Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Esilio Serbo
Esilio Serbo
Esilio Serbo
E-book351 pagine5 ore

Esilio Serbo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

E' un possibile esempio di romanzo che sollecita la collaborazione del

lettore. E' contemporaneamente il racconto di una grande tragedia

d'amore e di un suicidio, vissuti in Italia e in Serbia, mentre si

dipanano le vicende, le vita, le discussioni, degli abitanti serbi di un

condominio, (il vero protagonista del romanzo) che. soffrendo per i

dolori della loro gente sotto le bombe di Clinton, si aggirano fra

passioni e culture marginali, di solito indicate come popolari.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9791220323154
Esilio Serbo

Leggi altro di Ezio Saia

Correlato a Esilio Serbo

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Esilio Serbo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Esilio Serbo - Ezio Saia

    info@youcanprint.it

    La complessità

    Le montagne sudano, i fiumi disertano, i boschi tossiscono, le metropoli fanno l’occhiolino Chi avrà mai scritto una frase simile? Di che paese parla? Eppure l’avrò pur letta da qualche parte, se mi son preso la briga di trascriverla.

    Con chi e da dove cominciare? Seguire i fili sotterranei della cultura ai margini o entrare nella porosità delle elite e vagare nelle immensità del nulla o del tutto. Guardare con orrore all’ennesima fata velina, ispirata che legge l’infinito di Leopardi e quasi sembra svenire? Le è dolce vagare, perdersi in questo mare? No, non è questo l’Infinito che cerco. C’è una siepe che te lo nasconde? Alzati e guarda oltre. No, non è questo. Penso invece a un’altra fantasia a quella di Fichte, quel poveretto che ha scritto cose assurde per giustificare la siepe.

    Dovete immaginarvelo questo Fichte che, in una notte insonne nel suo letto, guardando il buio, abbia chiuso gli occhi, immaginando di immergersi e nuotare in quel buio omogeneo infinito, illimitato e libero, e si fosse illuso di aver trovato la vera assoluta libertà ma si fosse accorto che non c’era libertà in quel mare indistinto, incolore, monotono, senza ostacoli e che era un dovere morale dello spirito crearli, inventarli, erigere bastioni esterni, alieni, i Non io, senza i quali non esisteva libertà: quei demoni, quei Non io, volti oscuri e fratelli inseparabili, condizioni preliminari dell’esistenza della libertà.

    Insomma nuota felice e dice fra sé: Eccola la vera completa libertà morale. Ma poi improvvisamente si ferma ed esplode: "Ma questa non è libertà, non c’è nulla di libero in questo vagare senza ostacoli, non c’è nulla di morale, se non c’è necessità di scegliere tra il bene e il male. La libertà, la moralità esistono solo dove ci sono il male, i sapori, i desideri, le cose, i desideri delle cose, dei NON-IO. Se non ci sono allora quell’io ha una liberta senza senso, né immortale né morale: Un IO, che non può peccare, non è né libero né morale e se gli ostacoli, le cose, i desideri, le cose i NON-IO, non ci sono deve inventarseli e creare la siepe.

    Questo inizio per scoraggiare i lettori pigri. Un’agenzia letteraria scrive che è ansiosa di leggere nuovi capolavori:

    Storie che non si vogliano abbandonare, che ci facciano palpitare. Il tuo libro deve essere originale, avvincente, indimenticabile. Deve poter diventare oggetto di conversazione.

    Insomma romanzi come gelati e librerie come gelaterie.

    Ebbene questo romanzo non vuol essere affatto un gelato né tantomeno un bon bon da divorare in un sol boccone. Se volete perdervi, farvi travolgere, annullare, vivere avvincenti emozioni, ciò che segue non fa per voi, ma per chi è disposto a collaborare e lo ritiene necessario per aprire il mondo.

    E con ciò siamo da capo anche se le montagne sudano, i fiumi disertano, i boschi tossiscono, le metropoli fanno l’occhiolino, il primo problema, il primo non-io è da dove cominciare, visto che Fichte, poveretto s’è perso nelle formule, e non vedeva né le montagne che sudano, né i fiumi che disertano, né i boschi che tossiscono, né le metropoli che fanno l’occhiolino.

