della polvere e dell’inquinamento.
Tornati nel paese d’origine si pone il primo ostacolo nella vita del piccolo uomo: la scuola. L’incontro iniziale tra me e quel mondo, colorato del bianco e del nero delle tuniche delle suore, non fu dei migliori: benché dimostrassi grande intelligenza, una spigliatezza intellettuale e una notevole perspicacia, i voti che ricevevo erano del tutto insufficienti: venivo dipinto come un ragazzo dalla distrazione facile e dal cattivo profitto, un marchio, a quel tempo, che poteva essere molto difficile da togliere. La svolta ci fu quando i miei genitori compresero che il mio problema non era l’essere disattento, ma l’essere miope: non leggevo nulla di ciò che veniva scritto sulla lavagna. Com’è immaginabile, un impedimento del genere tranciava in partenza le mie chance di applicare le mie potenzialità. Una volta acquistati degli occhiali, il mondo finalmente nitido e chiaro, il mio fisico e la mia mente si ritrovarono di pari passo, e ciò mi permise di scalare in fretta la vetta di migliore della classe. Nel giro di qualche anno diventai il prediletto delle insegnanti, una delle quali arrivò a dire che le lezioni di italiano che svolgeva avevano senso solo perché c’ero io in classe.
Il tempo della scuola si alternava, pur nella tragicità postbellica e delle distruzioni causate dai bombardamenti e della povertà, al tempo del gioco e dello svago, che tra le strade in macerie e i palazzi crollati trovava sfogo in passatempi che oggi possono apparire banali, ma che sfruttavano ciò che quella stessa distruzione regalava: uno di questi passatempi consisteva infatti nel semplice lancio dei sassi che derivavano dai resti delle strade e delle case, a cui io e i miei amici d’infanzia aggiungemmo un pizzico di competizione, trasformandolo in una gara a chi lanciava più lontano. Poco tempo passò prima che, per puro caso, uno di noi colpì in pieno una bambina che per sfortuna si trovava a passare lì vicino; lo spavento che ci prendemmo fu enorme, timorosi anche dell’ira dei nostri genitori e di quelli della malcapitata, tanto che dopo l’incidente non uscimmo di casa per giorni. O, ancora, ricordo le gare con le carriole fatte con i cuscinetti a sfera, su cui ci immettevamo e ci lanciavamo giù dalla collina, costruite con l’aiuto dei nostri genitori; in una di queste scapicollate corse mi feci male ad un dito e mio padre, furioso, mi distrusse la carriola: una tragedia per me, dal momento che questa costituiva lo strumento di gioco più importante. La