La mia nudità arancione
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Un giorno, uno sconosciuto che si firma ‘Alexis’ gli scrive alcune lettere inserendole a mano nella cassetta della posta e gli propone un incontro in una fabbrica abbandonata.
Il ragazzo, con imprudenza dissennata, decide di andare.
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Anteprima del libro
La mia nudità arancione - Astro Edizioni
2.
Ah, figa
Pochi giorni dopo il blitz di Piero, i tic e gli scatti di Francesco sono nettamente peggiorati.
Allora consideravamo tic solo cose come l’alzarsi di una spalla o il sollevarsi di un angolo della bocca.
Chiamavamo, invece, scatti alcuni gesti strani e gridolini vari che mio fratello faceva, e fa tutt’ora, perché non sapevamo ancora fossero anche quelli dei tic.
Così come erano tic le volgarità e le bestemmie sparate ad arte, e non già l’espressione inspiegabile e incorreggibile di uno spiazzante caratteraccio.
«Ma per quale motivo devi bestemmiare Francesco?»
«Mi dispiace».
Qualcuno diceva: «È un bambino nervoso». Oppure: «È un bambino maleducato».
Ti faccio qualche esempio di gesto strano.
Stringere forte gli occhi in un’espressione come di dolore e, nello stesso momento, piegare la testa in basso e verso sinistra (una signora dava per certo che si trattasse di allergia alla polvere).
Un altro: chiudere la mano destra a pugno e urlacchiare un secco ah!
Un altro ancora: scalciare slanciando il busto in avanti, alla maniera degli atleti quando partono in una gara di corsa veloce.
Quest’ultimo tic non era e non è del tutto innocuo; infatti, se uno è disteso al tuo fianco e, allo sparo, che purtroppo solo lui sente, scatta con lodevole tempismo per il titolo regionale dei cento metri piani, possono essere dolori. Sono di regola a rischio soprattutto le gambe, la pancia, il pisello e le sacre gemelle o chi per loro.
Poco dopo la comparsa di Piero, come dicevo, i tic e gli scatti sono diventati più frequenti e più insidiosi, alcuni si sono trasformati, altri hanno fatto la loro entrata da esordienti assoluti.
La smorfia di dolore con flessione della testa aveva cominciato, se non sempre, quasi sempre, a essere accompagnata dalla protrusione della lingua (accidenti che scherzi può giocare l’allergia alla polvere): una bella lingua rossa sparata fuori per un secondo.
Pensi fosse una variazione da poco? Eppure, non ci sono paragoni: senza lingua protrusa il tic non creava problemi a nessuno, con la lingua protrusa il tic diventava devastante.
Prova a tirare fuori la lingua diverse volte di fronte a degli estranei e vedrai: occhi stralunati ti guarderanno sfuggenti oppure, altro stile, ti fisseranno a bocca aperta nell’ attesa che qualcuno, spuntando all’improvviso da dietro a una porta, un antropologo per esempio, dia la sua preziosa spiegazione e tranquillizzi cani e porci.
«Buongiorno, sono l’antropologo. Respirate con me e dite tutti insieme respiriamo con te. Non dovete avere paura, questo è un banale caso di lingua a cucù. La lingua a cucù non è presagio di malattia o di morte: potete girare la vostra testolina e occuparvi di altro. Tranquilli. Ok? Ciao».
In mancanza dell’antropologo, e l’antropologo non c’è mai, sai cosa sei? Sei un handicappato. Nella testa della gente uno che tira fuori la lingua ripetutamente e senza una ragione evidente, non può che essere un handicappato: non esistono altre ipotesi.
Anche il pugno con l’urletto aveva raggiunto nuovi livelli di stile.
Sai che a me il pugno con l’urletto è sempre piaciuto? Non so immaginare mio fratello che non lo fa più e non mi piace l’idea.
Ma com’era diventato il pugno con l’urletto versione advanced edition plus? L’urletto, advanced edition plus, era (ed è) immediatamente seguito dalla parola figa.
Ah, figa.
