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Lungo il vento
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E-book462 pagine6 ore

Lungo il vento

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Info su questo ebook

Dalla Resistenza a oggi. Lungo un soffio di morte.

Magnanimo è un paese sospeso. Sospeso su un monte; sul sangue della Storia; su una catastrofe che ha inghiottito case e persone; su omicidi che tornano dal passato. La sua vicenda si svolge in tre momenti temporali, uniti dal lungo soffio del vento.

Durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale; un gruppo di partigiani, comandati dall`eroe Federico Celesti, lotta per la Libertà e nel Suo nome non esita a uccidere civili inermi.

Durante la metà degli anni sessanta; il carabiniere Losaccio arriva dal Sud nella Stazione dei Carabinieri comandata dal maresciallo Guerrini. E` un periodo strano, di cambiamenti, non solo sociali, ma anche per il piccolo paese, che vive nel mito di Federico Celesti e che nel mito occulta ferocia e cinismo.

Durante i tempi odierni; Valentina Laghi è un medico legale che fugge da un mondo di corruzioni e da un incidente, che l`ha resa invalida. Ma fugge anche da un amico defunto, che la segue nella mente e nei sogni. A Magnanimo spera di trovare la tranquillità. Solo che la speranza è la prima a morire.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2013
ISBN9788891108227
Lungo il vento

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    Anteprima del libro

    Lungo il vento - Giovanni Sicuranza

    oggi

    1. intorno alla metà degli anni Quaranta

    È il suono a sorprenderlo di più.

    Molto di più della mano che lo avvolge e lo stritola da quando ha adagiato la bici sul capanno degli attrezzi e si è incamminato lungo il sentiero del bosco.

    Una mano fatta di aria, ma tenace. Una mano dall’odore di morte.

    Ettore sa che dovrebbe già essere a casa, perché se il babbo torna dal mercato nero e non lo trova per il pranzo sono guai. Eppure cammina, anche se è solo nel frusciare del bosco, anche se l’odore di morte diventa denso e non promette niente di buono. Cammina e si lascia andare lungo il sentiero, con i sensi che hanno occhi spalancati e bocche prive di fiato.

    Perché quel suono è troppo familiare per essere ignorato.

    È il verso del tordo, il grande uccello del passo, tra le prede più ambite fino a quando la gente non ha iniziato a uccidersi per un pezzo di pane.

    Ma è anche di più.

    Il suono che attrae Ettore è il richiamo dei cacciatori, quando nel bosco i fucili cercavano selvaggina, non uomini e donne e bambini.

    Ed è ancora di più. Da qualche giorno è molto di più.

    Se adesso si fermasse per fare quello che implorano le gambe, una corsa di ritorno alla bicicletta, vivrebbe per tutta la vita con il rimpianto della fuga. Peggio, con il timore di non essere qualcuno.

    Gli zoccoli di legno scivolano sulle foglie umide, gemono tra la ghiaia, ma Ettore non si ferma.

    Socchiude gli occhi, per meglio vedere le ombre che si insinuano tra i rami, ma le ombre sono ombre e basta, sussurri celati nella vegetazione del bosco, mentre il suono è chiaro e riempie l’aria almeno quanto il sudore della morte.

    Forse di più, non credi?

    Ettore si ferma così bruscamente che per poco non cade a pancia in giù, il busto che oscilla in avanti e subito dopo indietro, le scarpe diventate piombo ben saldato al terreno.

    Adesso sì che vorrebbe urlare e precipitarsi al capanno degli attrezzi più veloce che può, e ancora di più, balzare sulla bicicletta e pedalare fino a casa senza nemmeno tentare di voltarsi indietro.

    La sua vescica conosce la paura meglio di lui, perché gli ha appena bagnato i calzoni corti.

    Ettore se ne accorge tra valanghe di pensieri frenetici.

    scappa scappa

    hanno ragione gli altri, sei un codardo

    adesso la senti la mamma, ti aveva appena dato i vestiti puliti

    e papà invece

    Papà.

    Ettore chiude gli occhi.

    Nel buio l’odore di morte attende. E il suono che lo ha trascinato nel bosco diventa protagonista.

    Questo ragazzo di dodici anni dovrebbe già essere a casa dopo una giornata di fame e solitudine, ma ora sa che i genitori aspetteranno ancora. Se permette che il suo ultimo segno sia la macchia di piscio che gli bagna i calzoni, se non si convince che la voce che ha sentito è solo l’illusione di quella di suo padre, allora sì, sarà un vigliacco senza ritorno.

    Allora sì che il suo riscatto davanti alla comunità sarà perso per sempre.

    Mentre lo capisce si appoggia sull’albero alle sue spalle e la fermezza del tronco gli porta un senso di sollievo. Debole, ma sufficiente per spingerlo a riaprire gli occhi.