    Con chi comincio? Con Otello che mi rivoluzionò la vita? Con Platone che era il conduttore della sua vita? Con Mamma? Con il condominio? Con la morte di Tito? O a caso partendo dal primo evento che mi torna in mente ben sapendo che dovrò disordinatamente passeggiare avanti e indietro, fra passato e futuro.

    Secondo mio padre la mia depressione era dovuta al fatto che vivevo praticamente fra due condomini: ero nell’uno o nell’altro, in uno abitavo coi miei, mio padre, Boris, mia madre, Andriana, un nome russo maschile, e Igor mio fratello: nell’altro avevo la camera dove lavoravo come dipendente, dipendente per modo di dire, di una ditta che faceva di tutto sul computer, rilasciava caselle di posta, firme elettroniche, siti, sicurezza; queste cose insomma, e molte altre, tra cui la costruzione di siti che io facevo dalla mia camera, da cui mi allontanavo solo per colloqui con i clienti, anche se il più delle volte parlavo con loro in videoconferenza, col programma di della mia ditta.

    In effetti era vero. Vivevo praticamente fra i due condomini il che certo non era normale; ma che questa vita mi avesse portato alla depressione non era credibile né per me, né per mia madre, né, in fondo, anche per lui che lamentava che non avessi una fidanzata o una compagna, una donna insomma, e mi chiedeva in continuazione quando mi sarei deciso, vista la quantità di giovani, tutte figlie di amici di famiglia, per lo più impiegate, un po’di tutte le età, caratteri, forme e condizioni, che diceva lui, m’avrebbero preso ben volentieri. In effetti forse aveva ragione, specialmente con una bella slava il cui corpo gli faceva venire i brividi – Come cammina, come si siede, quelle gambe, quelle boccette - così chiamava il suo seno - il sorriso, mi fanno venire i brividi. – E in effetti era una bella ventiseienne con un forte carattere, che aveva buttato fuori di casa il marito, non appena si era accorta che pendeva per Tito: – L’ha sempre ammirato, quel maiale assassino, ma me lo nascondeva. Come puoi dividere il letto con uno che ammira Tito con tutto quello che ha fatto alla nostra gente?

    Non pensiate che fossi sentimentalmente e sessualmente inattivo: tutt’altro. Osavo, uscivo, mi accoppiavo ma quella parte del mio vivere era frastagliata, insoddisfacente, morta prima di nascere perché non m’ero mai sentito a mio agio e per mio padre, quel disagio, era depressione, il che non era assolutamente vero: – Tutti i depressi dicono che non lo sono – ribatteva lui, oracolare, il che era semplicemente falso ma anche il mio interesse per quei discorsi era ormai noioso e frastagliato.

    Per mia madre, la depressione, ammesso che ce l’avessi, era ereditaria. Depressi a ondate erano stati suo nonno e la moglie. La malattia aveva saltato lei, la prima generazione, ma forse accalappiato me, in ossequio, diceva, alla legge di Mendel.

    Lei era una casalinga arrostita dalla passione irredentista serba; una passione ben poco frequentata da mio padre, lui e le sue orecchie a latifoglie, ricamate dai capillari, da quando aveva cambiato lavoro all’ambasciata.

    Mamma leggeva molto; leggeva soprattutto romanzi che comprava in centro fino a che la sua carissima, inseparabile amica Laura, non aveva aperto, con la figlia Rosetta, una cartolibreria, a piano strada nel condominio dove abitavo. Da quel giorno passava da lei, ordinava o prendeva, scambiando appassionate chiacchiere letterarie, per poi salire da me a prendere il caffè, se già non l’aveva preso con l’amica in libreria o al bar di fianco, dove stazionava in permanenza Palinuro, amico e compagno di studi mio, come me, fermo alla tesi di laurea. Eravamo due laureandi permanenti, io che lavoravo da casa, lui che curava il benessere di Lidia e Venere, madre e figlia, le quali - non scandalizzatevi perché erano vere signore rispettabili - vendevano amore, con gran discrezione e signorilità.

