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E-book151 pagine1 ora

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Info su questo ebook

Furio Vigna, funzionario del Ministero dell’industria, è un uomo già in avanti con gli anni che divide la propria vita grigia e monotona tra una moglie un po’ burbera che ama profondamente e un ambiente di lavoro deprimente, dove una raccomandazione è il solo modo per fare carriera.
Ma le cose stanno per cambiare: un’incredibile scoperta getterà l’esistenza di Furio in un vortice convulso di eventi inspiegabili, coinvolgendolo in qualcosa di folle che ha le sue origini nell’alba dei tempi.
Fantascienza e ironia si rincorrono senza tregua tra le pagine di questo romanzo, generando un’atmosfera in bilico tra i racconti di Jacques Spitz e le tinte fosche di “Ai confini della realtà”.

LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2013
ISBN9781301691333
Luna
Autore

Massimo Lodato

Sono il pensiero che scruta la notte, sono l’ombra che l’attraversa, il silenzio che l’ascolta. Aspetto paziente per nutrirmi di certe sue creature. Per nutrirmi m’apposto zitto, per nutrirmi respiro piano ché la notte non fugga di scatto, ché la notte non fugga lontano. E lei me le vomita addosso le sue creature e tutt’intorno le partorisce. Rigurgita il pasto che m’alimenta e mi farebbe sazio e poi c’inghiotte nei raggi d’un altro mattino. Pareva farsi giorno ma il giorno è già lontano. Roma 4/1996 Laureato in giurisprudenza, svolgo l’attività di funzionario d’impresa per un’importante società dello Stato. Nel 2008 ho pubblicato un libro di poesie che mi sono accorto detestare ferocemente; nel 2011 ho pubblicato - senza pagare (!) - il romanzo “Luna” con l’Editore Colombo di Roma.

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    Anteprima del libro

    Luna - Massimo Lodato

    Africa centrale, molti secoli fa

    Il grande Shànuk, sacerdote del popolo dei coltivatori dei frutti della terra, guarda in silenzio i due accusati. I piedi leggermente divaricati, un pugno chiuso appoggiato su un fianco. L’altra mano impugna saldamente un lungo bastone con la punta conficcata in terra. Lo sguardo fisso sulle due meste figure.

    Il silenzio della notte è increspato dal tremore del Grande Fuoco del Giudizio che scoppietta imponente al centro del villaggio. Tutto intorno a esso è radunata una folla in trepida attesa.

    Yu-o, sua moglie Si-an e il giovane Sia-non, il loro figlio non ancora quattordicenne, guardano lo stregone con occhi lucidi e attoniti.

    Hanno ancora un velo di speranza.

    Il processo è quasi giunto all’epilogo. L’anziano padre di Yu-o nelle ultime settimane si è speso come ha potuto per salvarli. Ha usato tutti gli argomenti possibili per evitare al figlio e alla nuora la condanna a morte. E tutti attendono le parole del grande Shànuk.

    Yu-o e Si-an, concependo il loro secondo figlio, hanno offeso l’intera comunità. L’accusa è una delle più gravi. La Grande Pietra Bianca della Legge, posta al centro del villaggio e perennemente illuminata dal Grande Fuoco del Giudizio, vieta categoricamente di commettere qualunque atto a danno degli approvvigionamenti e delle riserve alimentari del villaggio. Questa disposizione, fin dai tempi che affondano nei tempi, fin da quando gli avi del popolo dei coltivatori dei frutti della terra si separarono dai loro fratelli guerrieri rinunciando alle armi, è sempre stata interpretata, tra l’altro, come l’assoluto divieto di generare più di un figlio.

    Se il verdetto porterà alla morte di Yu-o e Si-an, il giovane Sia-non diventerà figlio di suo nonno Yu, e il suo nome diventerà Yu-non.

    È proprio l’anziano Yu a rompere il silenzio.

    – Parla, grande Shànuk. È l’ora del tuo giudizio. Da esso dipende la vita di due persone e del loro concepito. Da esso dipende il destino dell’anziano padre e della nobile madre di Sia-non, due onorevoli membri della nostra comunità, costretti a dimorare fuori dal villaggio fino alla conclusione del processo. In passato, come più volte ti ho ricordato, lo stesso delitto commesso da questi incauti giovani è stato punito con sanzioni diverse dalla morte. Il frutto del loro crimine può essere consegnato ai nostri fratelli guerrieri del villaggio di Ush perché ne facciano un combattente di valore. E io sono disposto a sostenere il prezzo del crimine commesso accantonando il doppio della quota di pelli e alimenti da me dovuta alla comune riserva del nostro villaggio...