    Sì, è tempo di raggiungere il suono del tordo.

    Le ombre del bosco diventano lunghe, come neri artigli in attesa, ma Ettore non vuole più esitare. Non vuole nemmeno più ascoltare la voce del padre.

    È ora di diventare un uomo.

    ***

    I paesi della vallata agonizzano nelle ferite profonde della guerra civile.

    Gli abitanti sono ancora rintanati nel buio delle case, braccati da lutti e vendette. Nessuno osa addentrarsi di nuovo nel bosco, fitto spargimento di ombre e nebbia che si arrampica sulle montagne.

    Nemmeno oggi, nel tradizionale inizio della stagione della caccia, di solito evento tanto atteso da chiamare a raccolta tutte le famiglie, da innalzare al vento selve di bicchieri di vino rosso e coralità di canti in dialetto.

    Oggi non ci sono più famiglie unite, oggi al posto del canto c’è il dolore e al rosso del vino è subentrato quello del sangue.

    La vallata è frammento di morte e terrore.

    I tedeschi sono scomparsi, ma il vicino no.

    E il vicino è il nemico più terribile.

    Non dichiara ostilità.

    Guarda e spara.

    Per la Repubblica Sociale, per il Regno d’Italia, per l’Italia democratica, per quella comunista.

    O perché il suo orto è più povero.

    Oggi la gente della vallata è gregge tremante nel recinto della chiesa.

    Le bare sono allineate in un unico serpente scuro e senza respiro, che dalla navata centrale scivola verso l’uscita.

    Don Dino ha le braccia protese in alto, e in alto, sopra di loro, c’è il bosco, non il cielo.

    La gente prega che il parroco abbia le parole giuste per riportare la vita, che questi siano gli ultimi morti di una guerra senza bandiere.

    Don Dino prega e soprattutto spera.

    Anche se sa di avere appoggi tra i militari e i politici, spera che la sua gente non sappia mai nulla. Che nessuno intuisca la necessità di questi morti.

    Prega e intanto la mente corre.

    Nel bosco, tra il vento e la nebbia.

    Dove si nascondono i guerrieri.

    ***

    Bussano alla porta.

    A ogni colpo l’uomo e la donna si lanciano occhiate rapide, dove c’è tutto. Il silenzio, il dolore. E la rassegnazione.

    - Era meglio se andavamo anche noi in chiesa – bisbiglia lei, in un soffio così fragile da essere spezzato dalla percussione veloce sul legno della porta.

    L’uomo scuote la testa, afflosciata sul petto, come il corpo sulla sedia. E tace.

    Le penombre del tramonto cadono pesanti sul suo profilo e trascinano nel buio brandelli di arredamento e di vita.

    - Ti prego, falli smettere – implora allora la donna, seduta sul pavimento di legno, le spalle sullo stipite dell’ingresso della cucina – Ti prego, Ascanio.

    L’uomo solleva la testa e lo fa con un sospiro lungo, come se il gesto gli costasse un’energia che non possiede.

    Bom bom tuona la porta.

    - Sei sicura? – chiede, scrutando il profilo della donna attraverso le ombre.

    Sì, annuisce lei, chiudendo gli occhi.

    Anita cerca angoli di serenità nella sua mente pesante di morte. Vorrebbe stringersi ad Ascanio, il suo uomo, ma sa che lui ora deve affrontare gli ultimi istanti della loro vita.

    E mentre ne ascolta i passi scricchiolare sul legno, verso la porta, richiama il volto del figlio con il rammarico assoluto di chi sa che non potrà rivederlo. Ettore si è ribellato al progetto, forse è già morto, e non c’è null’altro in attesa per i suoi genitori.

    Anita è inondata dal pulsare sofferto del sangue nelle arterie. Non c’è posto per respirare ancora, nemmeno per sentire quello che accade intorno a lei. Ettore e il nulla cadono nei pensieri e diventano il mondo.

    I cardini della porta esplodono mentre l’uomo sta terminando di girare la chiave nella serratura. Schegge di legno feriscono l’aria e fuggono nell’ombra.

    Anche se di bassa statura, Ascanio è massiccio, temprato dai lavori nei campi e dalla guerra, ma l’energia della porta divelta è forte abbastanza da trasformarlo in un fuscello nell’uragano. Cade all’indietro, la testa che solo per un soffio non incontra lo spigolo del tavolo, anche se forse sarebbe stato meglio.

    Il primo particolare che riempie la sua vista è il luccichio, poi ci sono profili lunghi che dal soffitto si abbassano su di lui e rimangono a fissarlo con occhi neri.

    Sa che è proprio fuori luogo, ma non può fare a meno di sorridere riconoscendo in quelle sagome i fucili dei suoi compagni di caccia.

