Il sesso degli angeli
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Francesca Guerin nata nel 1985 vive a Trento, dove lavora come responsabile in un’azienda del settore terziario. Ama l’arte, i tarocchi, i viaggi in moto e al momento studia per diventare counselor olistico.
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Anteprima del libro
Il sesso degli angeli - Francesca Guerin
Francesca Guerin
Il sesso degli angeli
Il sesso degli angeli
Capitolo primo
Chi ero?
Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi
.
Cesare Pavese
È strano come a volte proprio ciò che appare insignificante e privo di peso resti impresso nella memoria più a lungo. Ero ancora molto piccola, ma ricordo bene le sensazioni che provavo quando mi guardavo attorno. La mia fantasia era libera e forte, si nutriva di luce e bellezza. Rimanevo estasiata davanti all’intensità dei colori e alle vibrazioni del mondo che mi circondava. Il verde acceso delle foglie di un albero, il loro movimento armonioso al primo cenno di vento, lo stesso albero in inverno completamente spoglio e apparentemente dormiente. La forma delle nuvole e le loro trasformazioni.
Cercavo in tutti i modi di fare mio ciò che era il mondo. Tentavo di decifrarne i misteri attraverso gli occhi di una bambina, ma con lo spirito di qualcuno decisamente più anziano, dicendomi che un giorno avrei conosciuto anch’io quella perfetta armonia in cui tutto è bilanciato, pacifico e naturale.
Avevo all’incirca cinque anni quando mi sono sorpresa a osservare me stessa e gli altri, domandandomi se i loro bisogni e le loro questioni interiori fossero simili ai miei. Ragionavo su di me, sulla mia famiglia, sul senso delle regole, sugli equilibri delle relazioni e, strano a dirlo, sul senso della vita, in particolar modo la mia.
Chi ero? Sono stata una bambina poco bambina, anche se con una socialità che si può definire normale: rapporti normali, atteggiamenti normali. Ciononostante covavo nel profondo un senso di irrequietezza che per molti anni non avrebbe avuto un nome. In un futuro che era ancora lontano da immaginare avrei dato delle risposte a quelle domande, avrei dato un senso a tutto ciò che ho vissuto, e mi sarei posta ben altri interrogativi.
Il bisogno di condivisione è stato il motore della mia vita. Da sempre ho avvertito la necessità di confrontarmi con le altre persone, convinta che, così facendo, avrei potuto comprendere più a fondo me e il mondo che mi circondava. Mi incalzava sempre la stessa urgenza: il bisogno di dare un senso a ogni cosa, una risposta a ogni domanda.
I primi con cui l’ho sperimentato, naturalmente, sono stati i miei genitori. Non avevo una famiglia numerosa. I nonni paterni non li ho mai conosciuti. All’epoca non avevo nemmeno fratelli o sorelle, di conseguenza i rapporti stretti erano quelli con i miei genitori e con i nonni materni. È con loro che ho trascorso gran parte dell’infanzia.
Il senso di solitudine è stato un amico conosciuto presto e mi ha accompagnato fino all’età adulta. Siamo stati inseparabili, io e lui, compagno silenzioso e fidato, che non mi abbandonava mai. È stato un carceriere tenace, in grado di creare un legame difficile da spezzare.
Sentivo di essere nata in una bolla, che in qualche modo mi isolava dal resto del mondo. Ci sono cresciuta, mi ci sono trasformata all’interno, mi apparteneva. Nonostante avessi una famiglia presente, amici, socialità e comunicazione aperta, la sensazione di essere fuori luogo e molte volte fuori tempo è stata una costante durante la mia vita.
Al contrario di ciò che si possa pensare, sono cresciuta immersa nell’amore di due genitori che mi hanno dedicato la loro vita, due persone completamente diverse, che hanno lasciato eredità completamente diverse.