Immagina che festa. Per fortuna la versione base non è mai stata soppiantata del tutto.
Alcuni comportamenti, che non sembravano tic e neppure si potevano considerare strani, erano diventati molto più frequenti.
Per esempio, lo schiarirsi la voce o il flettere gli angoli della bocca verso il basso portando il labbro inferiore in avanti (per intenderci, l’espressione che esprime dubbio o perplessità). Però anche quelli erano tic.
Io consideravo l’espressione di dubbio un atto volontario di Francesco, e spesso mi pareva anche evidente il rapporto con un evento accaduto immediatamente prima o, semmai, con un pensiero.
D’altra parte, l’espressione di dubbio, secondo me, è sempre giustificata, quand’anche uno la faccia duemila volte al giorno. Potrebbe essere figlia di un unico dubbio che non si riesce mai a chiarire.
Tra gli esordienti assoluti: gli schiaffetti in faccia, per fortuna non fortissimi, auto inflitti; i pugni sferrati sul tavolo; il dito medio offerto al mondo senza avarizia.
Potrei continuare, ma mi fermo qui.
Il punto è che la vita di Francesco era diventata veramente molto complessa.
Quella strana energia senza regole, da vulcano in attività, che da sempre viveva dentro mio fratello sembrava correre verso la più catastrofica delle eruzioni.
Seppure con minore frequenza (e la minore frequenza può trasformare un inferno in un paradiso), posso dire che l’intera gamma di tic, vecchi e nuovi, è tutt’oggi disponibile a catalogo.
Sono stati gli allievi della quinta C (e non quelli della sua classe, la quinta B) i primi. Hanno cominciato a chiamarlo mongolo: il mongolo della quinta B. Il nome ha iniziato a girare nell’aria, risuonava come una presenza aliena, una minaccia continua.
«Non sono un mongolo», protestava Francesco in famiglia.
«Ovvio che non lo sei», dicevo io.
Un giorno la maestra di religione si è alzata dalla cattedra ed è andata fino al banco di mio fratello. Francesco aveva appena alzato il dito medio, anzi, pare lo avesse fatto diverse volte.
Più o meno questa la performance della reverenda: «Senti. Credo che non ci sia nessuno a darti una regolata, quindi, mi assumo la responsabilità e ci penso io: tu in classe la smetti di fare il cretino. Chiaro?», e gli ha mollato una sberla che ha lasciato dei segni ancora visibili il giorno seguente.
In realtà quella troia sapeva, e bene, che non ci sarebbe stato nessuno a dare una regolata a lei.
A quel punto, ci siamo messi a ragionare seriamente.
«Francesco, devi imparare, una volta per tutte, a controllarti. Perché non dovresti riuscirci?»
«Ma Nicola, è impossibile».
«Chi lo dice?»
«Io. È così».
«E se non fosse così?»
«Lo dice anche il mondo».
«Il mondo?»
«Sì, il mondo».
«Ho capito. Allora cerchiamo la maniera di migliorarci. Un po’ meno bestemmie, un po’ meno gestacci, un po’ meno linguacce. Va bene?»
«Va bene».
«Quindi, proviamo a capire come fare: in quali situazioni ti senti calmo e rilassato?»
«In quali situazioni mi sento calmo e rilassato?»
«Veramente la domanda l’ho fatta io, ora dovremmo cercare di rispondere».
«Quando canto».
«Quando canti?»
«Sì, se canto non faccio scatti».
«Fantastico. Mai?»
«Quasi mai. E anche se ascolto e ballo Caparezza».
«E se lo ascolti senza ballare».
«Forse anche così».
«Aspetta che ci appuntiamo tutto. Poi?»
«Quando faccio sesso».
«Cosa?»
«Quando faccio sesso».
«E cioè?»
«Pippe!»
«Ah be’, a questo punto abbiamo risolto: soprattutto in classe o in piazza, ora sappiamo quello che devi fare per eliminare gli scatti e diventare un finissimo gentleman».