    - Alzati, Ascanio! – gli intima una voce dietro gli occhi vuoti delle canne.

    - Ciao, Federico Celesti.

    - Ti ha riconosciuto – osserva dall’ombra un’altra voce.

    - E allora? – replica Federico, deciso - Mica dobbiamo nasconderci. Siamo i soldati della Patria!

    Un fucile si allunga verso il volto di Ascanio, fino a sfiorarlo con il metallo e a premere nella carne. L’uomo ha una smorfia, mentre realizza allo stesso tempo che l’arma è ancora calda ed emana esalazioni di sparo.

    - Dov’è mio figlio? – chiede, la testa girata di lato dalla pressione del fucile sulla guancia.

    - Ti ho detto di alzarti, cazzo! – la canna preme ancora di più sulla pelle.

    Ascanio cerca Anita e quando la vede si pente di averlo fatto. La moglie è immobile, come un fagotto già senza vita, il volto reclinato sul petto e celato dal sudario dei lunghi capelli neri.

    Anche gli altri devono avere guardato con lui. Sente passi muoversi in fretta e un’ombra entra nel suo campo visivo, dove vorrebbe non ci fosse nessun altro tranne la sua donna.

    - Lasciatela stare – riesce a parlare, deciso, nonostante il fucile stia scavando nella sua guancia.

    L’ombra si ferma, fa un altro passo verso la donna e ancora si ferma.

    - Vieni con noi, allora? – chiede chi regge l’arma che affonda in lui.

    Ascanio annuisce piano, quel tanto che basta a fare oscillare la canna insieme alla guancia. L’altro avverte il movimento e allenta la presa.

    - Alzati – ripete.

    Ascanio non smette di guardare la moglie, chiusa nell’ultimo angolo delle sue speranze. Cerca di sollevarsi, ma un morso sembra trattenerlo al pavimento. Sospira e si volta di nuovo verso le ombre.

    - Dovete aiutarmi. Mi sa che nella caduta mi sono rotto un polso.

    Quattro o sei mani si gettano su di lui e lo sollevano, veloci. Ascanio serra le labbra sulle fitte del dolore e l’istante dopo si ritrova in piedi, mentre gli uomini continuano a stringerlo.

    La canna che gli ha azzannato la guancia ora guarda il suolo.

    - Dov’è mio figlio, Federico?

    Silenzio.

    Ascanio socchiude le palpebre. Non gli interessa sapere quanti sono gli uomini che lo tengono fermo, cerca solo di penetrare il buio per scoprire il volto del suo amico di infanzia, del suo compagno di caccia. Del padrino di suo figlio.

    Un passo e finalmente Federico diventa realtà.

    - Ettore è testardo, lo sai – l’amico avvicina ancora di più il volto a quello di Ascanio – E permettimi di aggiungere che non gli avete insegnato i giusti ideali.

    Nessuna emozione nei suoi occhi, nessuna incertezza nelle sue parole.

    Ascanio ha ancora la lucidità di riconoscere l’alito pieno di carie e alcol; così intenso e familiare che anche a occhi chiusi potrebbe conoscere il nome del suo carnefice.

    - Invece dovevate pensarci voi a educarlo, vero? Con la vostra verità di morte.

    - Ehi – lo ammonisce una voce alle sue spalle e subito una nuova fitta di dolore salta dal polso al cervello. Ascanio geme e si piega su se stesso, sorretto solo dalle mani che lo imprigionano.

    - Lasciatelo.

    - Cosa? – mormora la voce, stupita, ma già le mani esitano sul prigioniero.

    - Lasciatelo – ripete paziente Federico – Non tenterà nulla.

    Ascanio si ritrova libero e il suo corpo fa subito l’unica cosa che desidera, precipitando nell’unica sedia del corridoio. La paglia e il legno cigolano di protesta.

    Federico si china fino a portare il viso all’altezza dell’amico. Il suo alito avvolge ancora Ascanio e porta ricordi di sveglie all’alba, di giornate trascorse in trattoria, tra risate e bevute, prima di entrare nel bosco per la caccia.

    Ma ora Federico è espressione distante, i suoi grandi occhi chiari sono ampolle sconosciute in cui non è possibile trovare tracce di quei giorni.

    - Ti faccio una promessa, Ascanio – mormora – La nazione che verrà dopo di te, dopo il buio, sarà fiera e unita.

    - Dov’è Ettore?

    Federico corruga la fronte e si alza in piedi. Dall’alto continua a guardare negli occhi Ascanio e intanto scuote la testa.

    - Sei il solito. Sempre chiuso nel tuo mondo piccino. Per questo hai perso.

    - Dobbiamo sbrigarci – lo interrompe la voce dell’ombra accanto ad Anita.

    Federico è lesto. Alza la canna del fucile e la punta nella sua direzione.