La persona più astratta e controversa che abbia mai conosciuto è stata mio padre. L’ho spesso associato ai personaggi dei libri di avventura. Nella mia visione personale era Sandokan, il Capitano Nemo, poi un poeta, uno scrittore. Più avanti sarebbe diventato un personaggio pirandelliano, come il protagonista di Uno, nessuno, centomila.
È stato una grande fonte di ispirazione per me, ma anche un padre distante. All’epoca non ero in possesso delle informazioni e degli strumenti adatti per comprenderlo, ma riconoscevo bene i suoi chiaroscuri e percepivo i fantasmi con i quali conviveva. Mi ha tenuto fuori da gran parte del suo mondo, probabilmente per proteggermi o per proteggere sé stesso. Non lo saprò mai. Intrappolato in una solitudine che odorava di depressione, mi ha lasciato l’anno scorso. Se n’è andato in pace, in un silenzio che nel tempo ho imparato a conoscere.
Ho sempre parlato tanto con lui, mi confidavo, ho condiviso molto di me stessa. E tutto questo sempre con naturalezza e spontaneità. Per anni mi sono rammaricata del fatto che non ricambiasse nel modo in cui avrei voluto, nel modo in cui mi sarei aspettata, rendendomi conto solo da adulta che invece l’ha fatto. Ho compreso che mi ha regalato molto per cui essere grata. Semplicemente, l’ha fatto a suo modo, attraverso canali che erano diversi dai miei.
Le sue espressioni più vere le ha trasmesse attraverso la scrittura. I suoi scritti erano vibrazioni d’anima rivolte al mondo. Ne ho letti molti. Altri, invece, erano custoditi gelosamente e non ho mai voluto violare la sua intimità. Grazie a lui non provo vergogna nell’esprimere le mie emozioni. Rido e piango senza mai nascondermi, seguo l’onda di ciò che sento nel modo più completo, senza limiti, senza controllo, senza giudizio.
L’amore che mio padre mi ha donato non era fatto di grandi gesti e iniziative. Talvolta penso che non sia stata tanto l’esplorazione del mondo esterno a lasciare traccia in me, quanto ciò che abbiamo ottenuto negli spazi condivisi del nostro mondo interiore. La parte nascosta e fragile di entrambi ci ha uniti.
Mio padre lo ritrovavo negli abbracci forti e quasi soffocanti, negli sguardi orgogliosi, negli occhi scuri ed emozionati, nella voce calda mentre leggeva meravigliosi libri per farmi addormentare.
Ho compreso che l’amore ha varie forme e molti modi diversi di manifestarsi. Non esiste un modo giusto o sbagliato di amare. Ognuno di noi esprime ciò che ha come può, con intensità e modalità diverse, e in questo non ci può essere giudizio. A mio padre devo la mano che sta muovendo questa penna, strumento tanto potente per me come lo è stato per lui.
Mi piace immaginare che in qualsiasi dimensione si trovi, in questo preciso momento stia sorridendo, ebbro di felicità per la sua bambina che sta esprimendo sé stessa allo stesso modo.
Il rapporto con mia madre è stato diverso sotto vari aspetti: totalizzante, un punto cardine nella mia vita. L’ho sempre considerata una vera mamma, nata per essere madre e vissuta come madre. In lei albergava tutto ciò che ci si possa aspettare da una figura materna: amore incondizionato, dedizione completa, comprensione, accoglienza, presenza, spirito di sacrificio.
Da sempre mi sono sentita messa al primo posto. Non avrei fatto nulla che potesse deluderla, nulla che avrebbe potuto farmi perdere la sua fiducia, nulla che avrebbe potuto farmi perdere il suo amore. Non pretendeva niente da me: né ottimi voti a scuola, né comportamenti di un certo tipo. Non ha mai imposto regole troppo ferree, tantomeno il suo pensiero. Mi sono sempre sentita libera di scegliere le mie frequentazioni, amicali e non, il mio percorso di studi e poi quello lavorativo, la direzione in cui volevo andasse la mia vita, la piena espressione di ciò che desideravo. Nessuna pressione, nessuna pretesa, nessun conflitto.
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