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Il passato addosso
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E-book78 pagine1 ora

Il passato addosso

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Info su questo ebook

Quando nasce, una storia d’amore sembra destinata a durare per sempre. Tutto è perfetto, compresa la persona che si trova al nostro fianco, e se non lo è, basterà il nostro sentimento cieco a renderla tale.
Per tanto – troppo – tempo, anche Carla si è convinta di aver trovato il vero amore e ha sopportato anni di ingiustizie e violenze di ogni tipo.
Finché non ne ha avuto abbastanza.

Carla Girelli nasce a Latina e vive in Sardegna. Laureata in Scienze Storiche, è di professione Geometra. Tra i mille impegni lavorativi e di volontariato, si dedica alla scrittura, sua più grande passione. Ha già pubblicato Un inferno da non dimenticare: Curragghja 1983 e Frammenti di Vite, quest’ultimo ospite al Salone Internazionale del Libro di Torino 2023.
Il passato addosso è il suo primo romanzo, edito da Europa Edizioni; ispirato dalla sua esperienza per aiutare chi ancora non ha trovato la forza di farsi avanti e denunciare l’orrore che spesso si nasconde proprio tra le mura domestiche.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2024
ISBN9791220151306
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    Il passato addosso - Carla Girelli

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    Carla Girelli

    Il passato addosso

    © 2024 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-4852-8

    I edizione febbraio 2024

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Il passato addosso

    "Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio

    e se ne rende degno"

    (F. Dostoevskij)

    Una spina non è mai la prima

    e non sarà mai l’ultima.

    Un’altra e un’altra ancora

    fino a frantumare le poche certezze

    di una vita che conosciamo solo nella teoria,

    nel silenzio assordante di una società

    che guarda, ma non agisce.

    Avvolte dall’oblio di una stanza vuota,

    assaporando lacrime consolatorie,

    le donne, rose di maggio,

    assuefatte da quella salsedine,

     raggomitolano la loro esistenza

    dietro un sorriso che tutti pretendono,

    ma che solo gli occhi possono smentire.

    Fino a cadere la sera,

    su sguardi fragili come carta velina,

    sulla mente che continua a chiedersi

    qual è il peccato nella pienezza del cuore.

    Almeno il torpore soporifero della notte

    permette alle donne, rose di maggio,

    l’illusione di una leggerezza dell’animo

    che l’esistenza c’impedisce.

    Cosa c’è di male nel voler vivere

    senza sentirsi soffocare

    da un amore pieno di spine?

    1. L’inizio della fine

    - Ho fatto il cambio di residenza. Questa volta è andata bene. Hanno fatto poche domande.

    Mamma: - Bene. Ora devi chiamare il fabbro e far sistemare il portone di sotto, perché lo sai che adesso lui lo verrà a sapere dove abiti.

    Silenzio. Ma di quel silenzio che si può sentire nelle orecchie per quanto pesa. Perché ogni volta è la stessa storia. Ogni volta ti illudi che il tuo passato non ti viva accanto nel presente. Invece è lì a condizionare tutto quello che fai e decidi di fare. Anche un semplice cambio di residenza viene procrastinato di giorno in giorno, per riuscire ad assaporare il più possibile quella sensazione di libertà. Perché non avere paura di quello che trovi fuori al portone è un privilegio. Non vivere con la costante inquietudine di doversi guardare le spalle perché oggi potrebbe essere il giorno "giusto". Il giorno in cui lui manterrà la sua promessa e commetterà il troicidio, come lo definisce. Lo ha annunciato sui social che potrei trasferirmi anche in capo alla Luna, ma che la sua vendetta prima o poi arriverà. La sua "operazione Isis" l’ha definita. Me lo ha giurato tante volte. E se gran parte di me ha sempre risposto - Meglio sotto terra che al tuo inferno-, la morte fa paura a tutti, e a volte la senti più vicina.

    Ricordo che la certezza che questa storia stesse volgendo vorticosamente verso un brutto declino l’ho avuta una notte di fine settembre. Degli anni ho perso il conto. Ero a casa mia, mia e delle bambine. La prima delle tante, perché quando hai paura non riesci mai a sentirti al sicuro e diventi una gitana. Ma la prima era quella che preferivo: aveva i soffitti alti, era luminosa e con un camino all’angolo del soggiorno che emetteva calore anche da spento.

    L’avevo affittata mesi prima di riuscire effettivamente ad abitarla, appena nominata l’avvocato per la separazione. Era l’Otto Marzo. No, la data non era stata scelta a caso.

    Lei, però, mi sconsigliava di abbandonare il tetto coniugale prima dell’udienza di omologa.

    - Non dobbiamo irritarlo - era l’imperativo.

    Bisognava cercare di non provocarlo, di non parlare mai della separazione mentre si era da soli con lui, e guai a minacciare denunce. Nemmeno quando alzava le mani. Nemmeno quando, sdraiata sul divano e la bambina addormentata sul petto, ti dava i pugni sulla testa. Silenzio e religiosa attesa.

    Quella casa era stata quindi preparata in sordina, con amore e sacrifici. Nelle giornate in cui capitava che lui lavorasse fuori sede, portavo già le bambine a trascorrere del tempo lì e loro non vedevano l’ora. Un giardino segreto insomma, dove sognare di ricominciare una vita normale. Invece, dopo pochi giorni dall’agognato trasferimento, ebbi la prova che il patriarcato non accetta mai una sovversione delle convenzioni, e cerca sempre di ribadire chi comanda davvero.

    Era tardi e doveva riportarmi le bambine dal pomeriggio infrasettimanale trascorso con lui. Le aspettavo in strada, appena fuori dal portone. Inquieta. Avevamo messaggiato poco prima e lui non aveva ottenuto quello che voleva. Questa cosa lo aveva sempre mandato in collera, e sapevo che non mi aspettavano sorrisi al suo arrivo.

    L’ansia saliva sempre più. Perché la paura ti entra dentro, si fonde con le tue cellule e sembra quasi che respiri con te. Per quello la senti di più.

    Un boato della macchina mi indicò che era entrato nella via, perché tra mille Mercedes, la sua la riconoscerei subito. Mi passò davanti in accelerazione, inchiodando subito dopo e parcheggiando di traverso. Mi mancò il fiato.

    -È la fine - pensai.

    Rita, la figlia maggiore, era con il naso attaccato al lunotto posteriore. E se credeva che i suoi occhi avessero visto abbastanza, si sbagliava.

    Lui scese come un fulmine dall’auto. Parlava a denti stretti, ma non lo sentivo distintamente. Ero troppo presa dai suoi occhi. Enormi. Iracondi. Di chi non ha nulla da perdere e quindi non ha più freni. Mi afferrò per le braccia, me le strinse lungo i fianchi e cercò di sollevarmi. Mi strattonava

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