    - Non mi dire cosa fare – poi torna a girarsi verso il prigioniero. E sorride, mentre l’arma rimane tesa verso l’ombra in cucina.

    - Vedi, qui ora sembra tutto un casino, ma il disordine è necessario per il nuovo mondo.

    - Ettore e Anita non c’entrano nulla, lo sai – Ascanio fa per alzarsi dalla sedia, ma una mano scivola alle sue spalle e gli afferra il polso gonfio. La mente dell’uomo è accecata da un fulmine bianco.

    - No! – urla. Il polso è ancora nella morsa della mano nemica, innalzato come un punto esclamativo sopra il resto del corpo precipitato al pavimento.

    Ritrova il respiro, ritrova il respiro, ritrova si accavallano le parole nella mente di Ascanio, ma la realtà è che tutto è perso, la realtà è solo il dolore che lo paralizza.

    Eppure riesce ancora ad aprire gli occhi, pieni delle suole degli stivali da caccia dell’amico. E a sentire le sue parole che cadono dall’alto. Quasi dolci, assurdamente tenere.

    - Se mi prometti che farai il bravo, se mi prometti che verrai con noi senza tentare nulla, ecco, ti do la mia parola che tua moglie sarà libera.

    Ascanio vede il fango sugli stivali, fango ancora fresco, gonfio come una carcassa putrefatta, da cui spuntano steli d’erba simili a peli verdi.

    La punta di uno stivale gli sfiora il viso.

    - Hai capito cosa ho detto?

    - Ettore? – insiste l’uomo sconfitto.

    Lo stivale si ritrae.

    - Accontentati della mia parola.

    Ascanio chiude gli occhi, ma l’immagine dello stivale e del fango rimangono nella mente. Annuisce.

    - Bene. Tiratelo su, senza fargli male.

    Ascanio è trascinato fuori dalla porta.

    Gli occhi ancora chiusi, non si accorge dell’ombra che è rimasta accanto alla moglie e che inizia a stringere le mani intorno al suo collo.

    ***

    Gli occhi sono spalancati di paura, ma tutto intorno è buio.

    Ettore ha già avuto miliardi di respiri affannati per pentirsi di avere abbandonato la bici, la direzione di casa, e avere proseguito a piedi nel sentiero, incontro al verso del tordo che riempiva il bosco, un suono che per lui ha un nuovo significato.

    Ettore conosce i combattenti della libertà.

    Sa che il verso del tordo è diventato il loro richiamo, per questo aveva deciso di seguirlo. Però le cose non erano andate come sperava.

    Quando li aveva raggiunti, i guerrieri avevano interrotto il verso e lo avevano guardato.

    Tutti. Ostili.

    I tuoi genitori sono nemici del popolo, gli avevano detto.

    E subito si erano schierati in un muro di corpi e armi che gli aveva impedito di vedere il cadavere steso tra i rami. Forse un fascista, si era chiesto Ettore, cercando di sbirciare oltre la barriera, forse un traditore.

    Sei tu il traditore, lo avevano accusato gli altri, di rimando, Vigliacco.

    Non è vero, aveva pensato, non è vero, sono qui, prendetemi con voi nel gruppo, ma la paura gli chiudeva le labbra e lui continuava a urlare nella mente, fino a quando qualcuno aveva indicato i suoi pantaloni, in mezzo alle gambe. E si era messo a ridere.

    Vigliacco, vigliacco pisciasotto, vigliacco, si erano alzate le voci e allora Ettore si era bloccato del tutto, anche nei pensieri, perché quelle erano le parole di suo padre.

    La stessa frase con cui lo canzonava quando non voleva scendere nell’oscurità della cantina per ripararsi dalle bombe, quando si svegliava urlando tra le lenzuola bagnate di piscio e sudore dopo sogni di morte. E quando aveva vomitato mentre lui scuoiava Bigio, il loro gatto, e la mamma preparava il pentolone per il pranzo.

    Maledetto suo padre per avergli impedito di unirsi ai guerrieri prima che fosse tardi, maledetto perché non era mai riuscito a ribellarsi alla sua voce.

    I guerrieri gli erano saltati addosso, gli avevano legato polsi e caviglie. Poi un sacco era calato sul suo viso.

    Ma non sulle orecchie.

    Ora, steso sull’erba umida, ascolta nel buio, sopra il suo respiro veloce.

    Sono arrivati i capi dei guerrieri, questo lo ha capito, perché ha riconosciuto il rombo della moto di Federico, il grande amico di papà.

    Per Ettore, Federico è come uno zio.

    Lo ha portato a caccia, gli ha insegnato a costruire l’archetto per la cattura degli uccelli, a riconoscere i funghi buoni e gli asparagi migliori. E il mese scorso, quando ha comprato la moto Guzzi 65, Ettore è stato il primo a salirci sopra.