Io e Francesco avevamo un piccolo lettore musicale con cuffiette che ci aveva regalato Sonia e un portatile un po’ vecchiotto con delle casse esterne che avevo recuperato nel 2008.
Per scaricare le canzoni ci connettevamo alla rete tramite Enrico21, che non aveva la password di protezione. E se non ce l’aveva ci sarà pure stata una ragione, mi sono detto. Ringraziavo ogni giorno lo sconosciuto Enrico ed ero certo che lui fosse contento e fiero di noi.
Cosa stavo dicendo? Dicevo che Francesco aveva cominciato, su mio suggerimento, a girare sempre con il lettore in tasca, pronto al bisogno. Funzionava? Non sempre, ma spesso sì.
Non poteva essere di grande utilità in quelle situazioni non compatibili con l’isolamento dal mondo delle voci; tuttavia, era una strategia da tenere presente.
Andavano bene diverse canzoni, le più potenti però erano quelle di Caparezza. A volte le ballavamo in casa insieme. Pensa che storia: io che ballo. D’altra parte, con Francesco riuscivo a fare cose che non avrei potuto fare con nessun altro essere umano.
«Ehi Francesco, cerca di capire perché Caparezza tiene lontano gli scatti, ok? Sarà la musica o saranno le parole?»
Io diventerò qualcuno.
Non studierò, non leggerò, a tutti voi dirò di no:
ecco perché diventerò qualcuno.
Se vuoi parlare un po’ con me ti devo addare al mio MySpace.
[Caparezza, Io diventerò qualcuno, 2008]
Con uno shuttle stiamo mandando cacca nello spazio
Meglio così, staremo più larghi, cacca nello spazio
Extraterrestri è in arrivo cacca nello spazio
Voi siete artisti, fate i cerchi nel grano
(E noi) noi cacca nello spazio, cacca nello spazio
Cacca nello spazio
[Caparezza, Cacca nello spazio, 2008]
Cari professori miei, io vorrei
Che in giro ci fossero
Meno bulli del cazzo e più gay
Più dreadlock e meno monclair
Più Stratocaster e meno DJ
[Caparezza, La mia parte intollerante, 2006]
Una sera abbiamo scoperto che anch’io, al pari di Caparezza, non scherzavo affatto come sistema anti-tic.
A tavola Francesco non la smetteva di fare il buffone in modo fuori norma anche per la sua norma: rideva sguaiatamente, mangiava comportandosi come un bambino di quattro anni, rispondeva alle richieste mie e di Sonia di smetterla prendendoci in giro.
Ho alzato la voce, ma non è servito a molto. Ho sbuffato. Poi ho pensato che ci dovesse essere una ragione: ogni comportamento umano è sempre una risposta a qualcosa. Povero fratellino: fare più confusione del solito poteva essere il suo modo di esprimere una fatica o un dolore.
Quasi certamente non era stata una buona giornata per lui. Allora mi sono alzato e gli ho afferrato la testa tra le mani. Era un gesto d’affetto, un tentativo di dargli pace.
Lui si è dimenato fino a liberarsi e gentilmente ha urlato: «Non mi rompere le palle!»
Quando a mani alzate sono tornato al mio posto, Francesco ha continuato con la sua rabbia, tuttavia, nell’arco di qualche minuto, si è calmato. Rimanevano però i tic, piuttosto vivaci, che ci hanno accompagnato fino in camera.
Ci siamo messi a leggere, ognuno nel proprio letto, ma nell’arco di pochi minuti, la rumba si è fatta pazzesca. Francesco ha cominciato a gridare e a scalciare: i tic giocavano con lui come fosse una marionetta nel cuore del suo spettacolo. Improvvisi, cattivi, prepotenti tic.
«Metto Caparezza?», ho chiesto.
Non ha risposto, ma dopo qualche secondo si è alzato, mi ha raggiunto a letto e si è steso a pancia in giù. Ha appoggiato la fronte sulla mia spalla destra, ha infossato il muso in ascella e ha biascicato, con la voce soffocata dal mio maglione ma tranquillissima: «Sto un po’ qui».