    Venere, da sempre innamorata confessa di Igor, era uno splendore spento ma Lidia occhi grandi, capelli a crocchia. pelle liscia, bianca e tesa, forme contenute, non certo una tipica femmina di Almodovar, era un magnifico esemplare dell’ideale di bellezza.

    Non che Venere non fosse una bella donna ma quello splendore, che ho chiamato spento, lo era effettivamente. Il suo carattere non era signorile come quello della madre, sempre pronta alla battuta scherzosa e sempre espressa in maniera aristocratica, mentre lei, priva quasi totalmente di vis comica, si lasciava spesso andare a ringhi, sogghigni, insolenze, salvo poi affrettarsi a chiedere scusa: un carattere spesso troppo irruente. Certe spigolosità le aveva ereditate da quel poco di buono di suo padre, ora, per fortuna, scomparso da tutti i radar.

    Entrambe non adottavano sorrisi teatrali o affettati e, anche se non avevano grande cultura, erano interessate, ascoltavano con attenzione le nostre considerazioni e avevano una forte, moderna, autonoma personalità, per nulla in balia della diffusa banalità dei tempi.

    Palinuro al bar riceveva i loro clienti, curava gli appuntamenti e sostava nel suo appartamento, quando Lidia e Venere ricevevano i clienti, pronto a intervenire per qualsiasi evenienza.

    Era un colosso; un colosso in altezza e muscolatura, il tutto incrementato da una mascella feroce. Questo era l’aspetto esterno, mentre in realtà era un uomo mite, gentile a cui Venere e Lidia, erano non solo amiche ma morbosamente affezionate. Palinuro Raccoglieva consenso da tutti i condomini e dicendo condomini, mi rendo conto che, ora, finalmente, si può rispondere alla domanda posta all’inizio: protagonista di questa biografia e della mia vita, non era Otello, non era Laura, non era Rosetta, titolare della cartolibreria e neppure il barista o mio fratello Igor, ma tutto il condominio. Una famiglia allargata e unita, che faceva vita a sé, dove le vite dei condomini erano così fittamente intrecciate, che ciascuno di noi poteva tranquillamente affermare che il condominio era la sua famiglia.

    Palinuro era un uomo totalmente privo di stimoli sessuali. Una rarità ma neppure troppo, visto che le statistiche dicono che circa l’un per cento della popolazione, - stavo per scrivere - soffre di questa patologia, il che è una stupidaggine perché Palinuro non soffriva affatto questa mancanza di stimoli sessuali: era fatto così e basta -. Per il resto era del tutto normale, anche se parlava poco di questa assenza e ancor meno accettava di sentirne parlare perché, l’uomo, che di solito viene chiamato civile, mostra chiaramente di essere disturbato quando viene a conoscenza di questo tipo di dissonanze.

    Papà

    Quando papà seppe delle strane e rare caratteristiche sessuali di Palinuro, se ne uscì con un sicuro: - Ecco perché anche tu non ti accoppi - ma poi accortosi della stupidaggine, guardato con irritazione da mamma, che ammirava il carattere di Palinuro, s’era messo in volto uno dei suoi sorrisi di disagio con smorfia obliqua, a cui faceva seguire un risolino di commiserazione, accompagnato da un dondolio del gozzo, chiaramente rivolto a se stesso.

    La cosa finì lì ma mio padre non aveva fatto certo una bella figura e io reagii, dicendogli chiaro e tondo che si facesse i cazzi suoi e non i miei né quelli di Palinuro e che io la mia ragazza non potevo certo portarla a casa, con un padre capace di uscirsene con simili stupidaggini ma lui aveva controbattuto che non portavo le mie ragazze a casa, perché ero chi ero, che pure quel Palinuro che faceva da Garga a quelle due troiette, era chi era, e che anche il nostro caposquadra Otello era chi era, anzi il peggiore di tutti.