    Salta sulla Gusì, gli aveva detto lo zio Federico, ridendo, forse per il nome dato alla moto, Dai che andiamo a liberare il mondo. E poi via, tra i sentieri del bosco, tra i campi, il vento che soffiava forte nei capelli e nelle orecchie, il mondo che sembrava davvero tutto libero per loro, invincibili su quella moto leggera.

    Non farlo più, lo aveva ammonito suo padre, cupo come sempre, lo sguardo perso oltre la finestra, quando la sera aveva raccontato tutto, Non ti azzardare mai più ad allontanarti con lui.

    Ora invece, perso nel sacco nero, sente che lo zio è arrivato, che presto lo libererà, come hanno fatto insieme con il mondo, quel giorno sulla Gusì.

    Per un istante gli sembra persino di riconoscere la voce di suo padre, un sussurro soltanto, seguito da un lamento. Ma sa di essersi sbagliato, papà non può essere lì.

    Da mesi gli ordina di tenersi alla larga da Federico e dai suoi fanatici, di rimanere piccolo e silenzioso finché la gente non smetterà di scomparire.

    Ettore però non capisce. Vuole bene allo zio Federico e gli piace la sua risata.

    Non gli è mai sembrato un fanatico, qualunque brutta cosa significhi. No, no, nulla è brutto nello zio Federico.

    Nemmeno la brigata dei guerrieri che gli ha presentato qualche settimana prima, tra le macerie della scuola.

    Ecco i padroni del mondo, gli aveva detto quel giorno lo zio, gli occhi chiari che splendevano sotto le nuvole, Se mi dai retta, un giorno anche tu sarai come loro.

    Anche quel giorno, quando aveva scoperto cosa era accaduto, papà si era arrabbiato. Arrabbiato davvero.

    Gli aveva ordinato ancora quella di stare alla larga dallo zio Federico fino alla fine della guerra, solo che lo aveva fatto urlando, rosso in viso, poi aveva bofonchiato qualcosa a sua madre, qualcosa in cui c’entrava ancora la parola fanatico, ed era uscito di casa sbattendo la porta, il fucile in mano.

    Di quel pomeriggio, Ettore ricorda il silenzio della mamma e il ticchettio lento dell’orologio sulla parete, finché, poco prima di cena, papà era tornato.

    Ci siamo chiariti, aveva detto a sua madre e sembrava calmo.

    Ma il prete cosa dice?, gli aveva chiesto lei, il viso un po’ più vecchio di prima.

    Ci proteggerà, aveva risposto laconico lui, gli occhi oltre la finestra della cucina.

    Nient’altro.

    Si erano seduti a tavola, come sempre avevano pregato per la fine della guerra, e avevano cenato a base di Bigio e patate.

    Nel silenzio, solo Ettore, confuso, sembrava essersi accorto che il padre era tornato senza fucile. Ma non aveva osato fare domande.

    Non osa farne nemmeno ora.

    Anzi, quando sente due spari spezzare l’aria in rapida successione, cerca di non respirare nemmeno.

    E trattiene il fiato anche dopo, nonostante riconosca il rombo rassicurante della moto dello zio Federico.

    Ormai deve attendere poco, si rassicura. Se lo zio non l’ha ancora liberato, sarà perché prima deve parlare con gli altri. Ma lui è uno dei capi, un mito dei guerrieri, e sa come farsi obbedire.

    Le parole che ascolta sono in gran parte incomprensibili, però deve trattarsi di qualcosa di importante, perché tutti parlano velocemente, accavallandosi, anzi, c’è chi sembra agitato, forse persino come lo è lui.

    Fino a quando la voce di suo zio si alza sopra le altre, bella e decisa.

    Spiega della necessità di giustiziare chiunque non si schiera con loro, o qualcosa del genere, non importa. Il fatto è che parla e parla, mentre il respiro di Ettore rallenta, affascinato.

    - E al ragazzo cosa diciamo?

    Ettore smette di respirare.

    Non solo ha capito che ormai si sono accorti di lui, ma ha anche riconosciuto la voce nuova. Ed è stupito.

    Papà gli ha raccontato che il prete condanna la guerra, da qualunque parte, e che loro devono prendere esempio da lui.

    Invece Don Dino è tra i guerrieri.

    Non ha tempo di ricominciare a respirare, perché l’attimo dopo si rende anche conto che qualcuno si è avvicinato. Senza parlare, ma veloce.

    Rimane in silenzio, il cuore che galoppa fino alla gola, e non sente voci.

    Eppure Ettore è sicuro della presenza al suo fianco. E all’improvviso intuisce anche un altro particolare: nonostante le radici e i sassi, non ha sentito il suono dei passi verso di lui.

