Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Seduti a tavola
Seduti a tavola
Seduti a tavola
E-book179 pagine2 ore

Seduti a tavola

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sofia, Marco ed Elisa sono fratelli. Sofia convive da circa un anno con una donna nel suo loft al centro di Roma, Marco ha appena scoperto di avere una terza figlia che vive in Brasile, Elisa è schiacciata dai sensi di colpa per la relazione che sta vivendo con il marito di sua sorella. È domenica 23 ottobre 2013. I tre ragazzi si preparano per il consueto pranzo familiare a casa dei genitori. Sembra un giorno come gli altri, ma non lo è affatto. Proprio durante quel pranzo hanno deciso di liberarsi dei propri segreti e fare finalmente chiarezza nelle loro vite, affrontando gli spettri del passato e le ansie del presente. Sono impauriti e determinati, ma non sanno che qualcuno parlerà al posto loro.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2020
ISBN9788835807148
Seduti a tavola

Correlato a Seduti a tavola

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Seduti a tavola

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Seduti a tavola - Evita Comes

    III

    Sofia

    23 ottobre – il giorno del pranzo

    Io non credo che essere innamorata di una persona possa creare dei problemi al di fuori della coppia. Rinunciare alla propria vita per qualcun altro ha qualcosa di sacro e non tutti hanno la capacità di farlo.

    Complimenti Sofia, che pensieri inutili! Anzi, che pensieri stupidi! Una persona innamorata non può creare discordia, dissapori o che dir si voglia? Sì, può tranquillamente rovinare l’esistenza al proprio prossimo: padre, madre, sorella, amica. E più ne sono consapevole, più mi sto logorando.

    Sono finita in questa impasse che mi corrode… giorno dopo giorno.

    Cerchiamo di razionalizzare, di guardare solo i fatti.

    Ho trent’anni, mediamente carina, sono il classico tipo mediterraneo: scura di carnagione, occhi marroni, capelli lunghi e folti.

    Ho un lavoro dignitoso, più che dignitoso… ho un lavoro fantastico! Lavorare presso una radio è il sogno di tantissimi, giovani e no. Non vado in voce per quel blocco che mi prende quando vedo quella luce rossa accesa on–air… mi scatena il panico. Così mi occupo dei contenuti, ma è altrettanto interessante.

    Vivo a Roma in un monolocale, che in realtà è più che altro un loft, completamente ristrutturato circa due anni fa.

    Quando l’ho affittato, non era niente di più che una vecchia panetteria con i tetti alti, reso abitabile dalla figlia del fornaio di via dei Gracchi. Oggi è la mia casa.

    Sono una tipa simpatica che soffre semplicemente di qualche disturbo comportamentale, forse una lieve sindrome bipolare, associata a una leggera meteoropatia, diciamo pure che sono borderline.

    Ma me la cavo. Nel senso che tengo a bada i miei mostri.

    Nonostante ciò, a prescindere da questa vita mediamente tranquilla e a tratti felice, divertente e se vogliamo spensierata, sono caduta in questa impasse. Come ho fatto non lo so, ma ormai ci sono dentro e in qualche modo devo uscirne e ho deciso che lo farò oggi! Mi siederò a tavola e con le parole più adatte, anzi con il linguaggio forbito che tanto la mia famiglia ama adottare in queste occasioni conviviali, dove si parla di politica e di temi esistenziali, dirò tutto.

    Oddio, dirò tutto.

    Dirò che ormai sono sei mesi che Cindy si è trasferita nel mio loft, che oggi sono la donna più felice del mondo – o quasi, comunque credo di esserlo – che tutte le mie nevrosi sono svanite o quasi… comunque credo che siano svanite.

    Insomma sto bene.

    Sono circa tre mesi che non vedo più il dott. Marciano.

    Il povero dott. Marciano. Mi ha chiamato più volte e lasciato messaggi sulla segreteria, gli ho risposto solo dopo quattro giorni e quando mi sono fatta viva, ha urlato per telefono che sono una pazza e che credeva avessi fatto un gesto folle.

    Poi per fortuna si è tranquillizzato e mi ha permesso di andare a trovarlo per l’ultima chiacchierata, come la chiama lui.

    Quindi, appena tornata da Lisbona, armata di impermeabile e motorino, mentre un temporale settembrino le tuonava di santa ragione, sono giunta per l’ultima volta al numero trentacinque di via di Ripetta.

    Quanti ricordi. Quel numero trentacinque. Quanto l’ho odiato. La prima volta a via di Ripetta avevo undici anni, mio padre mi aveva portata da Marciano perché a scuola avevo appiccicato una gomma da masticare tra i riccioli d’oro di Ilaria Carboni.