«Bravo», ho detto, poi ho mollato il libro che stavo leggendo per la terza volta, Cronache della galassia di Isaac Asimov, e gli ho stretto la testa con il braccio, come un pallone da rugby.
A partire da quel momento ci siamo goduti un lunghissimo e meraviglioso silenzio di suoni e di movimenti. Una magia.
Poi io ho cominciato a raccontare: «C’era una volta in un castello una principessa con belle trecce rosse e rosso pelo dappertutto che cercava un fidanzato di calibro garantito...».
Francesco, senza muovere di un filo la testa incastrata, ha portato lentamente una mano davanti ai miei occhi e, con grazia, mi ha mostrato a lungo il dito medio.
Non era un tic.
3.
Il bar Sole
Mio fratello maggiore non aveva più messo piede in via Corelli nelle settimane seguenti alla sua prima e unica visita a casa nostra. Era nuovamente scomparso, il che non ci dispiaceva affatto. Tuttavia, mia madre aveva iniziato a lanciarsi in acquisti del tutto fuori dalla nostra disponibilità economica: prodotti di marca come le scarpe Camper. Le conosci? Non ho fatto domande.
Una sera è rientrata con delle pietanze della rosticceria Bellucci, porzioni per tutti e più: rosette al prosciutto cotto, filetto di manzo al mascarpone e senape, gratin di carciofi, pancakes salati con zucchine, sbriciolata di ricotta e cioccolato. Ricordo tutte queste squisitezze perché non le avevo mai mangiate prima.
Ho chiesto a Sonia quanto avesse speso, ma lei non lo ricordava. Allora si è impegnata in una lunga ricerca dello scontrino che però non è saltato fuori.
Qualche sera dopo è rientrata a casa annunciando che saremmo andati a mangiare il fritto di pesce da Paolino, perché una cliente ne aveva parlato come di una esperienza che nessuno avrebbe potuto perdere. Conto: 47 euro. Quarantasette.
Durante la cena Francesco aveva dovuto mettere le cuffiette perché i tic erano diventati frequenti e aggressivi, in particolare si era messo a menare pugni sul tavolo sino a fare arrabbiare il tipo del ristorante.
Il fratellino era eccitato e teso, non essendo abituato a frequentare i ristoranti, ma una volta entrato nelle braccia della musica, si è talmente rilassato che è riuscito anche a mettere in scena una pacata battaglia tra gamberetti. L’ho guardato nero mentre tenevo sotto controllo l’ambiente.
Quando siamo rientrati a casa ho fatto sedere tutti in cucina.
L’aria preoccupata delle facce dei miei famigliari mi avrebbe sicuramente fatto ridere se non fossi stato preoccupato anch’io e più di loro.
«Mamma, mi dici per cortesia dove prendi i soldi?»
Lo stipendio di mamma finiva nel conto bancario e ogni tanto lo controllavamo insieme online; il bancomat era custodito in casa, il codice lo conoscevamo tutti e due e i prelievi per le spese di famiglia li concordavamo insieme e li facevo di solito io. Insomma, era chiaro che qualcosa non quadrava.
Lei ha sorriso imbarazzata e ha detto: «Vado in camera mia un momento». È tornata con una busta in mano.
Me l’ha allungata, ma io ignorandola ho scandito: «Mamma, mi dici, per cortesia ,dove prendi i soldi?»
«Me li dà Piero».
«Quando te li dà?»
«Me li dà quando viene a trovarmi in negozio».
«Ti sei chiesta lui dove li prende?»
«Sì».
«E?»
«Li guadagna onestamente lavorando in un bar».
«E tu ci hai creduto».
«Sì».
«Va bene, dimmi dove abita».
«È scritto tutto qui».
E così ho afferrato con calma e poca convinzione la busta, l’ho aperta e ho cominciato a leggere in silenzio, di fronte alla mia famiglia altrettanto silenziosa e immobile.
Ciao Nicola. Sono tuo fratello Piero. Ogni tanto vado a trovare mamma in negozio. Mi fa piacere vederla. Vorrei chiederti il piacere di continuare a leggere questa lettera che ho scritto per te.