    Allora smette di riflettere, smette di ascoltare e diventa solo panico che cerca di ritrarsi il più possibile su se stesso, di rannicchiarsi sul tronco dell’albero dove lo hanno lasciato, se è possibile di entrare dentro la corteccia.

    E quando avverte una mano posarsi sul capo, la mente di Ettore urla.

    Urla anche se sa che si è appena pisciato addosso e che rischia di farlo di nuovo, urla perché non comprende nulla di quanto sta accadendo, urla perché papà gli ha detto che lo zio che adora non è una brava persona, urla perché un prete che predica di allontanarsi dai guerrieri è tra i loro capi.

    Urla fino a quando il buio che lo avvolge non entra anche nella sua mente e lo porta lontano.

    Forse in un mondo dove tutto è ancora come prima della guerra.

    2. intorno alla metà degli anni Sessanta

    - Lasciati andare.

    La bambina esita, sospesa nel vuoto. Oscilla solo un po’, gli occhi che si chiudono piano e lasciano che la mente si riempia di vento.

    - Lasciati andare – insiste la voce.

    Le mani di lei si stringono di più al ramo.

    - Non so se è una buona idea – replica, con tono incerto.

    In realtà vorrebbe mollare la presa e abbandonarsi al salto nel fossato, tra le foglie morte del bosco, perché comincia ad essere stanca, tanto stanca. Però non solo il suo corpo non sembra per niente pronto, ma si sta dimostrando il più tenace, e la trattiene, come un’appendice del grosso ramo libera di ondeggiare al vento d’autunno.

    - Sono pochi metri, forza.

    La bambina sbuffa e il suono che pigola dai polmoni affaticati è così insolito, sconosciuto, che lei dapprima spalanca gli occhi, stupita, poi inizia a ridere, a ridere con gusto, il corpo che si scuote ben oltre il vento, le mani troppo intirizzite per reggere anche quel movimento scoordinato.

    - Mammaaa – urla mentre cade e continua a ridere.

    È un attimo. Ed è anche tempo di chiudere ancora le palpebre, di serrarle proprio, e rivedersi pochi minuti prima, durante la corsa sulla collina.

    Ritrova la sensazione di volare, quella bella, però, non come questa; quella che ha assaporato nei salti sulle radici sporgenti del bosco, piena del rosso acceso delle sue scarpe da ginnastica, fino a quando non ha raggiunto la cima e invece di fermarsi ha saltato ancora, oltre l’ultima radice, nera come i bastoncini di liquirizia appena comprati nel negozio della signora Iole, che le gonfiano la tasca della gonna, che ora le sembrano tanto pesanti.

    Credeva che dopo sarebbe inizia la discesa, da divorare in un unico balzo, e invece.

    - Ahiii – esplode senza aprire gli occhi, quando ascolta lo schiocco delle foglie secche che si spezzano sotto il suo peso – Ahiii – ripete con tutto il fiato rimasto, quando il buio nella testa diventa un unico vortice con quello del corpo che si accartoccia su se stesso.

    Poi, silenzio.

    Ma solo il silenzio della voce, perché tutto dentro di lei è respiro affannoso, marea crescente di pianto, così veloce da sovrastare il richiamo dell’amico.

    ***

    Osvaldo osserva il fagotto di Cinzia, infossato tra foglie e rami.

    Immobile, un braccio girato in modo strano, con il dorso della mano sulla nuca; il palmo bianco, tanto bianco, aperto verso di lui.

    Apre la bocca per chiamare l’amica e subito la richiude, nel timore che lei non risponda. Forse è meglio rimanere nel dubbio.

    E forse sarebbe stato meglio non esortarla a buttarsi. È che tra penzolare nel vuoto appesi al ramo e atterrare sulle foglie morte, il salto gli sembrava la soluzione migliore.

    Insomma, è stato suo fratello a dirgli che le foglie morte sono ormai così tante in questa stagione che puoi lasciarti andare sopra di loro, come fanno al cinema gli attori, quando cadono dai palazzi e atterrano su un materasso nascosto, senza farsi male. Li ha visti, lui, quei salti, attraverso il bianco e nero del cinematografo, da poco aperto nella piazza.

    È un trucco che si può provare anche nei fossati più bassi del bosco, gli aveva sussurrato Giacomo, seduto accanto a lui, con un sorriso complice.

    In paese, tutti in paese sanno che suo fratello Giacomo è una persona intelligente, cioè, di più, è persino un carabiniere.

    Solo che è anche alto il doppio di Osvaldo, solo che Cinzia è ancora più piccola, solo che forse quelle foglie che ora la ricoprono in parte sono un velo, non un materasso da cinema.

    Solo che solo che.

    Osvaldo deglutisce e apre di nuovo la bocca.