    Ilaria della sezione F si era permessa di rubarmi il fidanzato. Fu quando li avevo visti, mano nella mano durante la ricreazione, che avevo iniziato a covare la mia vendetta. All’uscita di scuola, simulando un improvviso gesto d’affetto, mi ero avvicinata alla povera, ignara Ilaria e le avevo accarezzato la folta capigliatura: nella mano avevo un chewingum sudicio e gonfio di saliva. A quel punto: spedita dal preside, chiamata a casa, punizione, ma soprattutto terapia.

    Ovviamente quella era stata l’ultima goccia, l’ennesima dimostrazione di un comportamento passivo–aggressivo. Così disse Marciano. L’odioso Marciano, che poi divenne l’amato e infine l’amico.

    Mentre facevo le scale che mi conducevano all’ultima chiacchierata, ho rivisto tutta la mia vita. Erano esattamente venti anni che entravo in quel portone di via di Ripetta. Lo studio di Marciano era stato senza dubbio la mia seconda casa, lì avevo passato tre ore a settimana, il lunedì e il mercoledì. Era un po’ come la palestra, quella mentale ovviamente. È stata la mia palestra mentale fino a quasi tre mesi fa, e adesso mi è rimasta l’acquagym. Come si dice, mens sana in corpore sano. Per oggi mi fermo al corpo, poi vedremo. Anche se, secondo me, la mens ormai è quasi sana.

    In realtà, io sto bene. La terapia sarebbe dovuta durare tutta la vita? Non credo proprio! Così mi sarei ritrovata a sentirmi pazza per davvero, anche se ci sono andata molto vicino. Sarebbe stata la mia rovina e non la mia salvezza.

    Comunque ormai quello che è fatto è fatto. Ho trent’anni e sono innamorata di una donna bellissima che mi ama a sua volta. Cindy mi ha salvata. Di certo non i miei genitori.

    E adesso, come se non bastasse, come se non mi avessero già abbandonata al mio destino, ancorata solo al dott. Marciano, ci si mettono di nuovo con il loro modo di pensare bigotto e quasi ottocentesco. Durante l’ultimo incontro Marciano mi ha detto: «Sofi cara, se non ti liberi da questo peso, imparerai a sopportarlo e arriverai perfino a giustificare tutte le tue paure. Devi farlo subito, liberati!». Forse l’occasione ideale arriva proprio oggi.

    Pranzo in famiglia e non un pranzo qualsiasi, quello della domenica.

    La mia famiglia. Ingombrante perché numerosa, affidabile perché ossessiva, terribilmente amabile e odiabile. Sei sopraffatto e poi sei solo, abbandonato. Occhi puntati su di te e poi espressioni di indifferenza, perché in fondo ognuno di noi ha la sua vita. Ho capito molto presto che dovevo iniziare a badare a me, in maniera sana e indipendente. E devo ammettere che non è stato facile. Infatti mi sono innamorata di Marciano, ma in realtà non era amore, era come se fosse mio padre, mia madre, i miei fratelli. Una follia. Marciano è stato molto bravo e a un certo punto ha capito quanto fossi persa e quanto avessi bisogno di ritrovare i miei punti fermi.

    Le ripartenze sono state tante, come il tossicodipendente che ci ricasca. Incontri sbagliati, tanti uomini sbagliati. Donne sbagliate meno, ma comunque sbagliate. Oggi finalmente ho l’occasione di azzerare tutto anche con la mia famiglia. L’ho già fatto nella mia vita e per me stessa, ma senza includere la mia famiglia non posso dire di essere arrivata fino in fondo.

    Ma torniamo a oggi, sono solo le sette del mattino e sento che sto per avere un attacco di panico.

    In realtà mi basta soltanto voltare lo sguardo verso di lei che mi dorme addosso. Guardarla persa nel suo sonno profondo mi tranquillizza. Sa perfettamente quello che mi aspetta oggi. Ieri sera è stata dolcissima, cenetta messicana io e lei, lo sa che adoro il messicano.

    Soprattutto che adoro mangiarlo dopo aver fatto l’amore.

    Elisa

    23 ottobre – il giorno del pranzo

    Tre etti di farina, due uova, duecento grammi di zucchero e un pizzico di sale. Sale? Sì, un pizzico di sale. È normale trovare un pizzico di sale nella ricetta di una torta al cioccolato? Forse c’è uno sbaglio o forse sono io talmente impedita che di ricette, dolci e cose buone non ne capisco proprio nulla. Soprattutto di cose buone. In questo momento della mia vita, in cui mi sforzo di essere un’altra persona, una brava donna di casa che sa badare ai suoi figli e prepara un dolce per il pranzo della domenica, penso solo a quanto sono sbagliata e a quanto mi piaccia esserlo. Sentire i pugni nello stomaco prodotti dai rimorsi. È una sensazione che dovrebbe far star male chiunque, mentre io la adoro.