    Mamma reagì male ma io lascai perdere; ormai detestavo mio padre: era diventato, invecchiando, un cretino senza rimedio, anche se dovevo riconoscergli di essere una persona colta che le spiaccicava chiare alla razzolante e incolta cagna di sinistra, più ignorante del letame delle stalle erbivore. Quando se ne usciva con una stupidaggine delle sue e c’era altra gente, mi accostavo all’orecchio di mamma e le chiedevo: - Ma da quale chiavica l’hai tirato fuori? – e se c’eravamo solo noi quattro, io lei, papà e Igor, quella stessa frase la dicevo a voce alta: - Ma da quale chiavica l’hai preso? - E me ne andavo fintamente infuriato. Di buono c’era che non s’offendeva mai e non reagiva, se non per rispondermi – Quando ti decidi a andare da un neurologo per curare la tua depressione? - e se la rideva, soddisfatto, sempre illuso di essere l’unica persona colta della famiglia.

    Papà, in quel periodo, aveva aggrottamenti pesanti e truculenti, animati da un fuoco di diffidenza. Sembrava il Mangiafuoco di Pinocchio. Il suo tono era spesso biblico, irridente, insofferente, beffardo, unito a una risata sogghignante, talvolta forzata. Non era un carattere facile e con l’andar del tempo peggiorò sempre più questo suo lato, continuò a latrare che il mio incerto procedere, la mia indecisione, erano sintomi di brutta depressione, finche anche Otello non decise che quella palla era tutta da ridere. Del resto, per Otello, tutto il vocabolario dei sentimenti, della psicologia era fasullo: termini decrepiti e usurati come depressione, amore, passione, erano solo consolidate pigrizie.

    Insomma fra papà e mamma era un battibecco continuo.

    Certo aveva ragione a dire che, se io e quello scombiccherato Palinuro non avessimo conosciuto Otello, ora saremmo stati due brillanti laureati come eravamo stati brillanti studenti, ma nel condominio tutti esecravano certe considerazioni specialmente, se toccavano uno di noi e, in questo caso, Otello.

    Anche nel condominio c’erano litigi e volavano parole grosse e insulti, ma nessuno ci badava, anzi certe volte si faceva quasi un gara per tirar fuori insulti smisurati, mirabolanti e ipertrofici, che proprio perché prendevano quella piega paradossale, finivano in gloria.

    Cenavamo spesso a casa di Polly, eterna fidanzata di Otello, che si offendeva. se non si accettava l’invito.

    Anche le cose tra Otello e Polly, andavano spesso verso la tempesta per l’insofferenza di Polly verso la posizione da maestro di Otello. Lei non nascondeva affatto il fastidio, che provava quando, come diceva lei, lui faceva il maestro. Forse qualche ragione l’aveva ma Otello era Otello, un maestro riconosciuto, e su questo non c’era nulla da dire.

    Una sera Otello aveva ricordato l’uscita di Campanella dopo aver saputo del cannocchiale di Galileo e il modo con cui l’aveva fatto, come se fosse un dovere per lei sapere chi era questo Campanella, l’aveva offesa.

    Vi racconto una chicca – se n’era uscito ridendosela: - Quando Galilei inventò il cannocchiale, Campanella profetizzò che sarebbe presto stato inventato un cornetto acustico per udire la musica della sfere. –. Al che Polly reagì:

    Caro professorone, so chi è Galileo, ma non questo Campanella e neppure questa musica delle sfere; - ribatté Polly, seduta sulla spalla della poltrona – Visto che questa effervescente sguattera è ignorante come le talpe cieche, come le locuste bibliche, non può il professor Otello portare luce all’interno della sua anima, mappata da nere macchie di gaudente peccato e grigia ignoranza?

    Era la solita Polly, dal linguaggio esuberante e barocco che tanto piaceva a Otello che non le badò e continuò:

    Il suo compare Giordano Bruno considerava Venere un placido animale abitudinario e pigro. – e il diverbio finì, perché Otello si scusò con lei.

    Perché a Otello piaceva tanto Polly? Semplice: era continuamente sorpreso ed estasiato dal suo linguaggio barocco che non aveva pari per stravaganza, rigogliosità, divagazioni:

    Minestrone, fagioli, pollastro, gallina, funghi mangerecci, boleto satana, diavolo languido, occhi di grasso natanti attorno alla gallina sgozzata e bollita con salvia, marmellata di mele, ortiche e rosmarino, indiavolato, satanasso, gonadi paciose, mani prensili, unghie noiose, argentate, vecchie imbacuccate, rosolate in salamoia, moplem infaticabile, lucignolo arrostito come uno zampone natalizio, palpebre come serrande apatiche, rognoni fricassati e stitici, mani bianche, faccia infarinata, tutti i tipi di funghi, tutti i tipi di bacilli, dai morbillidi, fino ai vandali zenzerati, ai virus balena.