    Cinzia, chiama piano, così piano che il suono non esce dalla mente.

    Cinzia è a pochi metri sotto di lui e forse si è addormentata. Ma c’è quella mano rivolta ai suoi occhi, così tanto troppo bianca. Un pallore che risalta ancora di più tra le macchie rosse sulla sua maglia.

    Forse sono solo i sanguanì, tenta di rassicurarsi Osvaldo, mentre gli occhi scivolano ai suoi lati, lungo il margine del fossato, dove il colore rosa dei funghi si sporge oltre il verde. Con un gesto rapido, ne afferra uno e lo spezza.

    Sì, sono loro, sono stati loro, si ripete, veloce, per non lasciare spazio al dubbio, mentre un liquido rossastro e appiccicoso cola dal fungo, non è sangue, sono solo i sanguanì.

    Poi lo sguardo cade in basso, sulle macchie rosse nel vestito di Cinzia, e la gola di Osvaldo si stringe, fino a diventare piccola piccola, tanto che lui deve deglutire in rapida successione, spingendo la saliva giù e poi giù, per ritrovare il respiro. Intanto anche i ricordi rotolano nel fossato.

    Cinzia era troppo presa dalla corsa sulla collina, dalla potenza delle sue nuove scarpe, per fermarsi in tempo. Soprattutto, era felice per la possibilità di battere l’amico.

    Anche per questo Osvaldo si sente responsabile.

    Avevano comprato i dolci e le scarpe americane in paese, dalla signora Iole, e mentre tornavano a casa lui le aveva proposto di abbandonare la strada e tagliare per il bosco.

    Lei lo aveva fissato silenziosa e allora Osvaldo aveva indicato le sue scarpe rosse.

    Nuove nuove, no?.

    Cinzia aveva sollevato un sopracciglio. E se fosse stato grande come suo fratello, Osvaldo l’avrebbe baciata sul momento, lì, al limite tra la strada e il bosco. Perché non capiva bene cosa significa avere una tipa ed essere sballati per lei, ma sapeva che due anni prima, quando aveva conosciuto Cinzia alla festa della parrocchia, lei aveva sollevato il sopracciglio, proprio come adesso e tante volte dopo. Lui era arrossito, il cuore diventato una capriola nel vuoto, aveva chiesto scusa per il suo nome buffo, e per questo sul viso era passata una tinta di rosso ancora più intenso.

    Invece Cinzia gli aveva fatto il regalo più bello e sorprendente di tutta la sua breve vita. Un bacio sulla guancia, proprio così, un bacio piccolo e fresco sul suo viso rovente; poi aveva raggiunto le sue amiche, lasciandolo solo e pietrificato.

    E innamorato.

    Da quel giorno Osvaldo e Cinzia erano diventati inseparabili, uniti nel gioco, nelle corse dalla campagna al paese per comprare tutto quanto di colorato e bello vende la signora Iole, comprese le scarpe da ginnastica rosso fiamma per lei.

    Quelle che ora si stagliano tra il giallo delle foglie e dall’alto sembrano appendici di sangue nel corpo immobile.

    Cinzia, implora Osvaldo, inginocchiato sul bordo del fosso, una mano ben salda al ramo sporgente che poteva essere la salvezza dell’amica.

    Se solo tu non l’avessi convinta al salto, pensa con la voce di Giacomo, in un sarcasmo così forte da graffiargli il respiro.

    Con l’altra mano, Osvaldo si asciuga le prime lacrime e nemmeno se ne accorge.

    La colpa è sua, sì, perché lui ha sfidato Cinzia a correre, mentre a quest’ora potevano essere sdraiati sul fienile del babbo a scherzare sui disegni delle nuvole. E magari lui avrebbe osato piano piano avvicinare la sua mano a quella di lei, forse addirittura sfiorarla, proprio quella mano che ora è così bianca e ferma.

    Aiuto, geme con il nome del fratello tra le labbra. Il bosco ha solo un sussurro indifferente di vento.

    Proporle una corsa gli era sembrato una grande idea, lei così felice delle sue nuove scarpe, lui così segretamente innamorato da decidere di farla vincere.

    Aiuto, implora ancora solo con se stesso. E spalanca occhi e bocca quando gli sembra di scorgere un movimento, laggiù nel fosso.

    Cinzia si è mossa, forse, o forse no, ma tanto basta. Osvaldo saetta in piedi. Ora è di nuovo vivo e sa cosa fare.

    - Vado a cercare qualcuno – urla – Non ti muovere – aggiunge, ricordandosi che nei film lo dicono sempre in questi casi.

    Cinzia sembra ascoltarlo anche troppo, immobile e silenziosa.

    Dai, è solo svenuta, dai, lo esorta Giacomo.

    E Osvaldo inizia a correre a ritroso, giù per la collina, verso la strada.