Io vivo e lavoro a Chiesa, cioè non lontano da voi. Chiesa è piena di mossa e sempre più grande. Lavoro in un bar della zona industriale che si chiama bar Sole. Siamo in due, io e Alberto, che è anche un mio amico. Alberto è amico del titolare, Tommaso, che però da un po’ non lavora più perché sta male. Pensiamo noi a tutto e cerchiamo di fare bene. Il bar Sole è stato aperto da Tommaso nel 1992 ed è un bar da zona industriale. Si lavora molto, ma con degli orari strani, 5-16sabato e domenica chiuso.
Io e Alberto abitiamo in centro. Sopra al bar c’è un appartamento che è sempre di Tommaso e che utilizziamo noi. Se posso fare qualcosa per darti la prova che questa adesso è la mia vita, lo faccio molto volentieri. Vorrei potere continuare ad andare in negozio da mamma ogni tanto. A casa vostra non metterò più piede, stai tranquillo. Ti lascio l’indirizzo dove abito, l’indirizzo del bar e il mio cellulare così puoi fare anche delle verifiche.
Mi dispiace. Grazie. Ciao. Piero.
Sono rimasto un po’ a riflettere poi me ne sono andato in camera senza aprire bocca; quando Francesco mi ha raggiunto era in piena performance, tra scatti e versi di ogni tipo, sicché mi sono avvicinato a lui e gli ho dato tutte le spiegazioni del caso.
«Ho capito», ha detto, e poco dopo si è calmato.
Nei due giorni successivi non ho parlato della lettera di Piero con mamma. Sonia non mi chiedeva nulla; io, però, alla fine, ho dovuto prendere una decisione. Non credevo nei cambiamenti (o meglio, credevo che i cambiamenti fossero eventi molto improbabili) e pertanto non mi fidavo di Piero. Non mi fidavo, ma qualcosa dovevo pur fare? Sei d’accordo?
Martedì 12 maggio 2009, alle 14 e 30, dopo 45 minuti di autobus, sono sceso a una fermata periferica di Chiesa. Per raggiungere il bar Sole ho camminato circa mezz’ora. Una volta arrivato, ho guardato il posto per qualche minuto da fuori, mi sono chiesto se stessi facendo la cosa giusta, ma non avendo alcuna voglia di riflettere sulla domanda e darmi una risposta, sono entrato.
È bastata un’occhiata: ho sentito il gelo nella schiena. Avevo sperato che fosse tutto vero e invece eccomi a incassare il brutto colpo che temevo: dietro al banco c’era un signore anziano che avrà avuto sessant’anni.
Quando il signore ha inquadrato la mia faccia ha subito detto: «Tutto a posto, ragazzo?»
«Tutto a posto, grazie», e mi sono ripreso.
Il bar Sole è un bar piuttosto grande con alcuni tavolini esterni, sei, e alcuni tavolini interni, sempre sei. Il banco è a sinistra dell’entrata a tutta parete. Metà banco è occupato da vetrine e vetrinette. I tavoli e le sedie sono blu, come in Grecia (hai presente?). Le pareti sono bianche con numerosi quadri sparsi non molto grandi raffiguranti dei volti di bambini, donne, e uomini, quasi tutti con un’espressione seria, anzi: tutti.
L’ora di chiusura, le 16, era vicina. I tavoli erano tutti liberi mentre al banco c’erano due persone.
Quando il barista ha potuto, mi ha guardato di nuovo e ha detto: «Cosa posso fare?»
«Prenderei una bottiglietta di acqua minerale fredda e non gasata».
«Molto bene. La beviamo qui?»
«Sì, grazie».
«Limone?»
«Sì», ho detto, perché mi era parsa una buona idea.
«Lo spremo, così non è solo di facciata. Che dici?»
«Sì, la ringrazio», ho detto, perché mi pareva anche quella una buona idea.
Intanto, mentre il barista spremeva il limone nel mio bicchiere,