    – Taci, Yu. Hai avuto modo di esporre le tue argomentazioni. Negli ultimi anni i delitti contro il nostro bene comune si sono fatti sempre più frequenti. È ora di porre un freno allo scellerato egoismo di alcuni nostri fratelli. È ora di non perdonare. – Le parole del grande Shànuk sembrano rivolte alla terra che calpesta. Come i suoi occhi pieni di lacrime e di pena.

    Yu-o e Si-an abbassano lo sguardo. Adesso sanno di essere perduti.

    È la fine.

    Non piangono. Sanno che è proibito loro emettere qualunque suono fino alla fine del processo. Così come è proibito agli altri abitanti del villaggio.

    Tutto è silenzio. Attesa.

    Trema la penombra. Trattiene il respiro.

    Gli sguardi dei fratelli del villaggio sono fissi sugli accusati. E la loro espressione, come il cuore del grande Shànuk, è severa ma colma di dolore.

    La sentenza sta per essere pronunciata.

    Il sacerdote alza la testa. E parla.

    – Yu-o, Si-an, siete colpevoli di aver attentato all’integrità della nostra comunità violando una delle più antiche e sacre delle sue leggi. Il perdono non vi è dovuto. E non vi sarà concesso. Verrete puniti dall’immensa forza del profondo abisso cosmico senza tempo. E vagherete incorporei per l’eternità nella dimensione dell’ombra perenne. Questo è il giudizio che conclude il vostro processo. In questi pochi istanti che vi separano dall’eterna oscurità potete parlare. Ma non vi è concesso toccarvi.

    Si-an si guarda intorno. Affronta gli occhi che la fissano.

    Riesce appena a sussurrare un canto d’amore per il suo giovane compagno.

    – Addio marito. Porto con me, dentro di me, il nostro piccolo nel mondo dell’ombra. Spero di incontrarti là. – Poi cerca, tra i mille occhi che la fissano attoniti, quelli del figlio adolescente. I due si guardano ma ciò che riescono a distinguere, attraverso il velo delle lacrime, è solo un vuoto incolmabile. E la voce di Si-an si rompe tra i singhiozzi. Vorrebbe abbracciare il suo piccolo uomo, stringerlo forte a sé. Vorrebbe dirgli qualcosa di giusto, rassicurante. Ma, piegata, annientata dal dolore, non trova la forza di parlare oltre.

    – Addio, mia dolce fanciulla. – Yu-o singhiozza mormorando a denti stretti. – Addio carezze, respiro del nostro amore. Addio abbracci, pareti della nostra casa. Addio figlio mio. Addio padre giusto e paziente.

    Il grande Shànuk impugna il lungo bastone con una sola mano e lo tiene piantato nel terreno di fronte a sé. Teso il braccio. Leggermente divaricati i piedi, uno davanti all’altro.

    Una smorfia di dolore deforma il suo viso. Ansima. Compaiono bianchissimi i denti. Il rantolo si fa grido. Con la mano libera si afferra il volto appena sopra la bocca. È straziato da un violento spasmo. Si aggrappa allo scettro e si contorce dilaniato dal dolore.

    Dalla sommità del bastone un bagliore freddo e funesto scintilla nella notte.

    Dalla folla si odono provenire grida di terrore.

    Yu stringe a sé Sia-non per impedirgli di guardare, di assistere alla fine dei suoi genitori. Ma il ragazzo, tra le urla, riesce a percepire, a distinguere un suono. Un colpo. Brusco, secco. Come una frustata.

    Le urla tutto attorno si assottigliano. E Sia-non, vincendo a fatica l’amorevole abbraccio del nonno, va a cercare con lo sguardo il punto in cui, solo pochi istanti prima, aveva visto i suoi genitori.

    Nulla.

    Una nuvola di sottile polvere grigia lentamente si deposita sulle orme dei due, ancora stampate sulla rena.

    L’intero villaggio sprofonda in un gelido e severo silenzio.

    Il sacerdote smette di gemere. Respira a fatica. Resta aggrappato al bastone piantato per terra. La fronte appoggiata alla mano che impugna il suo scettro di morte.

    Infine, mentre il suo respiro si va chetando, sussurrando, ammonisce il suo popolo.

    – Dove prima era l’uomo colpevole, adesso è la notte.

    Uno

    Venerdì 24 aprile 2009

    – E stai zitta, vecchia capra! Lasciami fare in pace questa cosa. Altrimenti te la fai da te!