    Corre e corre, dimenticandosi quasi di respirare, gli occhi socchiusi che eliminano ogni colore intorno.

    Proprio come se fosse in un film.

    ***

    - Vai piano. Piano, accidenti.

    Giacomo smette del tutto, si scosta da Elisa e scivola con la schiena sulla coperta di lana.

    - Oddio, Giacomo – sente gemere la donna mentre i suoi occhi si arrampicano sul soffitto di legno – Ti sei arrabbiato?

    Lui chiude gli occhi, sperando che la domanda si dissolva nel silenzio, ma Elisa torna alla carica.

    - Giacomo? Giacomo.

    Un lungo sbuffare, che spezza la frase della donna. Poi, nel buio, Giacomo la ascolta piangere. Ma non si muove, non apre gli occhi, non parla nemmeno.

    - Scusa, scusa, è che, lo sai, se ci sentono, non siamo nemmeno sposati – cantilena Elisa da un luogo ormai lontano.

    E mica ci penso a sposarti, scema, le risponde lui, la bocca chiusa, sdraiato sul letto accanto alla donna che fino ad un attimo prima ha montato con foga.

    Bastava non farla tanto difficile, godersi l’attimo, e chi se ne frega se li sentivano. Tanto lo sanno tutti che Elisa è una sverginata, ormai buona solo per divertirsi.

    Ma lei si illude ancora, tanto appetibile quanto scema. Se ne sta lì, nell’angolo della chiesa riservato alle donne, e mentre il prete celebra la messa nella lingua antica dei romani, spera che al termine della funzione qualcuno le chieda di uscire e magari si innamori di lei.

    Giacomo apre gli occhi e finalmente si gira verso Elisa. Sorride.

    E lei gli risponde subito, con un sorriso fragile, l’espressione preoccupata che le copre il viso.

    - Ti sei arrabbiato?

    - No – la rassicura Giacomo, una mano che sfiora la sua guancia e sussurra amore, sul profilo delle labbra e poi giù, dove le dita indugiano, leggere, decise.

    Un mugolare, il collo offerto all’uomo, la schiena che si inarca.

    Povera scema, pensa l’uomo, gli occhi che divorano i capezzoli turgidi, povera sgualdrina, la mano che scivola ancora più giù e si serra su un seno.

    - Ahi! – esplode Elisa, tornando alla realtà. Guarda il suo Giacomo e ondeggia tra lo stupore e il dolore perché sul viso di lui intuisce un distacco improvviso e duro.

    - Giacomo! – urla di nuovo, quando sente la sua mano diventare tenaglia – Mi fai male, basta! – e tenta di allontanarsi, mentre le sue mani accorrono in soccorso del seno e cercano di liberarlo dalla presa.

    Ma l’uomo è ancora più lesto.

    Le afferra i capelli e le spinge il viso in basso, contro il cuscino, con forza. Una forza fatta di muscoli allenati nei campi, sotto il sole, sotto la pioggia, lungo il vento.

    Con tutto il corpo salta sulla schiena di lei e inizia a spingere ancora di più e di più.

    Il viso di Elisa affonda nella stoffa umida, mentre il resto di lei inizia una convulsa danza di ribellione alla morte.

    Giacomo guarda la nuca della donna e spinge, le ginocchia ben salde sulla sua schiena, mentre lei non può più nemmeno liberare le braccia, serrate tra il materasso e il suo stesso corpo. La pressione è così forte, che quello che le esce dalla bocca è solo un fiato breve e disarticolato.

    - Nulla di personale, sai. È che in questi giorni la gente deve distrarsi con altre notizie.

    Giacomo china il viso; le sue grandi mani e tutto il suo corpo diventano un macigno sull’agonia della donna.

    - Tu, tesoro, sarai la nostra notizia.

    Sono le ultime parole che lei sente.

    Ed è la prima volta che un uomo le parla con tanta dolcezza.

    ***

    Giacomo si alza dal letto e indossa la divisa da carabiniere, con gesti lenti.

    Ora è stanco, tanto stanco. E sudato.

    Non credeva che uccidere facesse sudare tanto anche in pieno autunno.

    Si avvicina alla stufa al centro del monolocale di Elisa e per un istante rimane a osservare i pigri bagliori delle fiamme sulla ghisa; poi, come scosso, allunga una mano verso la valvola di alimentazione e la gira al massimo.

    La stufa ha un lungo sbuffo, mentre la legna si consuma e le fiamme si arrampicano leste al suo interno.

    - Bene – approva l’uomo, allontanandosi.

    Una rapida occhiata lo rassicura sulla chiusura dell’unica finestra della stanza, oltre la tenda che cade sul pavimento in una lunga cascata di poliestere.

    - Sei stata brava, Elisa – ammette mentre prende un lembo della

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