    Persa nelle mie elucubrazioni mentali, miscelando l’impasto di questo maledetto dolce. Sono solo le sette del mattino del ventitré ottobre. Una domenica come tante altre, da sei mesi a questa parte: in cui più sposto la sveglia e più i miei occhi spalancano le palpebre a orari improbabili. Oggi erano appena le cinque e quaranta.

    Il problema è che non resisto nel letto insieme a lui, le lenzuola si fanno spesse, inizia a mancarmi l’aria. Prima riuscivo a temporeggiare, giusto il necessario che serviva a Michele per svegliarsi. Invece ora mi auguro solo di fuggire prima possibile da questa vicinanza, dalla condivisione che è propria di qualsiasi matrimonio che si rispetti. Tutto naturalmente, solo per un uomo.

    Un uomo che mi ha rubato il corpo, l’anima e la mente. Che immagino a ogni angolo della strada e della mia vita. Spero costantemente di incontrarlo ogni minuto della mia inutile esistenza.

    Mi perdo in questi pensieri mentre l’impasto del dolce al cioccolato assume delle sembianze orrende. Ma non mi interessa. Anzi, è l’ultima cosa che possa preoccuparmi.

    Il problema è che quando lo vedo non posso fare a meno di pensare al profumo e al sapore della nostra pelle, quando siamo insieme. E più sono consapevole della follia di quanto è accaduto, e tuttora spesso accade, più vorrei stringerlo a me.

    E sapere che questo desiderio così violento e malato, coinvolge una delle persone più vicine alla mia maledetta vita mi devasta definitivamente.

    Vicina come una sorella.

    Sono esattamente sei mesi che ho una relazione instabile con mio cognato. Non merito nulla, se non il disprezzo della mia famiglia. Disprezzo che ancora non è arrivato, ma in realtà è solo questione di tempo. Sto aspettando sottovuoto che qualcuno mi ridesti dalla lunghissima apnea. Sarà un risveglio tremendo, sarà amaro, duro e forse mi porterà alla follia, ma almeno espierò le mie pene. Mia sorella non vorrà più vedermi, nemmeno incrociare il mio sguardo. Rovinerò una famiglia, anzi due. I miei figli soffriranno e conosceranno la verità ed io mi vergognerò come una ladra.

    Ogni pensiero è un pugno in più al mio stomaco stanco.

    Ma cosa dovrei fare? Come potrei non pensare? È possibile smettere di pensare? Dovrei staccarmi la testa dal collo, magari metterla dentro un congelatore, aspettare che passi la tempesta e poi scongelarla.

    Invece sono sul punto di scoppiare in un pianto isterico; lo sento che sta per arrivare, uno di quei pianti in cui le lacrime sembrano non finire mai. Eccola, la prima lacrima sta lì lì per uscire, pronta a scivolare via, poi il citofono reclama e devo trattenermi.

    È Mirla, la donna che aiuta la mia famiglia da quando ho memoria. In passato ha vissuto con noi, eravamo piccolissimi, oggi aiuta me e i miei fratelli con i figli e le faccende di casa.

    Appena entra, afferra la prima sedia disponibile e ci si mette seduta: è visibilmente accaldata, si vede che ha fatto le scale a fatica e per quanto sono concentrata sui miei maledetti pensieri quasi mi dimentico di chiederle come sta, come si sente dopo che Ronnie è venuto a mancare. Inizia a parlare di quei momenti tremendi che rendono consistente la mancanza di una persona. Così consistente da trasformarla in qualcosa di concreto, una presenza assente. La solitudine è un cattivo malanno in questi casi, a volte quasi il più cattivo.

    Immagini la persona che non c’è più nell’arco di tutta la giornata, la vedi accanto a te e quasi ci parli; la percepisci come se fosse lì e quella sensazione è quanto basta per farti parlare da solo anche in pubblico.

    Mentre Mirla mi racconta queste sensazioni, gli occhi le diventano languidi.

    «È difficile concepire, o forse soltanto pensare, una vita senza di lui. Come si fa? Dopo vent’anni di matrimonio. Vorrei tanto che l’asciugamano del bagno non fosse mai piegato e ben teso».

    Vivere la mancanza di una persona è massacrante. Gli odori svaniscono, la sensazione della presenza, come quando afferri un oggetto ancora caldo, si perde nel tempo. Ti aggrappi ai ricordi, che non sono mai quelli di una vacanza insieme, della nascita dei figli, del matrimonio. Affiora invece la memoria della vita quotidiana. Delle piccole cose che mai avresti pensato di poter ricordare così minuziosamente. Del ritorno a casa la sera, dopo una giornata di lavoro, quella presenza in cucina a volte un po’ fastidiosa.

    «Ronnie era un mangione, non riusciva ad aspettare l’ora di cena, così si piazzava in cucina con me, spizzicando tutto quello che gli capitava sotto tiro. Quando poi esagerava, io mi innervosivo, così lui smetteva».

    Mirla sembra sotto l’effetto di un incantesimo, guarda un punto fisso

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1