    Univa i sostantivi più stravaganti, esotici, agli aggettivi più improbabili e tutte queste espressioni, tutta questa selvaggia semantica mandava Otello in brodo di giuggiole. Per lui Polly era uno dei rarissimi maghi delle parole, come Ubdike, come Gadda, e come il troppo dimenticato Barilli, del quale l’editore Einaudi, grande suo merito, aveva pubblicato un testo con capoversi numerati quasi fosse una bibbia.

    Una o due sere dopo, la discussione si accese sul racconto di Otello dei suoi primi passi nel mondo della musica, al che Polly fu pronta a iniziare la sua filippica contro lui che, di nuovo parlava, col tono di un profeta, il che non era affatto vero. In ogni caso Otello interruppe il suo racconto, anche perché Polly, che stava lavando i piatti, batteva sulla fine delle parole con effetto comico, sicché lui s’interruppe, ridacchiò e, dopo una sosta in cui si udiva solo lo scorrere dell’acqua del risciacquo, si lasciò trasportare dalla dolcezza nostalgica della memoria e ricordò come un giorno, un pomeriggio, fosse entrato allo Standa di via Roma e avesse comprato per mille lire la Sesta sinfonia di Ciaivkoskj, la Patetica e, dopo un mese, con altre mille lire, la Terza sinfonia di Beethoven, l’Eroica e, dopo un altro, la Quinta, quella del Destino. - Che emozione! – disse e Che emozione! ripeté comicamente Polly: - Che emozione! Che splendida Emozione!

    Otello, irritato da quella recita, s’intabaccò – Possibile che riesci sempre a irridere alle mie espansioni liriche? – No – rispose Polly – Ma il fatto è che abitavi a Torino; a me, dal mio paesello di montagna, non veniva neppure lontanamente in mente una cosa del tipo: - Toh, questo pomeriggio, sai che faccio? Vado allo Standa e per mille lire mi compro Beethoven.

    Vuoi anche raccontare come ci sei arrivato? – dissi io nel tentativo di smorzare la polemica. Lui mi fissò – E va bene - disse – Vuoi che ti dica chi mi aveva iniziato? Sopra il nostro alloggio abitava una maestra di piano, detestata da tutto il condominio, che a Natale mi aveva regalato un piccolo disco con l’eroica di Chopin. Ricordo che papà… - Papà, che poesia!- la interruppe ironica Polly - Io direi mio padre – E va bene mio padre. Mio padre lo mise subito al giradischi e lo fece ascoltare a tutti in metafisico silenzio, e il giorno dopo m’ordinò di farlo sentire almeno tre volte ad alto volume, perché dovevamo far capire a quella signora che apprezzavamo il regalo – E va bene, ora è più comprensibile che un bel pomeriggio tu abbia pensato Toh, ho mille lire e vado a comprare Beethoven Quella donzella t’iniziò alla classica e per caso anche al sesso? – rise voltandosi irridente.

    Lui non rispose ma io insistei:

    – Allora? – chiesi.

    – Mamma mia, no, aveva quaranta e più anni. – E allora replicò Polly – Cosa credi che agli adolescenti non piacciano le quarantenni? – Polly aveva come cliente un giovane ventenne e ne andava molto orgogliosa

    – Lo so che riesci ad ammagliare anche gli adolescenti oltre i vecchi senescenti e porcaccioni come me ma no, quella signora non m’attirava.

    – La zompava papà? – ridacchio lei.

    - Questo non lo so ma non credo, con tutti i problemi che aveva… ma basta ora.