    Furio barcolla sullo sgabello di metallo su cui si è dovuto arrampicare per vedere come mai quella maledetta lampadina trema tutta e fa quello strano suono come un ronzio. Sua moglie Ilenia, che prima di farlo salire su quel maledetto trespolo a tre gradini gli ha fatto togliere le scarpe, sta in piedi accanto alle sue ginocchia con entrambe le mani saldamente afferrate alla sbarra orizzontale dello sgabello, e non ha smesso di parlare da quando Furio ha poggiato il piede scalzo sul primo dei tre gradini: hai preso il cacciavite sbagliato, sposta il gomito che non vedo dove metti le mani, non barcollare così che non riesco a tenerti, se perdi l’equilibrio, stai attento a dove fai cadere il cacciavite o le pinze che non vorrei che mi sbeccassi qualche ceramica del bagno.

    Furio traffica intorno alla grossa lampadina, di quelle che garantiscono un notevole risparmio energetico oltre ad una lunghissima durata, e sbuffa.

    E tenta di pensare il meno possibile al rumore della voce di sua moglie.

    Lei abbaia. – Come ti permetti, razza di scimmione? Stai zitto tu e fammi vedere che accidente stai combinando con quella lampadina. Se l’avessi controllata subito, la prima volta che ti ho detto che faceva questo rumore, adesso, magari, non sarebbe da cambiare. Cosa vuoi farci, ormai, dopo più di un mese?

    – Ilenia, per la miseria, è solo una lampadina, una stupida lampadina! Le lampadine si accendono, si spengono, si fulminano e si cambiano! – Tanto si agita su quello sgabello che per poco non perde l’equilibrio davvero. – Tienilo, tienilo fermo! Fai qualcosa invece di cianciare stupidaggini. Tienilo forte questo cavolo di sgabello! – Furio si produce in uno sforzo immenso per non aggrapparsi alla pesante plafoniera che pende dal soffitto. – Adesso, per favore, ti prego, mi bastano cinque minuti. Stai zitta! Voglio cinque minuti di silenzio!

    Furio sbuffa e fiotta. Agita entrambe le braccia verso l’alto con quell’espressione concentrata e sofferente che gli fa fare una specie di sorriso o di smorfia dello sforzo estremo, con tutti i denti di fuori, come se stesse sostituendo, da solo, un motore ad un Boeing 747.

    – Solo una lampadina un corno! È una lampadina che costa quasi dieci euro! Altro che si fulmina; si cambia. Questa la riporto al ferramenta e me la deve cambiare gratis con una nuova!

    – Ecco, brava, vai dal ferramenta. Prima però, scendi in cucina e fammi la colazione che sono già in ritardo. – Furio fa roteare la mano che impugna il cacciavite con gli occhi puntati sul soffitto.

    – Fattela. O vattene al diavolo al bar a fare colazione. Ha trovato la cameriera il signorino!

    – Brutta vecchia...

    – Provaci solo a continuare, bifolco di un burino, poi vedi come ti prendo a ceffoni. Razza di tanghero!

    Smontata la grossa borchia di vetro che copriva l’attacco della lampadina incriminata, Furio svita con due dita la lampadina dal suo supporto appiattito contro il soffitto e, sempre tenendola tra pollice ed indice la porge alla moglie come fosse una violetta di maggio, inchinandosi dall’alto dello sgabello con un sorriso largo da orecchio a orecchio.

    – Tieni cara, fiore mio. Non esitare a rivolgerti a me se ti dovesse servire qualche suggerimento su dove potresti mettertela.

    – Ma smettila, razza di citrullo. – Ilenia prende la lampadina da quasi dieci euro, gira i tacchi, e se ne va con le spalle infagottate in un golfino di lana scolorito e consunto da tanti, troppi anni di matrimonio.

    Pochi minuti dopo si ritrovano in cucina; lei con il suo golfino giallo-smunto e il broncio, lui con un caffè fumante in mano e un sorriso sulle labbra.

    – Grazie del caffè tesoro. Tento di tornare a casa prima che posso così litighiamo ancora un po’. – Sorride alla moglie e le strizza l’occhio mentre avvicina il viso al suo per darle un bacio sulla guancia. Come ogni mattina. Da ventisette anni. Poi appoggia la tazzina vuota sul lavandino e si proietta nell’ingresso, seguito dalla sua sposa ancora scura in volto e con le braccia conserte.

    – Ciao furfante. Se ti va stasera si potrebbe andare al cinema – dice lei sorridendo al marito, che già si sta cacciando il cappello sulla testa.

    – Al cinema ci vai col vicino di casa. – Furio afferra la maniglia della porta dell’appartamento.

    Ilenia gli fa una smorfia dietro alle spalle e torna a sorridere.

    Lui esce dalla porta, fa per chiudersela dietro, poi la riapre quanto basta per riaffacciarsi dentro l’appartamento solo con la sua

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