    Ricomincio a parlare e raccontò come dopo aver fatto una collezione minima di quei dischi economici fosse entrato timidamente da Maschio, il sontuoso negozio di dischi di piazza Castello e avesse chiesto al saccente commesso, che aveva accolto con accondiscendente attesa quel ragazzotto, che desiderava il Guglielmo Tell di Rossini. – Ebbene – continuò alzando la schiena dalla poltrona, mentre Polly, finiti i piatti, si sedeva a capotavola e io continuavo immobile la mia silenziosa presenza, – Ebbene - riprese Otello – non avete idea di quale faccia sorpresa deformò quel radical chic ante litteram. Partì verso le profondità degli scaffali, dietro il bancone e tornato, sorridente, porgendomi il malloppo incellofanato con l’immagine di un austero Tell con l’arco teso, mi disse:

    - Lo sai che non lo chiede nessuno? Che questi dischi giacciono dimenticati nello scaffale da anni? Dimenticati e disprezzati, anche se i professoroni dicono che è la miglior opera di Rossini, dopo il Barbiere. Vai ragazzotto e sii orgoglioso perché con questo acquisto, è come se questa bella musica l’avessi composta un pochino anche tu.

    - Polly non eccepì.

    Non so se Eco o Rossini

    Non ricordo se venne prima la discussione su Eco o su Rossini. La prima con Rosetta, la seconda con Otello ma comincerò con Otello, detto Platone, perché fu cordiale e tranquilla, mentre l’altra fu burrascosa, perché Rosetta era un’astiosa radical Chic e guai a chi toccava il suo Eco.

    A tutti noi del gruppo piaceva l’opera lirica e un giorno, me presente, parlando di Rossini, sul quale Laura diceva di nutrire la stessa opinione che ne aveva Stendhal: divertente, vivace ma mai sublime, cercò di ridicolizzarlo. Mamma non era d’accordo e neppure io. Poi parlarono della vecchiaia di Rossini.

    Nonostante la mia ammirazione, il Tell non fu mai al primo posto delle mie preferenze, ma, per tutta la vita, sempre secondo. Al primo posto si alternarono Rigoletto, Il Trovadore, la Walkiria, il Boris e perfino, a pari merito, L’Incoronazione di Poppea nella revisione di un tedesco di cui non ricordo il nome, e il Pelleas che puntualmente finivano, poi in fondo alla lista, per raggiunta saturazione ma mai il Tell. La stessa cosa, come mi racconto, capitava a Otello per il Boris.

    Per Rossini Otello aveva l’ammirazione che si prova per i grandi. Forse perché sentiva vicina la sua supposta pigrizia « Scrivevo opere, aveva detto un giorno ad Andrea Maffei, quando le melodie venivano a cercarmi e a sedurmi; ma quando capii che toccava a me andarle a cercare, nella mia qualità di scansafatiche, rinunciai al viaggio e non volli più scrivere"

    Forse nella sua musica non era stato grande come Verdi e come Wagner, ma come personaggio li superava entrambi. Era un Re e lo si vide bene anche quando smise di comporre per il teatro quando prima a Milano poi a Passy, allora un piccolo borgo rurale vicino a Parigi, oggi incorporato nella grande Parigi, da dove non si muoverà più fino alla morte nel 1968, aveva aperto il suo salotto. Già a Milano i suoi salotti erano famosi. Anche Liszt partecipò e lasciò testimonianza "Rossini ….A ouvert sa maison a ses compatriotes, et durant tout l’hiver une société nombreuse a rempli ses salons, empressée à venir rendre hommage à l’une des plus grandes gloires de l’Italie. Entouré d’un essaim de jeunes dilettanti, le maestro prenait plaisir àleur faire étudier ses plus belles compositions: amateurs et artistes, tous se faisaient honneur d’être amis à ses concerts….»

    La grave malattia nervosa che per lunghi anni lo prostrerà riducendolo quasi in fin di vita, era ormai superata. Le numerose cure e diagnosi, che testimoniano condizioni patologiche gravi, vengono addebitate a una vita troppo intensa e vertiginosa. Il lavoro estenuante, vissuto con l’entusiasmo della giovinezza e alimentato dallo straordinario successo l’hanno logorato. Una uretrite ormai cronica lo prostra. Del resto ha cavalcato situazioni impossibili in cui componeva, lavorava tra impresari che premevano e teatri che attendevano impazienti, affrontando prove estenuanti con la stessa vertiginosa velocità che compare nell'Italiana in Algeri, la più rossiniana delle sue opere.

    La fase acuta durò dal 1842 fino al 1857. Hai dunque dimenticato, mio buon amico, il mio stato d’impotenza mentale, ognor crescente, in cui vivo? scrive all'amico Domenico Donzelli nel ’58, Adorabile amico mio, scrive nel ’55 al fedele Filippo Santocanale voi desiderate che io di mio pugno vi scriva, martirizzato come lo sono da tredici mesi di crisi nervosa che mi ha tolto sonno, palato, alterato l’udito e la vista e gettato in tal prostrazione di forze, che non posso vestirmi né spogliarmi senza aiuto.

    Otello, che citava spesso Rossini. era professore incaricato di teoria della dimostrazione alla facoltà di matematica. Nel condominio ccupava metà del quarto piano ed era una sorta di marito di Polly. Si potrebbe anche dire che lui la manteneva ma anche questa versione non dava ragione della loro nello stesso tempo complessa e banale relazione.

    Otello, detto Platone, aveva scoperto da giovane un teorema, anzi un lemma, nel campo della teoria della dimostrazione, citato, se non nei manuali per studenti, in tutti quelli più ampi e specialistici, quelli che leggevano i colleghi. Con quel teorema, giovanissimo, non aveva ottenuto una cattedra ma un incarico permanente per l’insegnamento di quella materia e poi aveva messo la testa in pensione e a chi gliene chiedeva il motivo rispondeva di essere come Rossini: - Lui smise di scrivere opere ma scrisse all'inizio e alla fine del suo lungo crepuscolo Rossini uno Stabat Mater e La piccola messa solenne. Questa - ma non dimentichiamo che tra le due composizioni ci sono tutti i peccati di vecchiaia - è un gioiello di colori e di armonie, per le sonorità nuove dell’armonium e di due pianoforti, usati in modo percussivo. Il conservatore Rossini ha fatto tesoro delle sperimentazioni dei suoi peccati e ha prodotto un nuovo Rossini che stupisce nuovamente i contemporanei ma non chi ben sa che mai fu rivoluzionario e neppure gambaro.

    Lui, che col Guglielmo Tell era giunto ai crinali tra classicismo e romanticismo, scavalca d’un sol balzo tutto il romanticismo e giunge a Stravinskij. Non che Stravinskij si sia ispirato a Rossini ma, come dice Borges, gli artisti creano i loro precursori e noi possiamo assaporare le grandi novità di Rossini anche grazie a Stravinskij.

    Bon Dieu, la voilà terminèe cette pauvre petit e Messe. Est-ce bien de la musique sacrèe que je vien de faire ou bien de la sacrèe musique? J’étais né pour l’opera buffa, yu le sais bene! Peu de science, un peu de coer, tout est là. Sois donc bèni et accorde-moi le Paradis dice Rossini a proposito della sua Piccola Messa Solenne.

    - Lui ha scritto ancora La piccola messa solenne io invece nulla.

    Otello era pigro e interessato a tutt’altro, visto che lo stipendio era decente, il lavoro di tutto riposo, e la teoria della dimostrazione abitava in un altro indirizzo. L’unica cosa a infiammarlo in quel campo era la filosofia della matematica e degli enti. Sull’Infinito e sulle sue vicinanze, su Platone e Aristotele, aveva continuato a scrivere articoli del tutto riposanti e tranquilli per le riviste spremendosi ben poco il cervello ma molto la carne perché l’infinito e Platone erano per lui carne viva.

    La questione sua centrale, ma dovette passare tempo prima che lo capissi, perchè, come diceva lui, ero una nespola, un frutto a lenta maturazione, era quel Platone che rinasceva, spuntando fuori come un fungo porcino, ad ogni occasione, masticato con ingordigia dalla sua bocca. Amava, idolatrava Platone. Si sarebbe nutrito di bistecche di Platone, rosicchiato ossa di Platone, succhiato il suo cervello, assorbito i suoi virus, i suoi batteri, i suo sangue, il suo fegato; adottato il suo cuore. Non

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1